Quando uscì Trouble Will Find Me, avevo intervistato i National al Michelberger Hotel di Berlino, di mattina. La sera avrebbero suonato nel cortile dell’albergo per amici, giornalisti e addetti ai lavori, e nell’after-party del concerto (bellissimo, nonostante nevicasse, o forse proprio per quello), Bryce Dessner, il chitarrista, mi aveva presentato tale Isu – un’artista finlandese – dichiarando: «Secondo me potreste diventare amiche». Ci aveva preso, siamo diventate grandi amiche. Al tempo mi aveva spiazzato il suo intuito divinatorio, ma poi ho capito che non si trattava tanto di ipotizzare convergenze astrologiche, quanto di un suo ruolo preciso all’interno della band. Nell’after-party lui e suo fratello, Aaron, si preoccupavano di monitorare gli invitati, con l’ansia di chi ci tiene alla riuscita di una festa. Matt, il cantante, aveva fatto una fugacissima apparizione, insieme all’immancabile calice di vino, e i gemelli Devendorf (Scott e Bryan) se ne stavano sostanzialmente per i fatti loro.
«L’abbiamo ribattezzato il metodo National», mi ha detto una volta (non senza ironia) il cantante di una band meno famosa di loro, «i gemelli Dessner si occupano di public relations, così Matt può giocarsi la carta genio e sregolatezza». Comunque il metodo funziona, e sembra portare una certa sanità nei rapporti di gruppo, sebbene durante quell’after-party Bryce avesse insinuato un principio di insofferenza reciproca nella band. Avevano tutti bisogno di uscire dalla comfort zone dei National. E così è stato. Negli ultimi anni Matt ha fatto un album con gli EL VY (un duo dove dà sfogo alla sua vena più scanzonata e meno maledetta), Scott e Bryan hanno inciso con gli LNZNDRF, Aaron ha lavorato come produttore (Local Natives, Sharon Van Etten, Lisa Hannigan) e Bryce si è dato alle sue composizioni di musica classica, alle colonne sonore (The Revenant) e all’organizzazione di festival, tra cui quello alla Funkhaus (l’ex stazione radio della DDR) di Berlino, insieme ad Aaron e Bon Iver: un rave indie senza una vera line-up, affidato a un principio di serendipity.
Il pubblico (chiamato ideologicamente PEOPLE) si aggirava tra le magnifiche sale della struttura – un mix di classicismo sovietico e Bauhaus –, ritrovandosi a caso di fronte a un dj set di elettronica, una jam-session rockettara, un concerto al piano di Damien Rice, o roba astrusa tipo un urlatore giapponese. «Quel festival è stato una svolta nel mio modo di intendere la musica», mi dice Bryce al telefono da Parigi, dove è alle prese con l’ennesimo “progetto laterale” (un concerto alla Philharmonie: eseguiranno Planetarium, il lavoro in collaborazione con Sufjan Stevens, Nico Muhly e James McAlister). «In un certo senso, era un anti-festival che scardinava completamente il concetto di band, di industria musicale e di promozione. Abbiamo chiamato una serie di artisti che ci piacevano – famosi e sconosciuti –, diversi tra loro, abbiamo offerto una residenza in cui lavorare, e poi abbiamo aperto alla gente. Non avevamo idea di cosa sarebbe successo. È stata l’esperienza più intensa e imprevedibile in 22 anni di carriera».
Gli chiedo come si tenga insieme un approccio così sperimentale e vagamente hippy, con il lavoro dei National, che resta una band tradizionale sotto molto aspetti. «Durante la residenza alla Funkhaus abbiamo anche suonato pezzi del nuovo album dei National. Era la prima volta che facevamo una cosa del genere, io mi sono ritrovato a suonare sette strumenti diversi. Parte di ciò che è venuto fuori – anche solo di improvvisazione sonora – è entrato nell’album. Ti confesso che all’inizio non ero granché entusiasta all’idea di mettermi al lavoro sul nuovo disco, non ero nemmeno sicuro l’avrei fatto, a meno che non fossero cambiate molte cose. La Funkhaus ha fatto parte di questo cambiamento. Adesso sono convinto che Sleep Well Beast (in uscita l’8 settembre, ndr) sia il nostro album migliore, il più interessante». Prima di parlare con lui, l’avevo ascoltato per una giornata intera, ma non avevo colto questo azzardo rispetto ai lavori precedenti. Il che, da un certo punto di vista, mi rassicurava, perché ho sempre il terrore che i miei artisti preferiti si evolvano più di quanto io sia in grado di accettare.
