Tenete duro, Nick Cave sta arrivando per darvi conforto | Rolling Stone Italia
Il tempo della redenzione

Tenete duro, Nick Cave sta arrivando per darvi conforto

Un’intervista in attesa del concerto del 20 ottobre a Milano: l’effetto sulla gente della gioia espressa in ‘Wild God’, il gospel ascoltato in chiesa, l’idea di trascendenza, la grandezza di Elvis a Las Vegas

Tenete duro, Nick Cave sta arrivando per darvi conforto

Nick Cave

Foto: Ian Allen

L’anno scorso, nel bel mezzo di un tour, Nick Cave ha avuto un’illuminazione. Lui, che ha costruito una carriera guidando delle band (Birthday Party, Bad Seeds, Grinderman), si esibiva al pianoforte accompagnato dal solo Colin Greenwood, il bassista dei Radiohead. Mentre i due si misuravano con una scaletta di un paio di dozzine di canzoni a sera, Cave ha iniziato a riflettere sul suo songwriting.

«Cantavo queste canzoni – vecchie e nuove, tratte da un repertorio spalmato su più di 45 anni – da solo al pianoforte, accompagnato dal basso, e mi sono accorto che trasmettevano ancora il loro messaggio originale», dice al telefono, pesando accuratamente le parole. «I pezzi erano in stili diversi, eppure le mie inquietudini erano praticamente le stesse e sono rimaste tali nel tempo. Ruotano attorno ai concetti di trascendenza e di perdita. Le canzoni parlano di perdita a livello personale o universale».

Sono anche gli argomenti dell’ultimo album coi Bad Seeds Wild God, ma sono trattati con meno pessimismo. “Abbiamo avuto tutti troppi dispiaceri, è il momento di essere felici”, recita il testo di Joy. Anche se la voce di Cave sembra rompersi, è un momento importantissimo alla luce delle gravi perdite che ha subìto. Negli ultimi dieci anni gli sono morti i due figli Arthur e Jethro Lazenby, la madre Dawn e la amica e partner creativa Anita Lane.

Nei suoi ultimi tre album – Skeleton Tree del 2016 coi Bad Seeds, Ghosteen del 2019 e Carnage del 2021, in collaborazione con Warren Ellis, da tempo suo braccio destro musicale – ha affrontato in maniera peculiare questo dolore straziante. Ha anche raccontato di come si senta cambiato dopo questi lutti nelle lettere aperte ai fan contenute in Red Hand Files e nel libro del 2022 Fede, speranza e carneficina basato su una lunga intervista col co-autore Seán O’Hagan.

Wild God è tutta un’altra storia. Non è allegro come una canzonetta pop buona per TikTok, ma è più ottimista, ovviamente alla maniera di Nick Cave. In Frogs, un pezzo art rock che può ricordare lo stile di Scott Walker e Jimmy Webb di fine anni ’60, pur suonando in tutto e per tutto come una canzone di Cave, implora comprensione “sotto la pioggia della domenica”. Nelle prime due canzoni dell’album Song of the Lake e Wild God la sua band suona in tonalità maggiore, mentre lui canta di lasciarsi alle spalle il passato. In Conversion urla come un ossesso “sono stato toccato dallo spirito, toccato dalla fiamma” accompagnato da un coro e sembra che davvero sia stato investito dalla luce. Anche Long Dark Night si chiude dolcemente, come se fossimo di fronte all’alba di un nuovo giorno. È impossibile ascoltare l’album e non sentirsi almeno un po’ cambiati.

«L’ispirazione che sta alla base dellee nuove canzoni è quella di sempre, ossia la perdita e la sua accettazione», spiega Cave, «ma la natura gioiosa di questi pezzi va oltre. Del resto la gioia è un’emozione che ha a che fare con la perdita».

Ora Cave sta toccando con mano gli effetti di questo nuovo atteggiamento. I Bad Seeds hanno iniziato il mese scorso un tour europeo nei palazzetti facendo  tutte le canzoni del disco nuovo, oltre alle preferite dal pubblico. Cave dice che l’accoglienza riservata dai fan ai pezzi l’ha stupito (sarà al Forum di Assago il 20 ottobre). «Sono canzoni che si prestano all’esperienza live, cosa che non si può dire di tutti i pezzi degli ultimi tre dischi», dice al telefono mentre si trova da qualche parte in Germania, in autostrada, diretto verso il suo prossimo concerto. «Quando devono colpire, lo fanno davvero. Lo si vede dai volti della gente».

È cambiato qualcosa nei pezzi di Wild God facendoli dal vivo?
Suonano in modo fantastico. È come se non fossero ancora del tutto finiti su disco e lo diventano sul palco: i pezzi sono epici e grandiosi, roba che solo i Bad Seeds riescono a fare. È emozionante, una cosa incredibile. Non succede sempre di arrivare così in fretta a questo punto, durante un tour. Di solito ci vogliono un po’ di concerti prima che le cose inizino a girare bene.

