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The Streets, l’uomo che ha cambiato il rap britannico è tornato

Dopo aver abbandonato il progetto all’apice del successo per darsi alla vita da dj, Mike Skinner è tornato a casa per un album e un film, ‘The Darker the Shadow the Brighter the Light’. L'intervista

Foto: Ben Cannon

Animo hip hop che abbraccia il garage, penna prestata a un rap impregnato di humour britannico, un flow tagliente che unisce i due mondi e viene spinto sul dancefloor. L’adolescenza tra le periferie di Birmingham fino ad arrivare ai club di Londra, passando per una numero uno nelle classifiche di vendita in Regno Unito (il brano Dry Your Eyes, nel 2004), quando il funerale al britpop era ormai andato in scena e la musica da quelle parti stava cambiando, ancora.

Mike Skinner ha dato al rap britannico una voce propria ed una voce nuova, per come già dimostrano queste poche righe e per quanto il suo progetto, The Streets, ha smosso durante il tempo: dopo l’esplosione al debutto a 24 anni nel 2002, con Original Pirate Material — un’ode alla primissima garage britannica che si poteva trovare sulle stazioni radio pirata, ancor prima del boom totale nei club —, la sua carriera è stata costellata da saliscendi emotivi che ne hanno contraddistinto (e in parte forse frenato) idee, stimoli ed espressioni.

Nel 2011, appena trentaduenne, rilascia un’intervista al The Guardian, in cui spiega senza mezzi termini la volontà di voltare pagina: «Per quanto sia poco intrigante parlare di The Streets, l’elemento più interessante di qualsiasi cosa è la sua morte: se volete continuare a parlarne, allora la fine del progetto è probabilmente una cosa buona su cui discutere», diceva. Un rapporto travagliato con il successo, probabilmente arrivato in modo travolgente ed inaspettato, l’ansia, la depressione, una sindrome da stanchezza cronica riscontrata durante gli ultimi anni. Persino una comparsata nella serie Doctor Who, nel ruolo di addetto alla sicurezza: il suo viaggio — specie fuori dalla musica — è stato fin qui follemente controverso, discusso e altalenante, pur avendo la percezione che stesse accompagnando le tappe di un vero, estroverso innovatore.

Prima di tornare solo brevemente con un mixtape nel 2020, None Of Us Are Getting Out Of This Life Alive — che includeva importanti collaborazioni con Kevin Parker alias Tame Impala, gli IDLES e Ms Banks —, negli ultimi anni Skinner ha trovato nuovi stimoli nell’incontro con David Lewis (conosciuto come Murkage), artista garage e dj all’epoca di stanza a Manchester, con cui il progetto di improvvisare un back to back alla console è decollato presto, prima con l’alias Tonga Balloon Gang e poi con tour tra Regno Unito ed Europa. Una scelta che sembrava chiudere le strade a palchi e classifiche, aprendo definitivamente le porte al djing a tempo pieno. Solo che poi Skinner, ancora, ha cambiato tutto.

A distanza di dodici anni Mike, o meglio, The Streets è tornato in doppia veste: un album, The Darker the Shadow the Brighter the Light (che fu anche nome di un suo progetto nel periodo di silenzio The Streets), e un film, dal titolo omonimo, da lui scritto, diretto e interpretato. Ma come ci siamo arrivati qui? Ce lo ha raccontato lui stesso, in videochiamata, qualche giorno dopo un sold out alla data londinese di Alexandra Palace da dove è passato il suo tour. Poco dopo un simpatico scambio di battute per rompere il ghiaccio che descrivono già bene la schiettezza del personaggio: «Pensavo di trovare il Colosseo, sullo sfondo. Oppure non so, degli alberi della campagna Toscana. Invece vivi a Londra anche tu!», esordisce, in riferimento a quanto scorge dalla webcam da cui lo saluto. Confermo, sorridendo, e nel dargli un po’ di contesto finiamo a parlare delle mie origini siciliane: «Ah, la patria degli arancini! Li ho cercati ovunque, durante un viaggio fatto di recente a Roma. Pensavo di andarci la prossima estate in Sicilia, con la mia famiglia. Vorrei visitare i luoghi dove è stato girato Nuovo Cinema Paradiso», mi risponde.

