Quella che state per leggere è un’intervista speciale – detto da uno che di rapper italiani ne ha incontrati tanti, tantissimi – quasi un capitolo del romanzo di formazione di un artista unico nel panorama italiano. Mi hanno stupito la lucidità e l’orgoglio di Tedua – che ho incontrato negli uffici della Sony mentre autografava, a mo’ di catena di montaggio, centinaia e centinaia di vinili – nel raccontare la genesi della sua Divina Commedia e le vicende della sua vita che lo hanno portato a fare un album diverso da tutti gli altri, ma nonostante questo mainstream, disco d’oro in una settimana. Un piccolo viaggio, in forma di Q&A, che parte da Genova, dove tutto è iniziato.
Ho visto il tuo dialogo con Gino Paoli nel documentario La nuova scuola genovese e ho capito che fare rap nella città dei cantautori, dove la realness esisteva prima che fosse coniato il termine, è sicuramente diverso da farlo in qualsiasi altro contesto. Quanto e in che modo Genova ha condizionato la tua scrittura e il tuo modo di fare rap?
Milano è una città che bada alla forma, Genova al contenuto. Nelle realtà hip hop, ma anche in quella della scena techno o dei centro sociali fino ad arrivare ai bravi ragazzi che fanno i bagnini d’estate, c’è una cultura media molto diffusa: Genova viene dal latino “ianua” che significa “porta”, una porta culturale sul mare verso gli altri mondi, una delle prime città in Italia a liberarsi dal fascismo, quindi la lotta sociale… queste sono frasi un po’ da comunista, porta pazienza.
Beh, Genova storicamente è sempre stata orientata a sinistra.
Sì, lo è molto, questo non vuol dire però che votiamo PD! La lotta sociale e la rivendicazione dei diritti degli operai fa sì che anche in un contesto di miseria non ci sia povertà intellettuale.
Come mai a Genova non ha attecchito il modello hip hop più di moda, quello con i brillocchi, il ghiaccio al polso, i macchinoni?
Perché ci sono le colline! Il mare davanti ti dà un senso di orizzonte infinito che ti permette di sognare e immaginare, le montagne invece bloccano le mode. I social network ultimamente hanno un po’ abbattuto questo ostacolo, ma non è mai come altrove.
In Outro Purgatorio rappi: “In quella piazza ho visto laureati / parlar di politica storia e finanza con dei portuali”.
A Genova i laureati, o quelli più giovani che fanno il classico e lo scientifico, vivono la piazza delle canne, delle risse e delle battute sulla figa insieme ai ragazzi beceri, ignoranti portuali e muratori, ed entrambi oltre che di calcio e di droga parlano di politica, storia e finanza. L’ho visto fare durante tutta la mia adolescenza. Di solito i ricchi si ghettizzano molto – l’ho visto con i miei occhi a Bogotà, in Colombia, ma pure nella Napoli bene – invece a Genova è tutto mischiato, a partire dallo stadio. Da ragazzino per capire quanto “facesse brutto” una città la giudicavo in base alla tifoseria delle gradinate. Quando vai a Marassi puoi vedere bambini, laureati e spazzini cantare insieme per novanta minuti come succede negli stadi argentini, e questo folklore unisce le persone, i salotti borghesi e le realtà urban.
Tu adesso dici di essere diventato un borghese, attento però a non snaturare le tue origini. Cito una tua rima: “nell’apparenza stavo perdendo la mia essenza”. Si può essere allo stesso tempo artisti e borghesi?
Sì, spero di non essere diventato il luogo comune dei radical chic, ovvero chi si impegna socialmente solo dal salotto di casa per colmare un senso di inadeguatezza ma senza dare un vero contributo. Il mio contributo è smuovere le coscienze di migliaia di fan rendendo lo star system un po’ meno superficiale.
Parli spesso della tua scalata sociale. Non è un po’ contraddittoria questa idea rispetto a quello che mi hai appena detto?
