La guarigione cosmica dei Tame Impala
Come Kevin Parker, un ragazzo ansioso figlio di un divorzio, ha abbracciato il suo rocker da stadio interiore e costruito una delle più grandi band di questo tempo
Una fatidica notte dello scorso autunno a Malibu, Kevin Parker era fatto e alticcio in una casa con vista sull’oceano presa in affitto, scrivendo canzoni e meravigliandosi della potenza delle correnti di Santa Ana . «C’era un vento apocalittico», ricorda. «Non riuscivo neanche a fumare il mio spinello in cortile». Mentre contemplava il Pacifico, il musicista 33enne, mente dietro il progetto psych-rock che ha conquistato le classifiche planetarie dietro lo pseudonimo Tame Impala, aveva mandato in loop un giro di batteria; nel frattempo dava qualche tiro al suo joint, sorseggiava un po’ di gin – o forse era vino, è solito alternarsi tra i due a seconda dell’effetto post-sbornia – aspettando l’ispirazione giusta. «Potevo starmene seduto lì con un beat in sottofondo per ore», ha detto Parker. «A volte non accade nulla, altre capita invece che mi arriva una melodia da cui vengo ossessionato».
Era nel bel mezzo del lavoro per il nuovo album dei Tame Impala – in uscita quest’estate – sperimentando con quelle che lui chiama strategie “pazze e stramboidi” per trovare nuove sonorità. Per fare un esempio, di recente gli era capitato di non trovare una melodia da accompagnare a una determinata progressione di accordi, per cui ha deciso di mettere quegli stessi accordi in loop durante la notte, mentre dormiva, in modo che le note uscissero dagli altoparlanti per entrare direttamente nei suoi sogni. «Volevo solo vedere cosa sarebbe successo», ricorda, «Forse è un effetto placebo, tuttavia un’ora dopo mi sono svegliato con una melodia in testa».
Quella notte a Malibu, Parker si è immerso nel fumo della marijuana e nel suono di una schiera di droni «Per fuggire dalla consapevolezza di ciò che stavo facendo, dato che ho una mente sobria e precisa: riuscivo a pensare soltanto alla pressione per le nuove canzoni». Parker – che scrive, suona, mixa e produce praticamente ogni suono di tutti gli album pubblicati dai Tame Impala – solitamente è sempre pieno di dubbi su quello che fa e tende a pensare troppo, mentre le canzoni che scrive in stato alterato lo colpiscono perché «Mi vengono naturali e senza sforzo, mi rappresentano nella mia purezza. Per questa ragione ho deciso: “Fanculo, dedichiamoci a una routine di questo tipo: notti intere passate da solo a sballarmi finché il sole non tramontava».
Quando Parker si è svegliato il giorno seguente, tuttavia, la città era in fiamme. Era il 9 novembre 2018, e l’incendio di Woolsey stava bruciando le aree a nordest di Los Angeles, in una furia che avrebbe poi ucciso tre persone e un numero imprecisato di animali, distrutto 1500 strutture e migliaia di ettari di habitat naturale e causato circa 6 miliardi di dollari di danni alle proprietà. Quella mattina Parker è stato svegliato alle 10, un po’ rintontito, dal suo manager che lo invitava a googlare l’incendio, cosa che gli ha infuso “un’ondata di panico”. Così è fuggito di casa con in mano solo il computer e il suo amato basso Vintage Hofner, «l’unica cosa che ho davvero paura di perdere». Lungo la Pacific Coast Highway, «potevo vedere le colline in fiamme. All’inizio ho pensato che fosse una visione epica, così sono rimasto lì per una decina di minuti a fare video. Poi ho visto le fiamme avvolgere le case della gente, e il cielo si è fatto nero.» La casa in affitto e tutti gli effetti personali di Kevin al suo interno sono finiti in cenere. «La mia storia sarebbe stata molto diversa se non mi fossi svegliato quando mi sono svegliato» dice.
