Se nell’arte sacra la rappresentazione dei santi e delle loro visioni mistiche è uno sprone alla devozione per i fedeli, nel pagano mondo del clubbing l’esibizione della cassa dritta scatena venerazione tra i cultori della musica dance e house. Nasce dunque da un cortocircuito apocrifo tra sacro e profano la visione cui The Blessed Madonna dice di essersi ispirata per la realizzazione di Mercy. La dj statunitense ha infatti raccontato di aver pensato all’Estasi di Santa Teresa del Bernini nella produzione del brano in collaborazione con Jacob Lusk e con il supporto vocale dell’House Gospel Choir di Londra. Il pezzo che sposa spiritualità e musica house-funk è balzato in cima ai brani più ascoltati sulle radio italiane la scorsa estate e anticipa l’uscita del nuovo album, in arrivo nel 2024.
Le suggestioni di matrice religiosa non sono però una novità nella vita personale e artistica di Marea Stamper (questo il suo nome all’anagrafe), nata nel Kentucky in una famiglia cattolica e originariamente conosciuta come The Black Madonna. Questo nome d’arte derivante dalla profonda devozione dei suoi familiari all’icona della Madonna Nera ha infatti dato luogo a controversie, culminate nella petizione con cui il produttore e attivista Monty Luke ha chiesto alla dj di rinunciare a usare quell’alias. L’artista ha accolto l’invito optando per uno stage name libero da implicazioni di natura razziale.
Al netto di quello che potrebbe passare come un asservimento al politically correct – le polemiche sui social non sono mancate – Stamper è balzata all’attenzione di milioni di ascoltatori negli ultimi anni anche per più interessanti meriti musicali: ha prestato la sua voce alla hit Marea (We Lost Dancing) di Fred Again – che ha fatto da colonna sonora al lockdown – e ha curato per Dua Lipa l’album di remix Club Future Nostalgia. Le sue vicissitudini in consolle hanno origine in realtà nei primi anni ’90, come organizzatrice di rave illegali, e poi al fianco di Frankie Knuckles come resident dj dello storico Smartbar di Chicago. Balzare dai party underground al main stage dei più famosi raduni internazionali (il Kappa FutureFestival nel 2022 ad esempio) ha un che di miracoloso – e il nuovo nome lo ratifica – ma quella ragazza bullizzata per la sua fisicità non conforme già ai tempi delle superiori oggi ci scherza su definendosi un’impostora.
Il Italia il tuo recente singolo Mercy, con Jacob Lusk, è andato fortissimo rimanendo per settimane in cima alla classifica dei brani più trasmessi dalle radio secondo Earone. Come te lo spieghi?
Non mi sorprende affatto che l’Italia sia stata la prima a veder esplodere la hit perché ho una relazione di lungo corso con questo Paese. E qui che la gente mi ha riconosciuta per la prima volta. Quando sono stata a Napoli, ad esempio, mentre camminavo per raggiungere la venue del mio show, dai balconi i fan urlavano per acclamarmi. E nello stesso momento, poco distante, altre persone vendevano i miei bootleg agli angoli della strada.
Ci avviciniamo sempre più all’uscita del tuo nuovo album, prevista per il 2024. Stai lavorando alle rifiniture finali?
Siamo abituati a credere che un album di musica dance sia una sequenza di tracce priva di racconto. Nel mio prossimo disco ho voluto dare più spazio al songwriting rimanendo in studio anche fino a 20 ore di fila. Non da sola certo, ho dovuto imparare a scrivere insieme agli altri. Il mio scopo è raccontare la vita vera, con tutte le sue trasformazioni perché la musica è come un treno su cui a un certo punto hai il privilegio di saltare. E adesso è il mio turno. La scena dance è sempre stata in evoluzione, per questo motivo non voglio darmi troppa importanza, ma sono felice di poter lavorare con quelle che io ritengo siano le persone più intelligenti al mondo.
