“Lunga vita agli anni Novanta”… internally screaming. Non è soltanto il figlio del Festivalbar che alberga in tutti noi a urlarlo dentro. E non è neppure l’ennesimo meme. Il nostalgia marketing che di questi tempi tiene banco a tutto spiano stavolta non c’entra nulla. Provate a farvi un giro su YouTube tra i commenti al video di Save Tonight di Eagle-Eye Cherry. Dopo averli letti sarà tutto più chiaro. Nell’era in cui lo streaming ci ha reso orfani di esperienze d’ascolto collettive pezzi come questo vivono al sicuro tra le memorie musicali di una generazione perché rappresentano uno spaccato temporale di vita ben preciso.
È il 1998 e attraverso gli schermi dei nostri televisori a tubo catodico scopriamo un giovane virgulto del pop, figlio di un leggendario trombettista jazz e fratello di quella Neneh già ai vertici delle classifiche con Woman. Chitarra in spalla, voce blues alla Ben Harper, Eagle-Eye ha pronto in canna un motivetto pop-rock di quelli che ti entrano in testa. E lì rimangono. Il trionfo è assicurato: via con un tour in giro per il mondo, qualche featuring di cui andare fiero e almeno altre due hit da classifica, Falling in Love Again e Are You Still Having Fun. Amen. E poi?
Sebbene il cantante abbia continuato a esibirsi dal vivo, gli album a seguire non hanno mai riscosso il successo degli esordi. Nel 2012 l’abbiamo persino visto sul palcoscenico di The Voice of Romania come super ospite e oggi viene da chiedersi: che fine ha fatto Eagle-Eye Cherry? Noi l’abbiamo raggiunto al Four Seasons di Milano prima del suo concerto di stasera alla Santeria di Milano, di nuovo on stage per celebrare proprio i 25 anni da quella (s)volta.
Cosa beviamo?
Un tè inglese può andar bene vista l’ora.
Pronto a fare un tuffo nei ricordi?
Prontissimo.
Sei nato a Stoccolma, poi c’è stata New York e infine il ritorno a casa. Quanta infanzia c’è nella tua musica?
Quando sto a Stoccolma mi sento come un americano in Svezia. E quando sto a New York come uno svedese in America. Questi luoghi rappresentano tutto ciò che sono. Ho trascorso l’adolescenza a New York City, frequentando la High School of Performing Arts e suonando la batteria in un paio di band. Stavo costruendo il mio background. Le chitarre acustiche del mio primo album sono lo specchio di quella country life tra boschi a perdita d’occhio appena fuori Stoccolma. I testi delle mie canzoni invece hanno molto a che vedere con New York. A un certo punto ho anche pensato di spostarmi a San Francisco: ci viveva mio padre e io desideravo una città grande ma non così intensa come la Grande Mela. Iniziavo a scoprire in me l’animo del musicista, poi un giorno ho conosciuto una ragazza svedese, ho preso a frequentare la scena musicale locale allacciando rapporti con un’etichetta indipendente e mi son detto: se non funziona me ne tornerò da dove sono venuto, se invece dovesse funzionare sono pronto a conquistare il mondo.
Sono trascorsi 25 anni dal debutto con Desireless. Che effetto fa?
Festeggio ogni volta che salgo su un palco. Canto ancora diverse canzoni di quel disco e l’accoglienza del pubblico è sempre di grande impatto. Stava par materializzarsi la possibilità di rimettere mano all’originale multritraccia, ma nessuno sa che fine abbia fatto. È andata perduta chissà dove in qualche società discografica. Avrei potuto ricavarne una riedizione ma qualche idiota deve averla persa. Magari per il trentesimo anniversario succederà qualcosa ma occorre iniziare a lavorarci sin da ora.
Save Tonight come si è materializzata?
Ho scritto Save Tonight in un pomeriggio, l’ho ritenuta sin da subito molto orecchiabile ma non potevo immaginare che si sarebbe trasformata in una hit planetaria. Avevo 27 anni quando la canzone è esplosa ma ero già abbastanza sveglio e consapevole per capire che quello era il mio momento.
In Italia ti ricordiamo sul palco del Festivalbar. Che pensavi dello show ai tempi?
Era una manifestazione musicale itinerante e ogni volta ci si trovava in posti diversi. Ricordo benissimo la tappa all’Isola d’Elba ad esempio. La produzione dello spettacolo era notevole per quegli anni. Gli italiani sono bravi in queste cose. È stato bizzarro esibirsi sempre in playback senza che il pubblico se ne accorgesse. In America chi va in tv non può non esibirsi dal vivo.
Dopo aver venduto quattro milioni di copie col disco di debutto come ci si sente?
Se qualcuno dovesse chiedermi cosa consigliare ai giovani artisti direi loro di tenere un diario, di scriversi le cose – anche soltanto poche righe – giorno per giorno, per tenere bene a mente tutte le emozioni e far sì che nulla venga dimenticato.
Poi sono successe delle cose, ad esempio la collaborazione con Carlos Santana.
Voleva raggiungere il grande pubblico, nonostante la sua fan base fosse già solidissima. Per farlo decise di coinvolgere in prima persona dei giovani artisti emergenti. A San Francisco qualche tempo prima aveva già conosciuto mio padre, che morì nel 1995. Così Carlos scelse me. Ricordo che la notte prima delle registrazioni negli studi di Los Angeles abbiamo fatto una festa pazzesca. Il mio chitarrista continuava a ripetermi di andarmene a letto, «ehi devi suonare con Carlos Santana domani mattina». Alle fine gli ho dato ascolto, ma abbiamo fatto tardissimo. Sono stato un folle. Oggi non lo rifarei.
Hai mai pensato di reinventarti magari come produttore in questi anni?
All’inizio sì, mi hanno sempre affascinato le relazioni con gli artisti. Oggi non ne sono più convinto. Ho iniziato a scrivere per gli altri e credo sia questa la mia dimensione migliore. Permettere che qualcuno canti i miei testi su melodie che non appartengono al mio range vocale. Come è accaduto con Titiyo, con la quale ho anche duettato nel pezzo Worried Eyes.
Negli anni Duemila cos’hai fatto?
Sono andato in tour vivendo on the road tra l’Europa e l’America. Dopo aver terminato l’ultima tournée mondiale nel 2019 sono entrato subito in studio per registrare un po’ di roba nuova, spinto dall’energia e dalla sensazione di ottimismo che avevo raccolto durante i concerti. Poi la pandemia mi ha messo in attesa, ma finalmente è uscito Back on Track. Ho anche imparato a cucinare e ho iniziato a giocare a calcio qui a Stoccolma, ma trovo il modo di praticarlo anche quando sono lontano da casa. È una terapia per me, sia un punto di vista fisico sia mentale perché posso urlare e buttare tutto fuori. Ho messo su famiglia, adesso ho una figlia, Daisy, e sostenerla è il mio più grande progetto di vita.