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The Cinematic Orchestra: «Bisogna imparare e comprendere le regole per poi distruggerle»

Dal punk al jazz e con un passato da dj in una radio pirata londinese: Jason Swinscoe è da sempre un artista controcorrente. Con lui abbiamo parlato di turbocapitalismo, bombardamenti da TikTok e del suo live di mercoledì al JazzMi

Foto: Eddie Alcazar

La musica di The Cinematic Orchestra è un rifugio, uno di quegli antri dove ti viene voglia di infilarti quando senti di aver bisogno di suoni che cullino le emozioni. Con un’intrigante miscela di nu-jazz, elettronica, folk pop, hip hop e arrangiamenti orchestrali vicino al mondo delle colonne sonore, la creatura di Jason Swinscoe, da qualche tempo affiancato dal suo manager Dominic Smith e con una formazione elastica che di volta in volta si apre a nuovi strumentisti e vocalist, è diventata nel corso di poco più di due decenni un nome di culto per molti appassionati, arrivando anche a sfornare un successo internazionale come To Build a Home, brano con il canadese Patrick Watson utilizzato in più serie televisive, campagne pubblicitarie e affini.

Mercoledì 5 ottobre li attende una data all’Alcatraz di Milano nell’ambito di JazzMi. «Sarà un set focalizzato sul groove: batteria, basso, tastiere, voci e io al campionatore», dice Swinscoe, britannico oggi di stanza in una Lisbona che durante la chiacchierata definirà come “una sorta di città californiana, ma senza armi, rilassante e lontana dalla Brexit». «La novità di questo tour sono i live visual: avremo con noi sul palco Ben Olsen, che durante lo show combinerà immagini reali, manipolazioni digitali e feedback loop ottenuti facendo dialogare in tempo reale una telecamera a mano con un monitor. Il risultato è una sorta di storytelling abbinato al concerto, una narrazione psichedelica e calmante, impreziosita dal ticchettio dei tasti di una macchina da scrivere che Ben usa per proiettare messaggi su uno schermo».

Il festival JazzMi è da sempre aperto alla contaminazione e a progetti non specificatamente jazz come The Cinematic Orchestra. Ma tu che rapporto hai con questo genere?
Quando mi sono avvicinato per la prima volta al jazz è stato perché ero bassista in un gruppo punk.


I Crabladder, giusto? Solo ieri ho scoperto che questa parola indica i peli tra il pube e l’ombelico.

Già, anche se devo dire che quel nome fu un’idea del chitarrista! Io all’epoca ero all’università, eravamo in tre, abbiamo fatto solo un concerto perché poi mi sono buttato nel clubbing iniziando a fare il dj. Però in tutto questo c’era stato un momento in cui avevo avvertito il bisogno di far sentire il mio basso al centro dal palco e con tanto di assoli, e visto che nel rock’n’roll i bassisti sono considerati solo come parte della sezione ritmica, mi misi ad ascoltarne altri della scena jazz. Charles Mingus, Jaco Pastorius, Jimmy Garrison… E fu allora che scoprii qualcosa che modificò di colpo la mia prospettiva: il jazz, forma musicale appartenente alla cultura afroamericana, come sa bene chi ha vissuto negli Stati Uniti come me, è emerso come voce per la libertà, come linguaggio basato su una filosofia di vita che mette al centro l’importanza di rompere le regole. Sarà che sono uno spirito ribelle, ma tutto questo mi ha ispirato tantissimo: sono convinto che le regole si debbano imparare e comprendere, ma solo per poterle poi distruggere e superare, per arrivare a esplorare nuovi parametri.

Hai raccontato di aver creato The Cinematic Orchestra – il primo album Motion è del 1999 – unendo la passione per la musica con i tuoi studi nel campo delle arti visive e con l’obiettivo di dare vita a una colonna sonora per film immaginari. Ma se all’inizio ti muovevi più sul terreno del jazz mescolato con l’elettronica, man mano hai aggiunto sonorità nuove. Qual è il tuo approccio?
Per me la musica è come una tavolozza di colori e fare musica è come realizzare un dipinto. O forse è meglio dire un film bidimensionale, con una narrazione segnata dal tempo, ma che tramite armonie, ritmi, motivi, sfumature e colori, e a seconda della tonalità utilizzata, trasmette tutta una serie di emozioni che sono anche fisiche, vere e proprie vibrazioni corporee. Tenendo conto di questo e del fatto che l’ascolto del jazz mi aveva spinto verso una libertà di sperimentare che non mi imponeva limiti, è successo che a un certo punto ho sentito di voler espandere la mia palette sonora. Ne avevo bisogno, non è un meccanismo così diverso da quello che la mattina ti porta, a seconda dell’umore con cui ti svegli, a indossare un vestito di un colore piuttosto che di un altro: man mano ognuno di noi compra capi nelle tonalità che più ci rispecchiano e quando scegliamo di sfoggiarne una anziché un’altra accade che quei capi diventino un’estensione della nostra personalità, rivelando quel lato di noi che vogliamo comunicare. Allo stesso modo, i generi musicali, dal jazz all’elettronica, dalla classica alla world e folk music fino all’hip hop, sono per me piattaforme da cui estrapolare i miei colori, i miei suoni.

