È felice di essere di nuovo in tour, Kevin Parker. The Slow Rush dei Tame Impala è stato uno degli ultimi album usciti prima della pandemia: era il febbraio 2020, dopodiché l’arrivo del Covid ne ha segnato il destino e per ascoltarlo dal vivo si è dovuto attendere un pezzo. Specie in Italia, dove si recupererà il 7 settembre all’Ippodromo San Siro di Milano con un concerto che si preannuncia più festaiolo che mai.
Chi vide la band nell’estate 2016 sempre a Milano ricorderà l’atmosfera da party che si respirava nell’area eventi (oggi defunta) dei Mercati Generali, tra giochi di luce, piogge di coriandoli e il colorato miscuglio di rock psichedelico, melodie seducenti e tessiture sintetiche che Parker e i musicisti che lo affiancano sul palco sanno creare dal vivo. Sono trascorsi sei anni da quel concerto e due e mezzo dall’uscita di The Slow Rush, album in cui il 36enne e unico fautore di tutto ciò che è targato Tame Impala gioca a richiamare Daft Punk e Supertramp, così come i Beatles di Sgt. Pepper’s e i Flaming Lips, combinando sapori vintage della disco anni ’70 con groove elettronici più contemporanei. Dietro a tutto questo c’è lui, Kevin Parker, il cantante e polistrumentista che nel giro di quattro dischi è riuscito a guadagnarsi la fama di genietto tuttofare che scrive, arrangia, mixa, suona, canta, ottenendo un posto d’onore tra i produttori più richiesti dal pop mainstream, con all’attivo collaborazioni con Lady Gaga, Rihanna, The Weeknd e Kanye West, giusto per citare qualcuno dei nomi più grossi nel suo portfolio.
In Italia, dove ad aprire lo show sono stati chiamati Nu Guinea e Giorgio Poi, Parker torna dopo una lunga assenza e in collegamento su Zoom confida: «Devo riconoscere che lo stop ai concerti dovuto alla pandemia ha contribuito a rinnovare il mio amore per i live. Negli anni precedenti ero stato in tour così tanto che il bisogno di una pausa era prevalso e, ora che questa sosta c’è stata, sto suonando dal vivo con un rinnovato entusiasmo. Adoro la sensazione che ti pervade quando stai davanti a tutta quella gente. Quando abbiamo ripreso a fare concerti mi è sembrato fosse la prima volta che facevo una cosa del genere nella vita, incredibile. E soprattutto spaventoso: ritrovarmi davanti alla folla mi ha impressionato tanto da pensare “oh merda, ma qua ci sono migliaia di persone!”».
In effetti se c’è un progetto che negli ultimi anni è cresciuto in maniera costante, è proprio il suo; basti dire che The Slow Rush, oltre ad avere scalato le classifiche di più Paesi, si è aggiudicato due nomination ai Grammy, cinque Aria Awards e diversi altri premi diventando l’album più di successo dei Tame Impala. Insomma, il Covid non ha fatto male a Parker, che anche per prolungare il ciclo di vita del disco – in tempi di usa e getta è una strategia sempre più necessaria – lo scorso febbraio ha pubblicato The Slow Rush Deluxe Box Set, raccolta di b-side inediti e remix firmati da artisti come Four Tet e Blood Orange. «Ai fan le deluxe edition piacciono, non ne avrei fatta una se non mi fossero arrivate richieste in tal senso», osserva Parker.
«Ciò che mi sorprende è la velocità con cui alcuni le tirano fuori, se non sbaglio The Weekend ha pubblicato quella di After Hours pochi giorni dopo l’uscita dello stesso. Per quel che mi riguarda i cicli di vita dei miei dischi sono diversi ogni volta, e per le ragioni più disparate. In questo caso sono innanzitutto grato del fatto che The Slow Rush non sia un album “pandemico”: prima di finire in lockdown, abbiamo potuto godercelo per circa un mese. Dopodiché la scommessa è diventata quella di ricavare il meglio dal peggio, dati gli avvenimenti che ci hanno scosso». Viva i remix, dunque: «Sono un’operazione interessante: hai un artista che stimi, gli chiedi di rivisitare un tuo pezzo… E i miei brani sono perfetti per questo, sono remixabili per definizione. Il mio preferito è quello di Four Tet. Lo seguo da sempre e lo stimo perché è un artista imprevedibile che ti dà ciò che non ti aspetti».
