Se c’è una storia controversa mel pop italiano senza dubbio è quella dei Tiromancino. Una storia fatta di successi e liti sulla direzione musicale da prendere. Perché il punto è proprio la direzione: dal famoso scioglimento dopo l’album del boom La descrizione di un attimo, l’ultimo di quelli che per molti (tra cui il sottoscritto) sono i veri Tiromancino.
Ora Federico Zampaglione è a tutti gli effetti l’unico membro fisso dei Tiromancino e nel nuovo disco Ho cambiato tante case fa il punto su trent’anni di carriera. Lo intervisto su Zoom e mi accoglie con la chitarra acustica in mano, felice come un adolescente che scopre la musica per la prima volta.
Ho letto che consideri questo disco una specie di summa della tua storia…
Ci ho messo dentro tutto quello che ho vissuto. Ormai sono trent’anni eh… cioè voglio dire, cazzo…
E quindi qual è il bilancio?
Non è positivo, è de più (ride). Dopo 30 anni oramai sono perseguitato dalle mie canzoni. Prima ero in auto e nel giro di un quarto d’ora ho beccato tre volte Domenica e una volta Cerotti.
Ammazza, ti sarai spaventato.
Ho pensato: ma che cazzo mi state a fa’, uno scherzo? Vi siete messi d’accordo (ride).
Beh, ma i Tiromancino sono sempre stati molto popolari…
Vedo continuamente post sulle piattaforme che ci riguardano, le canzoni d’amore, le canzoni da cantare in macchina. Io ho sempre puntato alla canzone. La mia mentalità non è mai cambiata, cioè non homai preso in considerazione i discorsi sul trend, sull’andare di moda. Anche negli anni ’90 quando facevamo comunque il primo indie, molto spesso l’indie consisteva nel riprendere la matrice di un gruppo internazionale come potevano essere i Massive Attack, gli Oasis o i Blur… Noi non abbiamo mai fatto. Anche allora non seguivamo certe dinamiche, non eravamo la risposta italiana ai Nirvana o agli Alice in Chains o a Tricky. Eravamo un miscuglio di roba dove dentro c’era la canzone italiana (mostra la sua t-shirt con il volto di Battisti, nda) e infatti venivamo considerati, come dire, una strana band perché eravamo un po’ troppo alternative per i circuiti pop e un po’ troppo pop per i circuiti alternative.
Eravate senza dubbio una via di mezzo e tra l’altro tu venivi anche dall’esperienza dei primi Tiromancyno, con la y, che hai per un lungo periodo disconosciuto pesantemente. Eravate dei Ladri di Biciclette, ma fatti di ultraplastica…
Ci sono andato con un po’ di cattiveria gratuita, nel senso alla fine era un primo disco, stavamo ancora prendendo le misure, io c’avevo 20 anni, stato anche fin troppo severo. Ma insomma adesso sto facendo il punto della situazione e sono molto contento, guarda, perché sono sempre riuscito a fare quel che volevo, compreso anche non fare musica. Per anni.
Al posto della musica, il cinema.
Sì, horror. Che era forse la cosa più lontana da quello che ci si potesse aspettare da me, però comunque da ragazzino ero fan di Argento, di Fulci, di tutti questi, e ho seguito la mia strada.
Le case del titolo Ho cambiato tante case sono anche metaforicamente musicali?
Sono case nel senso proprio di case, ma anche artistiche, nel senso che appunto ho fatto oramai quattro film, anche diversi tra loro, ho fatto la commedia nera, l’horror, il giallo all’italiana, un film ambientato nel mondo musicale… Anche nella musica spazio di continuo. Mi posso svegliare un giorno così (mi suona un pezzo flamencato, nda) oppure così (suona un blues, nda).
Ecco, quanto c’è di blues nei Tiromancino?
Mah, il blues è qualcosa che ti porti dentro no? E le mie prime passioni sono state quelle, il disco che mi ha folgorato è stato Just One Night di Eric Clapton.
Sei un claptoniano?
Pure Hendrix mi è piaciuto parecchio, però Clapton ho avuto la fortuna di poterlo seguire negli anni perché è ancora vivo e quindi continua a fare cose interessanti. Però io guarda, ti dico, mi addormento sempre con la musica in cuffia. Ieri mi sono addormentato con il live di Leonard Cohen, la sera prima con il disco nuovo di Mannarino, poi magari con un disco dei Dire Straits.