Ora, siamo a metà aprile, Parker vive nella villa (5 stanze da letto) che ha comprato sulle colline di Hollywood un mese dopo l’incendio. Viene da Perth, nell’Australia occidentale, «L’altra capitale mondiale degli incendi» come suggerisce. Per quanto l’esperienza del fuoco lo abbia segnato, non è stata abbastanza per spingerlo a cambiare città per sempre. Ci troviamo in un patio nel dehors, e lui indossa una giacchetta in denim, un paio di jeans neri molto stretti e delle sneaker di Saint Laurent che gli ha regalato uno stylist dopo una performance in TV. Il nuovo album dei Tame Impala non è ancora finito, perché Parker è stato interrotto da vari eventi di cui il fuoco è stato il meno felice. A febbraio ha sposato la fidanzata con la quale sta da cinque anni, Sophie Lawrence, che conosce da quando entrambi erano tredicenni. A marzo, i Tame Impala hanno suonato al Saturday Night Live per la prima volta e qualche giorno fa hanno concluso il secondo di due live in veste di headliner al Coachella. Il suono è stato fantastico, grazie all’aiuto della storica touring band e i classici groove viaggiosi e distorti. Il loro palco stratosferico includeva torri di illuminazione mobili e, come elenca Parker, 18 cannoni di coriandoli, mezzo milione di dollari in laser affittati, un gigantesco anello lampeggiante tipo UFO, che cambiava colore e sparava fumo ovunque. Pare che l’anello costasse «una quantità titanica di soldi» dice, e che «mi hanno detto che non avrei potuto usarlo da nessun’altra parte, perché nessun palco è abbastanza grande per contenerlo. A meno che non andassimo a Glastonbury».
I Tame Impala in fin dei conti sono una rarità contemporanea, se non addirittura un ossimoro vivente: una giovane rock band incredibilmente famosa. Il loro successo stupisce Parker tanto quanto tutti gli altri. «Cercherò sempre di capire perché la gente ci ama» dice. In parte questa cosa è dovuta alla ballabilità dei loro pezzi, esemplificata nel nuovo singolo piano house Patience. Ma quando Parker è sceso dal palco del Coachella, è stato assalito da un sentimento molto familiare, l’insicurezza. «Delirare e sproloquiare su ciò che è andato male. Che è una cosa tipica di noi. Gli australiani non addolciscono nulla. Ci siamo detti: “Beh, è andato tutto a puttane. Che è successo alla batteria? E ai coriandoli?” Solo nove cannoni dei coriandoli hanno sparato nel ritornello finale!» Insomma, pare che Parker prenda sul serio questa cosa dei coriandoli. «Ne avevamo tipo 300 chilogrammi. Ne volevamo di più, ma poi ci hanno detto che dovevamo richiamare e ordinarne altri. Me ne andavo in giro tutto scazzato come una diva dei coriandoli. Poi il mio manager mi ha detto che già così avevamo battuto del doppio il record di coriandoli di Beyoncé. Mi sono sentito meglio.» Nel momento in cui ha lasciato il festival e ha parlato con gli amici entusiasti per il live, il suo voto sul concerto è salito a 9.
Parker sta ancora metabolizzando il fatto che, quando i fan lo guardano, vedono una rockstar. Lui, un sedicente introverso che iniziò la sua carriera come improvvisatore da cameretta, confezionando meticolosamente un sudicio garage rock in una delle città più isolate dell’Australia. Solo ora si sta aprendo alle sue folle adoranti e in continua espansione. «Essere una personalità sul palco non è di certo qualcosa con cui sono nato» dice. «Ma dirsi “Fanculo” e cominciare a essere un trascinatore di folle: questo proprio non mi ci vedo a farlo.»
Kevin ha sentito dire che Rihanna non noleggia i laser per i suoi concerti, li ha comprati. Potrà essere vero o no, ma la cosa non esce dalla testa del cantante. «I laser sono miei» intona per sentire che effetto fanno quelle parole uscite dalla bocca. «È qualcosa che mi piacerebbe poter dire per davvero un giorno». Quel giorno potrebbe arrivare presto. Quando il Coachella ha offerto ai Tame Impala il posto da headliner del sabato, lasciato vacante da Justin Timberlake per colpa di un guasto alle corde vocali, la sua reazione è stata: «Non ho detto subito: “Cazzo, sì, facciamolo!”» dice. «Ma è parte della mia nuova mentalità. Se ti danno un’opportunità, anche se non ti senti pronto devi accettare. Buttalo giù. O era battilo giù? Vabbè, qualcosa tra i due.» Ride.
Sulla cucina a isola di Parker c’è una scatola di sushi lasciata a metà, poco più in là qualche banana ormai andata a male. Passando il suo tempo tra Perth, Los Angeles e il tour, non si è mai trasferito realmente qui, lo dimostra la totale mancanza di mobili in tutti i 300 metri della casa, eccezion fatta per un recording desk e un materasso su cui collassare. Vicino a un’immensa vetrata con vista mozzafiato sulla città, Parker ha messo una pianta. «È surreale – è come se stessi occupando casa mia».