Premessa fatta, tra una battuta e l’altra torniamo al discorso centrale, in cui appare chiaro come The Streets abbia (davvero) a cuore entrambe le anime di questo nuovo progetto, ossia l’album ed il film: «Cos’è successo in questi anni, dicevi. Non è una risposta semplice, sai. Dopo Computers and Blues (del 2011 nda) è stato tutto molto frammentato: volevo fare il regista, nel frattempo stavo ancora scrivendo musica, anche se in modo diverso. E volevo anche continuare a farla, a sentirla, in modo diverso. Così ho cominciato a fare il dj e organizzare party, cosa che è diventata centrale negli ultimi dieci anni della mia vita», dice, proprio in riferimento alla clubnight Tonga che ha messo su tra i locali di East London con Murkage, oltre ad aver continuato l’abbuffata di interminabili notti nella capitale britannica anche via residency mensili al celebre XOYO di Old Street. «Solo una volta finite le riprese del film, che era un’idea che avevo in mente da tempo, è stato tutto più chiaro. Anche per quanto riguardava il futuro del progetto The Streets».

La narrazione dell’album, che si snoda tra l’adrenalina del rave e la redenzione del giorno dopo, fotografa il deep-dive emotivo di Skinner nella cultura club, riversandosi inevitabilmente, come faccia della stessa medaglia, anche nelle tonalità noir, à la Black Mirror, del film: «È stato tutto molto istintivo, anche se credo di aver trovato la strada che stavo cercando solo dopo tanti esperimenti. Avevo iniziato a pensare di girare un film, di quelli “veri”, dopo diversi tentativi fatti con il formato del videoclip per una serie di brani. Attraverso questi test le cose sono diventate molto chiare: era una sceneggiatura da portare su uno schermo. O forse un album. O tutte e due, perché no, direi che non lo sapevo ancora, ma da lì è tornata anche la voglia di scrivere musica, scrivere un disco, rimettere in sesto The Streets».

Quest’anno un’anticipazione del suo possibile ritorno c’era stata in primavera, nel featuring con Fred Again.. e Dermot Kennedy nel pezzo Mike, anche se nel frattempo, digitando su Google il suo nome, una tra le ricerche correlate in cui ci si poteva imbattere con certezza restava “What happened to Mike Skinner?”. Nell’album, il rapper e dj si esprime comunque con la solita audacia dei vecchi fasti, nei versi che si alternano tra rari sample blues degli anni venti (ad esempio da alcuni brani della cantante Virginia Liston nella title track The Darker the Shadow the Brighter the Light, ed in coda al disco, in Good Old Daze) e ritmiche hip-hop che si confondono prima allo spoken-word poi alla cara vecchia garage.

«Inizialmente non avevo esattamente idea della storia che avrei raccontato, di come metterla in scena, con che mezzi. Credo abbia influito molto il fatto che realizzare un film sia un processo lungo e incerto, in cui devi pianificare tutto per tempo, per motivi di risorse e soprattutto di costi. La domanda ricorrente, piuttosto, è se ce la farai o meno. E per uno come me, alla prima esperienza di questo tipo, ha significato capire subito che non fosse esattamente come scrivere un nuovo album, ma qualcosa di più complesso a cui dedicare molto tempo, con le idee chiare», dice.

Skinner non è però del tutto nuovo ad operazioni di questo tipo, forse a dimostrazione che il making of di questo capitolo è da cercare nel passato: il suo secondo lavoro in studio A Grand Don’t Come for Free, uscito nel 2004, si ispirava nei testi ad autori di Hollywood come Robert McKee, Syd Field e John Truby, di cui dichiarava già di scrutare libri e manuali di scrittura per il cinema. In questo caso però la base di partenza è autobiografica: «Sì, in quell’occasione avevo provato ad ispirarmi a livello autoriale al cinema, nei testi, nel lessico e nella struttura. Qui la storia continua a doppio filo, ma si basa sulla mia vita: Non è una fiction, insomma. È quello che mi è successo dentro i club durante l’ultimo decennio», afferma.

Tra i temi ricorrenti nella scrittura dell’inglese la salute mentale è stata quella che ha trovato sempre più posto tra i suoi versi, spesso in bilico tra il cinismo e l’allegorico e sempre mitigata nel pensiero dalla carica di ritmi spinosi e flow troppo catchy per fermarsi a riflettere sui sentimenti. Cosa che torna nei patemi del protagonista del concept album che lo stesso artista ha diverse volte sottolineato attraverso interviste a mezzo stampa, esponendosi sulla cronicità della depressione, l’importanza dell’accesso a terapia e farmaci e l’uso spropositato, in tempi recenti, della celeberrima resilienza, nella cura a mali che avrebbero invece bisogno di vero supporto. Il singolo Troubled Waters, che quest’estate ha anticipato l’album, condensa tutte le anime di cui si nutre il duplice progetto, come nei versi finali che recitano “Outside of a nightclub I don’t know what to do / Inside of a nightclub it’s too dark to care” (Fuori dal club non so cosa fare / Dentro è troppo buio per preoccuparsene).