A proposito di Dire Straits, come è stata la collaborazione con Alan Clarke?
È un musicista gigantesco. È un hall of famer, quando te lo ritrovi davanti che mette le mani sulle tastiere, sul pianoforte… beh, ragazzi, è un’altra categoria.
Ho letto che ti ha ribaltato praticamente la canzone Questa terra bellissima.
Ha fatto quell’intro che sembra una roba tipo Telegraph Road. Il pezzo nasce in effetti un po’ alla Dire Straits, quel mondo lì. Quindi Alan ci caduto dentro alla perfezione, ci ha messo molto di quelle atmosfere.
Nel disco collabori anche con “nuovi” cantautori come Franco 126, Gazzelle, Galeffi, Leo Pari.
Sì, spaziando da cose più cantautorali a cose più elettroniche. E poi c’è Carmen Consoli, una delle artiste che apprezzo di più. Guarda, io oramai adesso faccio le cose perché ho la passione. Mi piace fare il musicista, poi i contesti che ti si creano intorno… vabbè, ho avuto vari momenti…
Ecco, raccontami un momento difficile che hai vissuto musicalmente. Ci sono stati molti passaggi anche traumatici nella storia dei Tiromancino.
Ai tempi del best 95-05 tutti i miei dischi erano stravenduti, doppio platino, cose così. Mi sono detto che avevo realizzato un po’ tutti i miei sogni e non mi stavo più divertendo, era diventata una routine. Non avevo più quella fame e allora mi sono detto: basta, per un po’ non faccio dischi. E me so’ messo a fa’ i film. Perché avevo la passione che avevo sviluppato nei videoclip, mi divertivo e lo preparavo proprio come se fosse un film. E feci questa prima regia del video di Un tempo piccolo, che era poi un cortometraggio. Io nel video neanche c’ero, per dire. Era un bel video ispirato alla fantascienza degli anni ’60, vinse il premio Cinecittà.
Quella era una grande canzone di Califano, con il quale vi siete scambiati i brani.
Sì, poi l’ha rifatta Mina. Tornando al video, vinsi questo premio e mi proposero di fare un film. E da lì nella mia testa ho cambiato attività per un po’ di anni… Con la musica facevo fatica. Allora prima feci una commedia nera, nel 2007, e poi un horror, Shadow, che un po’ mi ha cambiato la vita. È stato venduto in tutto il mondo, in oltre 60 Paesi, l’horror italiano più venduto negli ultimi quindici, vent’anni.
Ed ecco una casa cambiata…
Andai a presentarlo a Londra a un festival importantissimo, il FrightFest, che erano poi presentazioni di 1600 persone in un cinema enorme di cui la metà era gente del settore, direttori di festival di tutto il mondo, distributori, venditori… Finisce la proiezione e parte questa roba dell’«Italian horror is back». E questi dicevano: «Sapete, in Italia il regista di Shadow è un cantante romantico». Ci ridevano su, si erano andati a vedere i video su YouTube e non riuscivano ad associare quelle canzoni ai film. Ero diventato una sorta di Rob Zombie, solo che anziché fare metal facevo canzoni romantiche.
Oddio, l’immaginario di Insisto, soprattutto la copertina, era molto horror.
Bravissimo, in copertina c’era quel personaggio che poteva ricordare Sober dei Tool, ma questo lo sappiamo noi, tanto è vero che per me i Tool restano comunque un punto di riferimento, ma le persone non se l’immaginano. Infatti quella cosa del cinema horror spaccò il pubblico. Chi mi seguiva, quando vide quel film prese proprio le distanze. Non venne alle proiezioni neanche un fan dei Tiromancino. Ma te pare? Uno che si sente Per me è importante che si va a vede’ un film tipo Shadow?
Se penso però che voi due fratelli Zampaglione avete collaborato con Richard Benson nel suo disco L’inferno dei vivi mi sembra tutto molto coerente.
Quando lui faceva gli assoli stava col contachilometri. «Richard sei stato troppo lento, devi rifare l’assolo» e lui «Perfetto, lo rifaccio!» (ride).