No, a meno che non diventi un milanese imbruttito che fa discorsi superficiali sul suo yacht in Costa Smeralda. Come molti lavoratori beneficio dei risultati raggiunti in una realtà dura che non ti permettere di vivere con 1200 euro al mese. La scalata sociale ha senso se oltre ad arricchire il conto in banca riesci ad arricchirti dentro, mantenendo valori e semplicità. Se sei felice di svegliarti al mattino, fare il pranzo e la cena, hai delle persone che vuoi bene al tuo fianco non te ne frega niente dello yacht in Costa Smeralda. Puoi diventare ricco mantenendo l’umiltà del ragazzo di strada, arricchendoti culturalmente e spiritualmente.
Nel tuo fare musica c’è un’attenzione particolare alla scrittura, più che nel rap di altri tuoi colleghi. Da dove nasce questo interesse?
Purtroppo non sono un “classicista” e ogni tanto faccio il passo più lungo della gamba, ma non per ostentare qualcosa, per ingenuità. Sono cresciuto tra intellettuali e gente da galera, e così ho imparato – come metafora della mia dialettica – a dare sia le carezze che i pugni. Inoltre ho avuto una maestra di italiano alle elementari molto brava ed essendo io espansivo, estroverso e logorroico credo che l’uso della parola, a livello psicologico, mi abbia salvato dall’assenza di una famiglia: a scuola da piccolo mi dicevano che avrei potuto fare il politico o l’avvocato.
Avevi una buona dialettica?
Sì, ma soprattutto un gran carisma e un grande parlantina. Ero molto polemico nei confronti delle ingiustizie. Poi è successo che mi ha cresciuto una signora affidataria, Elena, che era anziana e aveva valori post guerra: una sorta di nonna che usava termini e dizione diversi da quelli delle famiglie dei miei coetanei. Anche questo ha influito molto nella mia formazione, come è stata importante la frequentazione, tra i 17 e i 20 anni, con Paolo, mio fratello acquisito: un classicista figlio di una classicista e di un ingegnere, che è stato anche un ragazzo di strada ma ora fa il medico. Sua madre era figlia di venditori di formaggio molto poveri, si era laureata in veterinaria lavorando per pagarsi gli studi, e così suo padre figlio di un meccanico: mi ha cresciuto una famiglia di sinistra non radical chic che si è fatta da sola grazie alla cultura, allo studio e all’impegno, e che riusciva anche a trovare il tempo per dare una mano agli amici scappati di casa del figlio. Loro sono stati l’ultima delle mie tante famiglie affidatarie e mi hanno preso che ero già formato, ignorante e dell’alberghiero, e l’unica cultura che avevo me l’ero fatta grazie al fatto che ero più sveglio degli altri, essendo cresciuto senza genitori, arrangiandomi e facendo tante esperienze. Aggiungici poi un lungo percorso di servizi sociali con la psicologa dove ho imparato un po’ di life coaching, di filosofia, di psicoterapia. E tutti mi dicevano “ah se ti avessi preso da bambino”, perché – come dico nel pezzo con Geolier – “gli alberi li poti da piccoli”. In terza media volevano che facessi il classico e io ho scelto l’alberghiero perché si studiava meno e avrei avuto tempo per il rap. Quindi ho letto meno libri di quelli che avrei potuto leggere, con l’arte dell’arrangio mi sono creato una dialettica ma da grande non sarò mai come De André o Pasolini. Forse posso recuperare. L’ultima cosa da cui ho preso tanto è il rap italiano, quello old school, Gué e i Club Dogo, Dargen D’Amico: erano i miei audiolibri.
Gué è uno di quelli che chiami classicisti, ha fatto il liceo classico. Nel pezzo col lui, Scala di Milano, rappi: “Spero che i rapper facciano gli scrittori”.
Che tornino a fare gli scrittori! Come Marracash, grande scrittura lirica che viene dai palazzi, ma era una generazione diversa, dove c’era più spessore culturale: quei ragazzi street studiavano, noi eravamo delle bestie. L’unico forte che si è visto negli ultimi dieci anni è Kid Yugi, che è fresco di studi, ha fatto lo scientifico. Ragazzi, non prendiamoci per il culo: per fare il rap fatto bene ci vuole cultura. Certo, oltre vent’anni di tv commerciale e rincoglionimento generale hanno reso tutto questo più difficile.
Ne La Verità dici: “Meglio finto intellettuale che finto criminale”. Cosa intendi?