In tutto ciò quanto ha influito il tuo passato da dj in una radio pirata londinese?
Penso tantissimo. Negli anni 90 a Londra le radio pirata rappresentavano un fenomeno culturale particolarmente vivace. Io lo agganciai verso la fine, perché con l’attentato alle Torri Gemelle del 2001 si entrò in una fase di panico e come in tante altre città il sistema di controllo anti-terroristico portò allo sgombero o all’abbattimento di squat ed edifici occupati che erano stati trasformati in spazi culturali, un aumento della sorveglianza che ebbe come effetto anche quello di togliere alle radio pirata il terreno su cui andare avanti. Però prima di allora, come dicevi, lavoravo in questa emittente che si chiamava Heart FM, ed è stata un’esperienza incredibile. Hai presente quelle situazioni in cui sai che da un minuto all’altro il governo potrebbe arrivare e spegnerti, toglierti la voce? È come con i rave: chi li organizza è consapevole che il party potrebbe essere interrotto da un momento all’altro. Insomma, alla fine le hanno spente definitivamente, quel tipo di realtà, ma ciò non toglie che quello che facevamo con le radio pirata ha condizionato la mia visione artistica, ed era qualcosa di importante: diffondevamo musica non mainstream, musica che nelle radio commerciali non mandavano in onda, e così facendo gettavamo le basi per la nascita di una comunità musicale basata sul passaparola, sullo scambio, sulla condivisione.

Credi che oggi sia ancora possibile portare avanti operazioni del genere?
Dipende, oggi abbiamo i social, che sono mezzi malleabili e possono essere usati per molti obiettivi diversi, quindi… Nel migliore dei casi possono essere utili anche per far emergere musica nuova, ormai ci sono canzoni diventate hit su Spotify sulla spinta del fatto che erano diventate virali su TikTok, ci sono decine e decine di To Build a Home che possono potenzialmente esplodere in questo modo e non è male.

Anche Brian Eno in una recente conferenza stampa ha detto qualcosa del genere, ossia che mai come oggi, grazie a social come TikTok, è possibile per un artista farsi conoscere senza passare dai canali ufficiali o mainstream, e che tale opportunità rende il periodo storico che stiamo vivendo particolarmente fertile sotto il profilo artistico. Obietterei, però, che TikTok non è stato concepito per far emergere i migliori talenti musicali.
Hai ragione, è come se tutto fosse senza direzione, come se certe cose potessero avvenire solo per caso. Quel che sto dicendo è che, però, se vuoi usare TikTok per diffondere qualcosa, le opportunità che tu ci riesca non sono poche, può funzionare. Ma questa è una questione che riguarda le nuove generazioni e il loro rapporto con il digitale, che è estremamente complesso. Perché queste nuove tecnologie permeano le menti così tanto da uccidere lo spirito critico. Tant’è che i giovani di oggi credono, più che dubitare e mettere in discussione.

Non solo i giovani. Ma qui mi porti all’album più recente di The Cinematic Orchestra, To Believe, del 2019: hai detto di averlo realizzato tentando di rispondere alla domanda “in cosa dobbiamo credere?”: esiste una risposta?
Dubito, siamo tempestati di informazioni. Ma una cosa è certa: questo bombardamento va contenuto. Perché ogni informazione che riceviamo e in cui ci imbattiamo è talmente transitoria dentro di noi che si delinea uno scenario da ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, nda): stiamo diventando incapaci di concentrarci su una sola cosa per più di 30 secondi. Lo trovo folle, ma è la realtà di questo presente ed è il motivo per cui forme di comunicazione come le radio tradizionali e i giornali hanno perso e continuano a perdere pubblico. Ma abbiamo i concerti. Sì, penso che le performance live siano il modo migliore, oggi, per fare esperienze vere, coinvolgenti, arricchenti. Dopo l’arrivo del Covid ho fatto uno show virtuale alla Royal Festival Hall di Londra, venue stupenda: era un live pre-registrato e proposto in streaming dopo un lavoro di editing e credo abbia dato conforto a tante persone che con la pandemia si sono ritrovate a dover affrontare problemi di ansia e di perdita dell’equilibrio psichico. Ma se questo va riconosciuto, con la ripartenza delle attività dal vivo si è colto subito quanto stare fisicamente insieme nello stesso locale ad ascoltare un concerto sia qualcosa di essenzialmente diverso: solo la condivisione di uno spazio fisico può far sì che si crei davvero un’atmosfera di scambio, un’energia contagiosa; con il digitale questo non può accadere.