Quello secondo me è tipo un disco dei Tiromancino “sperimentali” sotto false spoglie…
Eh, quello alla fine era un discone, nel senso che Richard comunque era una sorta di Carmelo Male, cioè lui faceva questi recitati con una voce veramente di una profondità… bisognava scavarla un po’ perché era una voce così profonda che te sfonnava le casse! È l’esperienza più assurda che mi ricordi. Il pezzo De profundis durava quattro minuti ed era soltanto urla. Tu immagina nelle registrazioni di quel pezzo con Richard Benson dietro al microfono ed Ester in piedi dietro di lui, e lui che registrava e le sue domande erano:« Federico sentiii, queste urlaaa le vuoi agghiacciantiii o devastantiii?» e io «Secondo me Richard meglio agghiaccianti» e lui «Perfetto! UAAAAAH».
Quello è stato uno dei momenti migliori dei fratelli Zampaglione in coppia, perché per un periodo il cuore pulsante dei Tiromancino siete stati proprio voi due.
Sì, ma per tanto tempo negli anni ’90 ci sono stati Laura Arzilli, Cristiano Grillo, poi è arrivato mio fratello e per un anno c’è stato anche Riccardo Sinigallia, poi Andrea Pesce, Luigi Pulcinelli… Insomma la formazione è cambiata tantissimo nel corso degli anni. Quella che ho adesso è la stessa che ho da una decina d’anni, con Ciccio Stoia, Antonio Marcucci, che ha anche co-prodotto diverse tracce del disco, Marco Pisanelli. Diciamo che ci siamo fermati qua.
Quando hai ripreso a fare dischi dopo il periodo di stop?
Nel 2010, con L’essenziale, un disco fatto quasi per caso, perché in realtà io ero andato in America perché mi aveva chiamato Dino De Laurentiis. Dopo che aveva visto Shadow, disse che voleva un horror con me. E mi dette questa idea: dopo un incidente un uomo va in coma, quando si risveglia è in grado di leggere nella mente degli altri e diventa una specie di serial killer. Con uno scrittore di gialli Mondadori lavorammo tre, quattro mesi alla sceneggiatura, gliela mandai e lui mi disse: «Metti il culo sull’aereo e vieni a Los Angeles». Ti chiama De Laurentiis e che fai? Parti. Presi tutta la famiglia e ci trasferimmo a Hollywood, presi casa per tre mesi. Insomma, riunione agli studi Universal, io arrivo tutto contento, vado da De Laurentiis, mi fanno accomodare tutti belli precisi. Arriva lui, si mette seduto coi piedi sulla scrivania e mi dice: «Il tuo film non si può fare». «Ma come signor Dino…». «Tu mi devi spiegare una cosa: come cazzo fa uno a entrare nella mente degli altri?». Che era un’idea sua, capito?! (Ride) Ci rimasi talmente male che non ebbi il coraggio di ricordargli che era stata sua l’idea.
A quel punto che hai fatto?
Eh, stavo a Los Angeles, avevo dei pezzi e andai a fare questo disco un po’ estemporaneo, dove ci sono delle buone cose, però non l’avevo preparato nel modo giusto, perché ero lì per fare altro. Il vero e proprio disco di ritorno fu quello del 2014 con mio fratello, Indagine su un sentimento.
Quello secondo me è il ritorno dei veri Tiromancino, almeno parzialmente. Come ripartire da zero.
E poi uscirono due singoloni, abbiamo preso il disco d’oro con Immagini che lasciano il segno e Liberi. Diciamo che più o meno dal 2007 al 2014 sono stato fermo. Tant’è vero che leggevo spesso sul mio conto “ex musicista, ora regista”, ma perché avevo fatto un po’ tipo Sordi: «Da da da da».
Bella citazione…
La vita mi ha portato lì. Col senno di poi sono contento perché probabilmente se avessi prodotto parecchia roba in quegli anni sarei entrato con un atteggiamento un po’ mestieristico. Quindi sono tornato a fare musica con l’entusiasmo di quando ero pischello.
Alla luce di questo, che cos’è per te la sperimentazione? Perché di solito si crede che la sperimentazione sia fare cose matte, ma poi si ritrova magari anche in canzoni pop.