«Per me lo scarto è evidente», dice Bryce, mettendomi in crisi, «rispetto ai quattro dischi precedenti, che vedo simili: da Alligator a Trouble Will Find Me. Ci sono cambi nel ritmo, nell’armonia, una texture più elettronica, nuovi synth, un’orchestrazione più complessa, pezzi più lunghi, e soprattutto si riesce a catturare l’energia dei nostri live, cosa che negli altri lavori non abbiamo lasciato accadere». Il festival alla Funkhaus è stato anche la prova che il pubblico è molto più curioso e versatile di quanto si creda. «Era sperimentare dal vivo ciò che oggi è possibile tramite Internet. Un’espansione e diversificazione di accesso. Anche nella musica pop puoi scoprire roba incredibile: prendi gli artisti che lavoravano con Kendrick Lamar o Chance the Rapper. Oppure nella musica classica, dove ci sono compositori che spingono in direzioni nuovissime, che sfondano l’accademismo, i dogmi e una certa tradizione maschilista e razzista, ancora convinta che solo i bianchi di sesso maschile possano affrontare il genere». La registrazione di Sleep Well Beast è avvenuta a Long Pond, uno studio ideato per la band da Aaron (è l’edificio che vedete sulla copertina del disco). Si tratta di un enorme spazio nella campagna a nord di New York, dove i National potevano vivere, farsi una nuotata al lago e lavorare, senza soluzione di continuità. «Ci ha fatto bene», mi dice Bryce. «Ci è servito a stare insieme senza formalismi. Matt cantava dalla mattina alla sera… Sleep Well Beast è il nostro album più collaborativo».
Qualche giorno prima ne ho parlato al telefono anche con Scott, il bassista: «È stato un processo più fluido, a partire dai ruoli. A me capitava di provare pezzi alla tastiera, di fare esperimenti elettronici». Quando gli ho chiesto se tra 10 anni immagina di suonare ancora insieme ai compagni, mi ha dato una risposta commovente: «Le rotture tra le band mi fanno soffrire. Io penso: se volete suonare ancora, fatelo. Altrimenti smettete e poi ricominciate, oppure non ricominciate. Ma non parlate mai di rottura, perché sto malissimo». A Long Pond i National hanno ritrovato l’atmosfera del posto in cui sono cresciuti, in Ohio («Nella sua versione carina», commenta Bryce), e questo ha avuto un impatto emotivo. Dopo essersi trasferiti a Brooklyn, oggi vivono sparsi per il mondo. Bryce abita a Parigi e ritiene che la vera differenza tra l’Europa e l’America sia la retorica sui soldi. «Certo, il clima in America è diventato tossico con Trump, ma la cosa più incredibile è che la gente qui non parla tutto il tempo di soldi. Non ti chiedono quanto guadagni. Conosco artisti pazzeschi che fanno la fame e non gliene importa niente, non si sentono degli sfigati. Non dico che non ambiscano al successo, ma ci tengono a quello che fanno, a prescindere dai soldi. Per un americano è uno choc culturale».
Mi fa piacere questa candida forma di ammissione, soprattutto perché anni prima, all’after-party del Michelberger, mi aveva confessato che non si sentivano ancora così arrivati, come band: «Guadagniamo molto meno degli Arcade Fire…». Gli chiedo se sia stato anche l’arrivo dei figli (oggi tutti i membri dei National sono padri, nda) a riformulare il senso dell’ambizione, un discorso che serpeggia nei testi di Matt. «Può darsi. Io sono diventato padre da pochi mesi, e mi riconosco nei testi di Matt più di quanto abbia fatto finora. C’è la consapevolezza di invecchiare e l’idea di mettere a riposo i propri “demoni”, ma c’è anche qualcosa di più sincero e devastante: che per quanto siano buone le nostre intenzioni – e nonostante le nostri mogli o i nostri figli – saremo sempre capaci di distruggere tutto e fare cose orribili».
Potete leggere l’edizione digitale della rivista,
basta cliccare sulle icone che trovate qui sotto.