Hai definito le canzoni di Wild God come una serie di conversioni. Quando le fate dal vivo noti una qualche conversione tra il pubblico?
Con quella parola intendevo indicare il passaggio da una cosa all’altra, da uno stato all’altro. La maggior parte delle canzoni di questo album si evolvono salendo a un livello superiore ed è un meccanismo adattissimo al contesto live. È bello guardare i volti della gente e rendersi conto che sta vivendo un’esperienza emozionante. È commovente.

Conversion è la mia preferita del disco. Decolla quando il coro inizia a cantare veloce “touched by the spirit”.
Sì, lì parte per davvero. È una canzone più smaccatamente religiosa di altre, ha uno spirito evangelico animato dalle migliori intenzioni.

Nick Cave & The Bad Seeds - Conversion (Wild God Tour 2024 - Berlin Uber Arena)

Una ventina di anni fa in Abattoir Blues hai usato un coro gospel. In cosa è diverso il nuovo disco, da questo punto di vista?
Quello di Abattoir Blues era gospel nella sua accezione più tradizionale, forse a cavallo tra gospel nero e rock’n’roll bianco, un miscuglio che a dire il vero non mi piace neppure troppo. Pensavo semplicemente che avrebbe funzionato bene. Ascolto molto gospel, ma nella sua forma più pura.

In che senso?
I cori gospel. Sono stato in alcune chiese pentecostali dove si sente quel tipo di musica religiosa, anche se non sono il genere di chiese dove di regola vado, se non per ascoltare la musica.

E quindi questa volta in che modo hai utilizzato la musica gospel?
Non rendendola troppo gospel. Ci siamo confrontati a lungo coi cantanti di colore che fanno parte di cori che fanno questo genere per fare in modo che il cantato si adattasse al pezzo, utilizzando sia lo stile low church, diciamo così, che quello evangelico e corale high church. In questo modo i cantanti sono più presi dalla musica, a livello emotivo. Nella seconda parte di Conversion c’è un classico esempio di gospel con call-and-response (“Touched by the spirit, touched by the flame”), ma anche questo è reso in modo insolito. È tutto improvvisato e c’è un botta e risposta molto caotico.

Il pezzo parla di una rivelazione che hai avuto?
Racconta sotto forma di favola una cosa che è successa a mia moglie e che mi ha sconvolto. Lei, però, mi ha chiesto di non parlarne e di mantenere il riserbo.

Mi pare giusto. Tua moglie ti aiuta a scrivere i testi?
No. Mi aiuta per altre cose, ma nessuno può toccare i miei testi.

No? E come vi regolate con le questioni tipo mantenere discrezione sulla storia di Conversion?
C’è sempre una sorta di attrito, tra me e Susie, per via della mia indole a mettere in piazza le cose e la sua natura profondamente riservata. Io trovo beneficio e conforto nell’essere trasparente e aperto sulle mie questioni personali. Susie invece è sostanzialmente un’eremita. È una persona riservatissima.

Deve essere stata dura, negli ultimi anni, visto che entrambi avete sperimentato lo stesso dolore.
Sì. In questi frangenti ognuno reagisce a modo suo, ma ci sosteniamo a vicenda. È solo che il rapporto di Susie con la perdita è più interiore. Lei dà aiuto a chi attraversa un lutto, ma lo fa in modo silenzioso.

O Wow O Wow (How Wonderful She Is) è un omaggio ad Anita Lane, la tua ex legata a te sia sentimentalmente che a livello creativo. In che modo ha influenzato il tuo punto di vista sul mondo?
Era proprio speciale. All’epoca molte band della scena di Melbourne arrivavano dal giro delle scuole d’arte. Anche Anita, ma lei era di gran lunga la più talentuosa. Era una pittrice più brava, una disegnatrice migliore e aveva idee più originali. E aveva opiniuoni decisamente più trasgressive. Era una fiamma che ardeva, a noi piaceva e le giravamo attorno. Ha avuto un’enorme influenza sul mio modo di vedere le cose. Scrivevamo tanto, disegnavamo, dipingevamo insieme, eravamo molto legati in quel senso.

La canzone si chiude con una registrazione di lei che racconta come avete scritto From Her to Eternity. È bizzarro sentirla ridacchiare mentre parla di una delle tue canzoni più terribili.
Sì. Racconta che, mentre era seduta a letto, ha immaginato delle persone che stavano nella stanza sopra alla nostra e poi tutto il resto. Era fantastica.

Hai cominciato a lavorare a Wild God il giorno di Capodanno del 2023. C’è un significato simbolico in questa data?
No. Un mese prima, il mio manager ha pronunciato la frase più orribile che si possa sentire: «È ora di fare un altro disco». E io ho pensato: «Oh, merda». Così ho fissato una data. Ho detto: «Be’, mi levo dai piedi il Natale e poi inizio». Così ho cominciato il 1° gennaio. Mi sono seduto alla scrivania con un quaderno immacolato e ho iniziato a buttare giù le prime idee per un disco nuovo, senza però averci mai pensato prima di quel momento.