Io ascolto pop, ma non ascolto musica leggera. I Beatles sono pop, la musica leggera è altro. Non voglio fare nomi però hai capito.
Quindi la musica leggera, leggerissima non ti interessa…
Ma guarda quello è anche un brano simpatico, poi faceva una riflessione intelligente su quello che sta succedendo, l’avere voglia di niente è purtroppo una realtà. Di non vedere un film, di non leggere un libro. Ci hanno portato i tablet, i computer a tutto questo. Siamo vittime del dito, oramai. E fondamentalmente lo sperimentare è non porsi dei limiti. Partiamo comunque dal fatto che amo un po’ tutta la musica quindi mi viene spontaneo sentirmi che so… anche cose brutal, i periodi che lavoravo con Benson, per dire, potevo ascoltarmi i Cannibal Corpse. Verso i 15 anni ero un metallaro, di quelli pure convinti, quindi ho ascoltato musica a 360 gradi, dai dischi d’orchestra con Battiato ai Nine Inch Nails passando per un disco di Elton John e un altro di Manu Chao. Sperimentare significa andare a cercare cose che magari non appartengono a quel genere. Fai un pezzo in cui metti un elemento che appartiene a un altro stile e te lo ravviva sempre. Questo è un po’ il mio approccio, ascoltare tanta musica e soprattutto amare molto le collaborazioni. Le commistioni, ne ho fatte tante. Ho cominciato quando ero molto giovane con Califano, con Lucio Dalla. E poi adesso a mia volta che sono diventato più grande collaboro molto volentieri con le nuove generazioni. Ma non perché vanno di moda, ma perché sono cantautori della madonna.
Hai collaborato anche con Calcutta.
Un grande cantautore lui, con un linguaggio visionario. Ma anche quelli che abbiamo nominato: sono dischi che mi ascolto proprio per il piacere di sentirmi un bel disco, non perché devo capire dove va il trend. Cioè ho sempre collaborato con l’hip hop, per dire.
Tu ad esempio hai collaborato con gli Odei, il cui video A mani nude è forse uno degli unici video di genere seri nel nostro Paese…
Eh, capito che voglio di’? Erano interessanti, c’era Pepy che veramente era un personaggio. Poi io l’avevo chiamato per fare un ruolo in un film, c’aveva tutta la sua filosofia. Quando è morto mi è dispiaciuto veramente tanto. Comunque ho collaborato anche con artisti come Frankie hi nrg, Fabri Fibra, Tormento, Ice One, un po’ i padri del genere.
In America un certo tipo di hip hop sfrutta molto i ritornelli melodici, che ti svoltano il pezzo. In Italia quando pensi a qualcuno che possa fare qualcosa del genere non puoi che pensare a Zampaglione.
Ma infatti ora Ernia e TY1 hanno fatto un disco così, e hanno fatto cantare a me. Hanno rifatto Nessuna certezza e sul ritornello entro io. Perché faccio delle melodie che appunto non sono da musica leggera probabilmente, quindi loro sentono una cosa che può rientrare in quei mondi che possono essere più soul.
O funk: perché ad esempio Rosa spinto può essere considerato uno degli esperimenti di commistione tra funk, weird disco, canzone italiana. Era un disco particolare, molto avanti.
Sì, un disco meno riuscito forse di Alone alieno perché appunto in quest’ultimo sperimentavamo più sui suoni elettronici, in Rosa spinto c’era più funk, ma è comunque interessante.
E poi forse ha anticipato un po’ il revival nu disco.
Un pochino sì. Comunque gli anni ’90 erano proprio una fucina di generi, di cose. Da una parte mi sento fortunato di aver vissuto così intensamente quel momento musicale, perché c’era da tutti i suoni che venivano dall’ Inghilterra, da Bristol, tutta quella scena, i Portishead, i Pulp, i Verve… E poi la scena di Seattle. Non che oggi non ci siano cose, ma lì c’era una varietà veramente notevole. E un fatto è che i dischi li dovevi fare proprio bene: non era solo il discorso che dovevano vendere, era proprio che il disco doveva proprio spaccare, essere bello.
A proposito di fare dischi belli e avere successo: tu te lo sei sempre posto l’obiettivo di fare successo? Oppure è stato un caso? O una via di mezzo?