Ma in fondo Parker è abituato a uno stile di vita ‘transitorio’. Quando aveva quattro anni i suoi genitori divorziarono, finì a vivere con la madre, che definisce “uno spirito libero”, mentre suo fratello si trasferì dal padre, un contabile di una società mineraria, dal carattere decisamente più sobrio. «La mia famiglia continuò a vivere un dramma, anche dopo il divorzio», ricorda Parker. Alcuni anni dopo, racconta, suo padre lasciò la compagna per rimettersi insieme a sua madre, per poi tornare a separarsi. «Io e mio fratello abbiamo dovuto mandar giù tanta merda, non capivamo più quello che ci stava succedendo». Il padre è morto nel 2009, a 61 anni, a causa di un cancro alla pelle. Parker assimilò il dolore con l’acido e leggendo tantissimi libri sul buddismo e, dopo un periodo di allontanamento, si è riavvicinato alla madre.
Tutti quei traumi infantili lo trasformarono in un “bambino sensibile”. «Mi piaceva stare da solo, giocare ai videogame e andare in bicicletta. Non guardavo film violenti – erano troppo intensi per me, probabilmente perché non avevo solide basi emotive». Durante l’adolescenza cambiò radicalmente. «Alle superiori c’erano tantissimi ragazzi diversi tra loro. A 12 anni iniziai a essere un ribelle, a fumare erba. Diventai un vandalo, iniziai a fare graffiti. In una ferramenta rubai una pistola sparachiodi perché era la cosa più da duro che sono riuscito a trovare. Verso la metà delle superiori poi mi chiusi in un guscio, tornai a essere timido e introverso. Durante gli ultimi anni di liceo la musica divenne la mia vera identità».
Questa vita di continui stravolgimenti spiega perché il termine “change “(cambiamento, ndr), o un suo sinonimo, appare almeno una volta in ogni album dei Tame Impala: nello stoner rock di Innerspeaker (2010), nella psichedelia di Lonerism (2012) e nel danzereccio Currents (2015). Parker dice che il nuovo album sarà ricco di stili diversi. «Come ho gestito le influenze del passato? Questa volta non ho avuto paura di andare fino in fondo, di sfidare i limiti dei Tame Impala per spingerci ancora più in là». Un esempio? «Ho ritrovato la mia passione per il rock stramboide da stadio degli anni ’70», racconta, «come la roba epica dei Meat Loaf».
Il problema che attualmente preoccupa Parker maggiormente è un argomento molto vicino al tema del cambiamento: «Il tempo che passa. Questa sensazione che il tempo stia fuggendo sempre più veloce, che improvvisamente riesci a vedere come andrà il resto della tua vita. Hai mai letto Cent’anni di solitudine? Márquez? Non hai idea di dove il romanzo voglia andare a parare fino all’ultima pagina, e mi ha dato questa sensazione totalizzante di come la storia sia condannata a ripetere se stessa». Sorride. «Queste cose le ho lette su Wikipedia ma rende perfettamente come mi sento. Il romanzo racconta di questa famiglia che vive in piccolo villaggio, la storia si sviluppa in 100 anni, e alla fine ti da questa sensazione che non riesco a spiegare usando le parole, ma che mi ha ispirato in questo album. Non so bene che cosa mi abbia portato a pensieri del genere, forse c’entra anche il fatto di essermi appena sposato. Ti fa pensare a come sarà il resto della tua vita. Tuttavia sono sempre stato ossessionato dall’idea del tempo».
Questa ossessione, racconta, era uno dei pochi capisaldi della sua infanzia in mezzo a una vita familiare instabile: «Soltanto il fatto di andare a letto e vedere la stessa costellazione sul soffitto che avevo visto la notte precedenza era qualcosa che mi dava sicurezza». In seguito, all’università, si iscrisse a un corso di astronomia. Parker amava «trovare una stella la cui distanza in anni luce fosse uguale al mio numero di anni, il che significava che il suo aspetto era lo stesso del giorno della mia nascita. Era divertente». Una fissazione di questo tipo è perfettamente consona alla mente dietro i Tame Impala, di cui le migliori canzoni sono costruite come fossero consolazioni cosmiche, piene di synth eterei, groove morbidi e leggeri mantra cantati, che parlano di accettazione e rinnovamento.