Non avevi già iniziato a scrivere dei pezzi?
Lavoro a progetto. Tra un disco e l’altro non ho mai idee per le canzoni. Ma quando è ora mi siedo alla scrivania e scrivo.

Colin Greenwood ha detto che la tua musica è incentrata sui testi. Inizi a creare i pezzi dai testi?
Sì, parte sempre tutto dalle parole. Ho impiegato tre mesi per farmi venire un’idea per il tema di questo disco, per capire come mi sentivo e qual era la mia posizione nel mondo, in quel determinato momento. Poi di solito succede che telefono a Warren e gli dico: «Senti, ho questi testi. Scriviamo un po’ di musica». Quindi passiamo tre giorni a improvvisare musica e io ci canto sopra: stranamente, spesso in quei tre giorni creiamo la maggior parte del materiale.

Foto: Megan Cullen

La musica di Frogs è insolita per te. Sembra più una cosa da Jimmy Webb.
Sì, e dovresti sentirla dal vivo. È imponente, esaltante e almeno nella mia testa ha qualcosa dell’ultimo Elvis, anche se non so se qualcun altro se ne accorge. C’è una specie di maestosità trascendente, estremamente commovente, come per me era l’Elvis della seconda parte della sua carriera.

Perché ti piace così tanto l’Elvis dell’ultimo periodo?
Ci ho riflettuto molto. Non ho mai visto qualcuno soffrire quanto lui su un palco, ma allo stesso tempo creare una musica di una tale trascendenza. Lo si vede soprattutto nei concerti a Las Vegas. È un uomo che vive una specie di inferno sul palco, ma crea musica meravigliosa. Per me tutto ciò rappresenta, in qualche modo, un’esperienza religiosa. Lui faceva due concerti al giorno: una matinée e uno spettacolo serale, settimana dopo settimana. Se si fa caso a come soffre sul palco, è davvero straordinario. Di solito la gente non si porta in scena queste cose. Forse è una cosa positiva. Non saprei.

Pensi di esserti mai avvicinato a qualcosa di simile, sul palco?
Cerco di proporre qualcosa di autentico. Può non piacere, ma è sincero e cerca di comunicare un significato che va oltre il semplice intrattenimento.

Hai usato più volte l’aggettivo trascendente. Cosa significa per te?
Uso questo termine, però la parola che vorrei usare è religioso, ma temo che spaventerebbe tutti. Penso che la natura religiosa di queste canzoni si manifesti più esplicitamente sul palco, in un modo salvifico. In Joy, per esempio, si va oltre l’idea della canzone triste per giungere a qualcosa di completamente diverso: una canzone di redenzione, allegra, festosa, legata a quella parolina così complessa che è gioia. Sono canzoni trascendenti, ma inizio a non sopportare più questa parola perché le fa sembrare canzoni religiose e in America la religione è molto più legata alla politica ed è una cosa da cui voglio tenermi lontano. Trovo che usare quella parola sia un po’ rischioso, ma in alcune di queste canzoni c’è un sentimento di redenzione.

Conosci artisti più giovani che ti sembra facciano musica trascendente come quella che hai descritto?
No, però non ascolto molta musica nuova. Non passo al setaccio i negozi di dischi in cerca di novità. A dire il vero non ascolto molta musica in generale. Dovrei farlo di più.

Perché non ne ascolti molta?
Mi piace quando mi capita, ma mi è impossibile ascoltare musica e lavorare allo stesso tempo. E mi resta sempre pochissimo tempo per mettermi a sentire musica come si deve.

Che cosa senti quando ti capita?
Tutto ciò che non ha un testo: jazz, ambient, musica orchestrale. Riesco a lavorare solo con la musica strumentale.

In Frogs citi Kris Kristofferson, morto recentemente, facendo un accenno a Sunday Morning Coming Down. Cosa rappresentava per te la sua musica?
Adoro Kris Kristofferson, mi è sempre piaciuto. Sunday Morning Coming Down è una delle più grandi canzoni mai scritte sul tema dello smarrimento spirituale.

Frogs è molto allegra, in Joy canti che “abbiamo avuto tutti troppi dispiaceri, ora è il momento di essere felici”. È questo il filo conduttore dell’album?
I nostri dischi sono  piccole avventure che scaturiscono dall’improvvisazione. La maggior parte delle parti vocali sono il risultato della prima e unica take in cui le ho cantate. Joy è proprio così, incisa senza nemmeno conoscere bene la musica, è solo una serie di frasi su questa base strumentale in un crescendo continuo. Solo sul palco che scopri qual è la natura queste canzoni. E se sono buone, continuano col tempo a rivelarsi.

Da Rolling Stone US.