Rispondo alle critiche di chi diceva che il mio modo di parlare volesse ostentare di essere un finto intellettuale. Magari ci sarà un 10% di me che vuole dimostrare agli altri di potercela fare venendo dal basso, ma il resto è frutto solo delle mie esperienze.
E la consapevolezza che hai oggi di te stesso ti ha portato a fare un disco e chiamarlo Divina Commedia. È una provocazione o cosa?
Dal punto di vista culturale può essere pretenzioso, dal punto di vista hip hop è una bella mossa da gradasso, da uno sicuro di sé. È una bella strafottenza da alberghiero! Non mistifico la letteratura, essendo uno scrittore so che anche gli altri erano degli scappati di casa come me, è la critica che mistifica. E poi ricordi che uno come Tupac si ispirava a Macchiavelli… Certo c’è ci mi accusa sui social di non esser stato fedele al testo di Dante, ma questa è la “mia” divina commedia.
C’è tanto Purgatorio in questa tua Divina Commedia, non molto Inferno…
L’Inferno sono i pezzi col lussurioso Sfera Ebbasta, la hit con Lazza che rappresenta il compromesso del marketing in un prodotto di qualità, e il banger con Baby Gang, un’anima dannata che direttamente dal girone del carcere ci manda la sua strofa. Non avevo bisogno di sfogare la mia depressione nell’inferno, mi sarebbe sembrato un piantino da vittima. E poi non mi andava di parlare di Covid nel disco. In quel periodo mi ero distaccato anche dal sentirmi rapper, ascoltavo meno musica, guardavo meno film, mi ossessionavo a guardare tutti i giorni Myrta Merlino sul canale YouTube de La7 e non sopportavo come veniva gestita la comunicazione nel mio paese all’interno di un’emergenza. Non riuscivo a vedere il bello della vita perché ero frustato, risentito, in opposizione, come in tempi di guerra. Ero ossessionato di contro informazione, il mio essere ribelle e contro il sistema mi ha riempito di energia negativa. Non posso dire la verità, neanche a te, perché poi la scrivi su Rolling Stone…
…e ti prendono per complottista!
Ma non lo sono, mio fratello acquisito è un medico, ho fiducia nella scienza, semplicemente non mi è piaciuto il Green Pass inteso come strumento sanitario perché per me era solo uno strumento politico. Ero pieno di rabbia e quello che scrivevo era senza stimoli, vuoto, pandemia music. Sono rinato solo a maggio 2022, col viaggio in America. Se non sono pieno di vita e non ricevo stimoli dalle persone non posso fare lo scrittore. Posso solo essere un rapper come gli altri, ma non posso essere unico.
Vorresti fare lo scrittore, oltre che il cantante?
Vorrei scrivere una sceneggiatura, non un libro.
I rapper che fanno i feat in questa Divina Commedia sembrano essere particolarmente ispirati, a loro agio. Forse perché sanno che il tuo particolare modo di rappare non è in competizione con loro…
È verissimo. Gué è arrivato pure a parlare di suo padre, cosa che non fa mai.
Come sei riuscito a trovare un equilibrio per far convivere in un disco pezzi pop e pezzi poco commerciali, quasi di slam poetry, come Bagagli e Outro Purgatorio?
Mi piace definirlo un disco mainstream e non pop. Secondo me sono stato bravissimo. L’inferno rappresenta l’inizio della fama, perché quella che prima era una passione che poteva cambiarti la vita, quando poi te la cambia diventa un lavoro. E il lavoro ha dei compromessi perché vendi un prodotto all’interno di un’industria quindi il Purgatorio non è altro che il viaggio della consapevolezza per riacquisire coscienza di sé: diventi famoso, hai sfogato i tuoi traumi da adolescente e ti chiedi “chi sono?”. Col Purgatorio ti fai un sacco di pippe mentali e capisci chi sei. Quando l’hai capito e sei soddisfatto della tua arte, quello è il Paradiso, che non è la perfezione, perché quella non esiste. Sono stato bravo perché ho rispettato il compromesso dell’industria senza snaturare la mia spontaneità artistica, quella che puoi sentire in Intro, Outro, Bagagli, nella strofa con Gué e in quella con Marra.