Quando fai una cosa ovviamente poi se alla gente piace e se va bene sei contento, è una bellissima soddisfazione. Però non ho mai anteposto questa cosa al mio gusto: non pubblico lo stesso una canzone se capisco che agli altri piace, ma non mi convince. Deve sempre piacere a me. Anche perché se fai un pezzo che magari non ti piace, ma senti che potrebbe funzionare, spunterà qualcuno che ti dirà di farlo uscire come singolo e quindi io per prudenza lo piglio e lo butto. E poi il successo fatto a tavolino, ammesso che arrivi, è di solito un successo momentaneo. E quindi faccio un tormentone estivo, ci metto dentro tutti gli elementi che più o meno sono topic sulla maggior parte delle bacheche, uso i bpm che vanno di moda, ecc. Alla fine questi Frankenstein durano magari un’estate e ti tolgono credibilità.
I pezzi nuovi mi sembrano piuttosto intimisti, un risultato probabilmente della pandemia, dei lockdown.
Avevo fatto una parte del disco quando è arrivata la pandemia. Ho fermato tutto perché in quel momento non mi riusciva di scrivere. Stavo veramente tutto il giorno a capire cosa succedeva, i numeri, le cose. Non riuscivo a staccare da sta roba del coronvirus, come credo poi la maggior parte delle persone. A un certo punto però ho fatto il film, Morrison, che uscirà sia su Amazon Prime sia su Sky. Immagina avere sul set 60 persone da gestire con tutti i tamponi, ecc. Ho rimesso la testa sul disco quando ho finito il montaggio e mi sono detto che dovevo scrivere nuove cose perché mancava tutto quest’ultimo anno, fondamentale per la vita di tutti. Mi sono rimesso a scrivere e ho tirato fuori la parte diciamo più solare del disco e soprattutto molte delle collaborazioni con i nuovi cantautori. E poi tra l’altro ho inserito Testaccio Blues, una dedica che volevo e dovevo fare a Roberto Ciotti.
Una dedica che non ti aspetti dai Tiromancino.
Robertone mi ha cambiato la vita. Quando ero pischelletto ero appassionato di blues, ma credevo fosse una musica che apparteneva ad altri luoghi. Poi un giorno lessi sul giornale: “Concerto del grande bluesman romano Roberto Ciotti”. Romano?! C’era una foto sua con la chitarra e pareva quasi Clapton. E allora dissi a mio padre: «Andiamo a vede ‘sto concerto al Big Mama». E mi prese un colpo. Perché vidi un chitarrista di quel livello da un metro di distanza, pensai: è irreale. E quando uscii da lì dissi: «Papà, io devo fa sto lavoro qui». Ho iniziato a fare il musicista grazie a Ciotti. Tra l’altro la musica di Testaccio Blues è proprio tratta da un suo pezzo.
Che musica ascoltavi nel periodo della realizzazione?
Di tutto. Cambiavo continuamente, ho sentito molto country, perché mi dava un senso di serenità. In alcuni momenti potevo passare da Johnny Cash a Billie Eilish o The Weeknd. Magari per tre notti di seguito mi sentivo roba anni ’70 e poi sentivo automaticamente robe con sonorità più nuove. Non c’è notte che non abbia le cuffie: mia moglie si arrabbia, «basta co’ ‘ste cuffie!», le ritroviamo nel letto da tutte le parti. Non c’è notte che non dorma con la musica. Mi faccio una quarantina di minuti prima di dormire, mi rimette in pace con me stesso, mi fa dimenticare di tutto quello che devo fare e di tutto quello che ho fatto. C’è stato un momento in cui dovevo incidere con Alan Clarke e mi sono sentito tutti i Dire Straits, quasi come omaggio, ma ho ascoltato anche molta musica latina. Ora mi piace tantissimo Nathy Peluso: pazzesca, c’è dentro di tutto, hip hop, musica latina, è una pazza.
Ma ci sarà mai la possibilità di avere un disco inedito dei Tiromancino, magari un disco sperimentale che doveva uscire e non è mai uscito e che stava nel cassetto da 2000 anni?
(Ride) E te pare che se stava nel cassetto non lo facevo uscì?