Quanto agli inediti, tematicamente si collegano all’argomento di fondo di The Slow Rush, l’inesorabile scorrere del tempo e l’impatto che ha sulle nostre esistenze. «Ho sempre avuto un rapporto molto emotivo con il tempo», commenta oggi Parker. «Mi ha sempre intrigato il modo in cui, passando, finisca per trasformare tutto in nostalgia, così che persino i ricordi più brutti possono diventare grandiosi o comunque qualcosa cui sei legato. È un fenomeno potente e con The Slow Rush volevo catturarne la forza. I b-side inclusi nella versione deluxe vanno nella stessa direzione, ma trattandosi di canzoni che erano rimaste escluse dal disco, non le avevo finite, per cui mi sono ritrovato a tornarci su in un momento diverso della mia vita, rispetto a quando li avevo buttati giù a mo’ di spunti o bozze. Ed è stato strano, perché parliamo di brani nuovi che però erano nati in un periodo che per me era già alle mie spalle, e nel frattempo il mio gusto era cambiato. Al tempo stesso mi sono divertito a riprenderli in mano, è stato come dare loro una nuova chance».
‘What are we living for?’, si chiede Parker in No Choice, lui che ha avuto un padre che suonava in una cover band del quale ha spesso parlato come di una fonte d’ispirazione fondamentale, ma che ha anche sofferto per la separazione dei genitori che lo ha portato a vivere con la madre, nella periferia di Perth, all’età di 4 anni. Facile immaginare cosa abbia significato la nascita della sua prima figlia nel 2021. «Buffo pensare che all’uscita di The Slow Rush lei non ci fosse ancora; la paternità è una svolta enorme, credo mi stimolerà anche musicalmente. Una cosa, però, è già cambiata: essere genitori ti costringe a concentrarti su ciò che conta lasciando perdere le cose meno importanti, prima mi capitava di perdermi su aspetti che ora mi sembrano superflui».
Restando fedele al suo Solitudine is Bliss, subito aggiunge: «Non che adesso non voglia più perdermi via quando sono in studio…». A proposito del prossimo album dei Tame Impala non si sbottona granché: «Non so nulla, se non che non farò mai un disco uguale a un altro. Lavorare per artisti pop come ho fatto in questi anni ha arricchito la mia visione, vedremo dove questo mi condurrà». Di una cosa, però, si dice convinto: «Senza musica morirei, di sicuro soffrirei mentalmente. Sì, la musica mi ha permesso di non impazzire, ne sono certo al 100%. È una terapia, perché quando nei brani finisci per tirar fuori cose di cui hai difficoltà a parlare nella vita di tutti i giorni, è come se fossi dall’analista. Vale per i testi, ma anche per la musica: mi aiuta a calmarmi. C’entra anche un bisogno di fuga dal mondo che in quel che faccio è centrale. Anzi, mi azzardo a dire che se la mia musica suona come suona è proprio perché la uso come mezzo per fuggire dalla realtà della vita».
Nessun nichilismo o pessimismo, si tratta semplicemente di prendere atto che stare al mondo può essere psicologicamente faticoso. Per il resto, almeno fino ad ora, a Parker è andata alla grande. «Sono fortunato, ho visto la mia platea aumentare gradualmente e non posso che provare gratitudine, non accade a tutti. Ho trascorso anni a suonare interminabili jam psichedeliche e lunghi assoli di chitarra di fronte a poca gente, è stupendo poter vedere oggi, sotto al palco, quella folla. E questo benché sia un’esperienza radicalmente diversa, che ti richiede di focalizzarti sulle cose grandi e semplici nella consapevolezza che nei grandi show i dettagli si perdono, non vengono notati. È un po’ una nuova sfida, intrattenere così tante persone, è come fare un lavoro diverso. Ma mi piace, non ci rinuncerei per niente al mondo».
Il periodo storico richiede, però, qualche passo indietro in termini di difesa dell’ambiente: «Inutile nascondere la testa sotto la sabbia, i tour inquinano», riconosce Parker. Di qui la decisione di devolvere un euro a biglietto all’associazione ambientalista Reverb, fondata nel 2004 dall’ecologista Lauren Sullivan con Adam Gardner dei Guster, già al fianco di Billie Eilish, Lorde, Harry Styles, Lumineers e Dave Matthews Band, tra gli altri. «Io e il mio team, dalla band al management, siamo per la salvaguardia del pianeta e vogliamo semplicemente cercare di fare la cosa giusta. Sappiamo benissimo che i tour sono un punto di debolezza, che dal primo momento in cui usciamo di casa per andare a suonare in giro produciamo emissioni di anidride carbonica. Il punto è comprendere come si possono minimizzare tali conseguenze. Reverb è un’organizzazione non profit con cui lavoriamo per conseguire questo obiettivo, per esempio evitando che si usi plastica ai concerti. Si tratta di compiere tanti piccoli gesti che man mano andranno a comporre un puzzle di soluzioni. Ci vorrà tempo perché i tour diventino sostenibili, e sarà un percorso ad ostacoli, ma vogliamo essere in prima linea in questa battaglia”.