Sarà un album dance oppure no?
Sì, sarà un album dance, la connessione con il clubbing rimane solida, ma volevo di più. La dance è musica usa e getta e mi piace che sia così, decine di dischi dance che ho riprodotto hanno avuto il loro momento di risonanza, ma poi hanno perso importanza. Va bene così perché fa parte di ciò che siamo come dj. Ma la dance è molto di più: significa parlare anche di Quincy Jones e di Stevie Wonder. Mi spiego, puoi scegliere di bere quel vino rosso da tre dollari o di mettere in tavola la bottiglia migliore.
Sei sulla scena musicale da trent’anni. Ma quante ne hai viste?
Ci sono state ondate buone e cattive, per ogni Robin S., Crystal Waters o Donna Summer abbiamo avuto centinaia, ma che dico, migliaia di dischi destinati a non vivere in eterno. Da osservatrice del più profondo underground e dei palcoscenici mainstream ritengo che esitano dischi pop rilevanti anche per i club. Penso a quello che sta facendo Beyoncé. Il suo Renaissance parla contemporaneamente a più gruppi di persone fungendo da anello di congiunzione. È davvero pazzesco perché le persone che hanno costruito il suo show arrivano dal mondo underground eppure hanno messo su il best selling tour di tutti i tempi, senza per questo compromettersi in termini di produzione ed esecuzione. L’hanno fatto Madonna, i Daft Punk e, più recentemente, Dua Lipa. Che la house music sia un linguaggio universale parlato da tutti sarà anche un cliché, ma è la verità perché ciò che conta è lo spirito non le persone. Voglio anch’io dare il mio contributo e so, sforzandomi di essere il più oggettiva possibile con me stessa, che non sto andando nella direzione sbagliata.
Ritieni che l’atteggiamento delle persone nei confronti della nightlife, del club e del dancefloor sia cambiato rispetto a quando hai iniziato a mettere i primi dischi?
Sì, perché ci sono implicazioni di natura sociale. Se ci pensate la musica dance accorre sempre in tempi di conflitti. Basti pensare alla scalata del funk negli anni ’60 e della disco negli anni ’70. O al jazz – primigenia forma di musica dance – che ha prosperato tra le due guerre mondiali. La dance è così: parla di gioia, ma nasce sempre in tempi di sofferenza. È un paradosso con cui noi dj conviviamo da sempre: creiamo musica in cui la gioia esplode spontaneamente mentre altre persone soffrono. Oggi siamo nuovamente di fronte all’ascesa del fascismo nel mondo e vediamo affermarsi posizioni che mirano a disumanizzare le persone. La musica dance parla invece di umanizzazione. Radunare delle persone per vederle ballare è un’espressione concreta e fisica di non violenza. In tempi di guerra, razzismo e odio la dance è un atto di difesa nei confronti di un mondo che propugna la disumanità.
Le tue posizioni appaiono più vicine alla spiritualità che alla controcultura.
Il fatto che mi ritrovi sui palchi più noti del clubbing internazionale non significa che abbia dimenticato le mie origini. Sono figlia della controcultura e mi sento ancora una cattiva ragazza, non salterò mai sulla sponda dei “buoni”. Sono come un impostare qui nel mondo mainstream. Il primo contatto con la musica l’ho avuto grazie a mio padre che ascoltava sempre gospel e blues alla radio e suonava la chitarra. Essendo nata in una famiglia molto cattolica da bambina ho cantato in chiesa e sin da allora ho capito che la spiritualità mi avrebbe accompagna per tutta la vita, pur non avendo un rapporto diretto con dio. Dopo il dilagare della rave culture nel Midwest e prima che arrivasse internet vendevo i mixtape e organizzavo eventi illegali. Oggi suono davanti a migliaia di persone. Qualunque fossero i miei piani, sono stati superati da quelli che l’universo ha avuto in serbo per me.