Sei impegnato sul fronte della salvaguardia dell’ambiente da tempo, già parecchi anni fa affrontando questo tema raccontavi alcune abitudini che avevi adottato per ridurre il tuo impatto sull’ambiente. Oggi che quella dei cambiamenti climatici è diventata un’emergenza, che cosa ti viene da dire?
Che siamo andati troppo oltre. Le infrastrutture globali sono state sviluppate senza badare minimamente alla salvaguardia del pianeta e con la digitalizzazione la situazione non migliorerà: il cloud per l’archiviazione dei dati consuma una quantità enorme di elettricità, di energia, contribuendo al surriscaldamento del pianeta. Per non parlare dei voli aerei…

La produzione di carne, per il modo in cui è stata implementata, è ciò che inquina di più in assoluto, ma questa è una verità di cui si parla troppo poco. In generale sei più ottimista o pessimista?
Ci vorrà tempo per cambiare certe abitudini, anni e anni, e non so nemmeno se accadrà mai. A essere onesto non vedo capi di governo che desiderino davvero la svolta ecologica di cui si parla. E mi rattrista che mentre tanti di noi cercano nel loro piccolo di fare qualcosa, nei posti di comando si promuovono un mucchio di cose che non funzionano, che non sono così green come vengono raccontate. Quando vivevo in Inghilterra, per esempio, cercavo di comprare poca plastica e di riciclare tutta quella che usavo, salvo poi scoprire che una grossa percentuale di quella plastica veniva venduta all’estero per essere bruciata. Ecco, di fronte a una cosa del genere è ovvio che venga da domandarsi: ma allora perché sto riciclando?, perché il governo mi racconta palle? Gli sforzi individuali che ciascuno di noi può fare non possono cambiare le sorti del mondo, se le classi dirigenti non prendono seriamente a cuore la questione. E se con classi dirigenti mi riferisco a chi ha potere e denaro, per davvero a cuore intendo senza ipocrisie, perché anche la questione delle automobili elettriche non mi convince: come smaltiremo tutte quelle batterie e il litio che contengono? Ci dicono che queste nuove macchine sono green, e la gente benestante le compra perché è un gesto che la fa sentire meglio, ma ho molte perplessità al riguardo. La verità è che bisognerebbe cambiare del tutto prospettiva, i governi dovrebbero smetterla di parlare di margini di profitto e di abbracciare un capitalismo fondato unicamente sull’avidità, perché è quello il problema di base.

Ma Fleur, del 2007, è stato l’album della consacrazione per The Cinematic Orchestra, e a questo ha contribuito il successo di To Build a Home, uno di quei pezzi non strumentali con cui la band si è avvicinata alla forma canzone. In oltre 20 anni di attività hai arruolato vari cantanti e rapper, ma Patrick Watson come l’hai scelto?
È una storia divertente, l’ho scelto perché giocava a hockey su ghiaccio, tra gli sport più seguiti e amati in Canada. Giuro! All’epoca vivevo a Parigi, avevo finito il tour dell’album Every Day ed ero un po’ stufo del mondo del clubbing: i dj erano diventati star e si pensava quasi solo a fare soldi. Il che mi annoiava, avevo voglia di spostarmi altrove. Anche perché tutto era sempre più concentrato sul beat e di canzoni non c’era più traccia, mentre a me piaceva la combinazione tra elettronica contemporanea e scrittura in forma canzone. Così cominciai a contattare dei cantanti in Francia, ma non andò in porto nulla, finché il mio manager mi disse che il manager della Ninja Tune in Canada, Jeff Waye, un A&R dell’etichetta, gli aveva suggerito un ragazzo che giocava con lui a hockey su ghiaccio. Ebbene, era Patrick Watson, che sul campo faceva il portiere! Una storia assurda, anche perché Patrick è talmente bravo… Mi ha colpito perché nella sua voce puoi sentire lui, la sua anima.

Sai che anni fa uno sconosciuto mi ha regalato il CD, per tua sfortuna masterizzato, di Every Day? Eravamo entrambi in macchina con i finestrini abbassati, io ero in un momento di grande tristezza e probabilmente me lo si leggeva in faccia, e lui, mentre eravamo fermi al semaforo, dopo aver osservato che stavo ascoltando un pezzo particolarmente triste di Leonard Cohen, mi allungò quel disco di The Cinematic Orchestra dicendo che mi avrebbe fatto bene.
Ma è magnifico! Condividere musica con qualcuno che non conosci è un gesto fantastico. Ciò che amo della musica è che, trattandosi di un linguaggio universale, ciascuno nel mondo può comprenderlo indipendentemente dalla lingua che parla. Niente limiti, né barriere, nessun confine. È una delle ragioni per cui continuo a scrivere, a comporre. Ora sto lavorando a del nuovo materiale, un nuovo album di cui non posso ancora dire nulla, se non che avrò delle voci bellissime a farmi compagnia. A Milano proporremo qualcosa in anteprima, era da tanto che non mi sentivo così entusiasta.

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