Dopo aver lasciato il college, Parker si trasferì in una comune di Perth insieme a qualche amico musicista, con cui formò alcune band. All’epoca era diffidente nei confronti dell’ambizione, e non aveva nessuno intenzione di suonare davanti a una folla più grande di quelle che si radunavano nel bar di zona. Tuttavia, dopo che caricò alcuni brani su MySpace, i Tame Impala riscossero sempre più successo – prima a livello nazionale, poi, una volta firmato un contratto discografico, in tutto il mondo. «C’è questa cosa in Australia chiamata “la sindrome del papavero alto”», racconta riferendosi a quell’attitudine culturale per cui, se diventi troppo grosso, qualcuno verrà a segarti le gambe. A volte questa cosa può creare tensioni quando Parker torna a Perth. «Ero nel mio pub preferito qualche giorno dopo l’uscita di Currents, si avvicina un tizio e mi dice, “Hai sentito il nuovo album di Tyler, the Creator?”, gli dissi di no, e lui rispose “È grandioso, molto meglio di qualunque cosa tu abbia mai fatto”, e se n’è andato via. Ci rimasi male, pensai “figlio di puttana”. Sento che qualcosa è cambiato nel modo in cui mi sento quanto sono nella mia città». Nella sua voce si sente quanto questa sensazione lo abbia segnato. «Non è necessariamente questo il motivo per cui ho deciso di trasferirmi a Los Angeles, tuttavia quella volta pensai, “Ecco perché la gente va a vivere a Los Angeles”». Ovviamente anche lui in passato la pensava come quel tizio incontrato nel bar: lo stesso Parker era solito prendere in giro le band della scena di Perth con cui condivideva i palchi, descritti come “gente con tagli di capelli appariscenti e una strumentazione costosa”. Ora, ammette, «Quella gente sono io».
Parker si ferma e scende davanti a una sala prove di Burbank per ritrovarsi col resto della sua band del tour. Il suo batterista, Julien Barbagallo, sta per avere un figlio, il che significa che si perderà un po’ di date estive. Al suo posto alla batteria siederà Loren Humphrey, già batterista di Florence and the Machine. «Una volta stavamo provando qui ed è arrivato Paul McCartney», racconta Parker entrando nella sala prove. «Uno dei nostri gli ha chiesto una foto insieme e lui ha risposto no!»
La band attacca subito con una delle sue più grandi hit, Let It Happen, una traccia di quasi 8 minuti che inizia a saltare di proposito, come un CD rotto, verso la sua metà. «Sul disco, l’intero mix inizia a ripetersi» dice il cantante. «Quindi dobbiamo farlo anche quando suoniamo live». Quindi gli strumenti devono singhiozzare bene, all’unisono e a tempo. Impostano l’inizio dalla parte in cui salta il brano, e continuano a provarla all’infinito, ancora e ancora, mentre Parker usa il pedale del delay per innescare i balbettii lanciandoli alla band come se fosse un allenatore che segue i suoi atleti dal furgone. È un momento che richiede estrema concentrazione e controllo, cosa alquanto divertente se teniamo conto che la canzone parla di lasciarsi andare senza pensare alle conseguenze.
Ma lasciarsi andare è più semplice da dire che da fare. A questo punto, Kevin mi racconta di una notte che ha passato a casa con amici a Perth un paio di mesi fa, consumando funghetti allucinogeni, che lui chiama “mushies”. «Ho deciso di seppellire nel giardino uno dei miei ARIA, sostanzialmente una versione australiana dei Grammy. Credo che qualcuno ne stesse tenendo in mano uno e io ho detto: “Cazzo, seppelliamolo. Profondo.” Non ricordo bene quale premio fosse, forse Best Rock Album per Lonerism». Ride. «Chissà quando verrà di nuovo alla luce quell’oggetto. Questo prisma triangolare di metallo. Per quanto tempo rimarrà sotto la terra? E se qualcuno lo disseppellirà, chi sarà? E sarà un essere umano?»
Dico a Parker che con questo gesto sembra quasi volesse demistificare il successo, trasformarlo in un rottame di scarto senza importanza – se fosse scoperto da esseri sconosciuti che non hanno idea di cosa sia il premio o le parole scritte su di esso. Ma ho capito male io le parole di Kevin. «Il punto era proprio quello» dice. «Voglio che lo leggano e dicano: “Kevin Parker. Lui viveva qui.”»