Il focus di Mike Skinner, per questo lavoro, è il buio della notte: è centrale la figura del club, che è quasi trattato come una persona, un’entità con cui sfogarsi o con cui confidarsi, mai sullo sfondo ma sempre nella superficie degli eventi: «Credo di essere partito con un’idea diversa per scrivere musica e film, poi è successo che, senza che io lo pianificassi, la storia si è inevitabilmente scelta da sola. In questo anni volevo fare il dj e continuare a scrivere musica, ma anche buttare giù idee per la regia. Così la notte, il club e il suo suono sono diventati il soggetto da scrivere, con me ad impersonificarlo come protagonista. È la mia vita, non potevo sbagliarmi. E forse era inevitabile, per quanto all’inizio non lo sapessi, che quello che volevo fare era restituire un’immagine autentica di cosa stessi facendo e di cosa ho provato negli ultimi anni — adesso anche sul grande schermo».

Da una quasi riesumata fidget house in apertura, col brano Too Much Yayo, alle ritmiche dubstep di Troubled Waters, le trame dell’album (che sì, ovviamente è anche soundtrack dell’omonimo film) parlano di sentimenti, tensioni, gioie e poi di nuovo dubbi, riflessioni che sembrano rintracciare il racconto di una notte-tipo per Skinner, da qualche parte nei suoi ricordi. E che infatti permeano anche nella scelta delle location, fatta in modo che la pellicola parlasse per (e di) The Streets, in tutto e per tutto: «Abbiamo girato tutte le scene dei party in club reali e ad eventi reali, quindi registrato dove davvero non c’è possibilità di essere o sembrare fake. Questo dà più sicurezza per un risultato fedele». E ancora, sulla volontà di keeping it real, «soprattutto, penso, chiunque conosce la vita nei club si accorge quando un ambiente è finto, inventato. Come fai a scenografare il set di un rave? Tanto vale catturale le immagini di un rave che sta accadendo, altri modi non avrebbero alcun senso. Non volevo qualcuno pensasse: ‘Cavolo, questa cosa sembra girata nel peggior party in cui sono stato in vita mia’».

Un luogo che anima una costante dicotomia interiore, rappresentando nella sua vita artistica ormai il posto dove essere e quello da cui fuggire, contemporaneamente: «È un’ossessione, un piacere, un’emozione continua, ma allo stesso tempo una fatica, fatta di tanta solitudine. Non c’è una verità in questo percorso tra ‘bello’ e ‘brutto’, è semplicemente qualcosa di estremo: il club che racconto nell’album è un posto dove entrambe le sensazioni si equivalgono, e lo stesso fa il film. Quella del vuoto nel viaggiare da soli per tanto tempo, del trovarsi su un aereo a qualsiasi orario e quella galvanizzante di avere la pista piena davanti, colma di energia per poi ritrovarsi soli di nuovo, e così via, in maniera ciclica».

Per la natura artistica di The Streets, un altro fattore rilevante è che questo ritorno appaia sincero, come dice, soprattutto per le persone che ha scelto di coinvolgere per un progetto intriso di significati personali. Nonostante siano sporadici gli interventi di terzi nel disco (appaiono quelli vocali di Kevin Mark Trail, Robert Harvey e Teef), la coralità del capitolo, soprattutto sul livello cinematografico, è stata una novità non di poco conto: «È la mia storia, il mio racconto, ma ironicamente anche uno dei lavori in cui ho collaborato con più persone in assoluto in vita mia, contrariamente al passato. Mi sono sempre chiesto perché i titoli di coda dei film erano così lunghi, pensa. Credo di aver capito adesso». Aggiunge poi un auspicio sul suo stesso futuro, in chiusura, che suona schietto, senza fronzoli, come un riflesso della carta d’identità di Mike Skinner, per come lo abbiamo sempre conosciuto: «Credo il risultato sia perfetto, era quello che avevo in mente di fare per tornare davvero. Però penso anche che, alla fine della fiera, ho fatto quello che faccio dai miei esordi, cioè raccontare storie vere ed essere me stesso. Credo adesso sia solo arrivato il momento di uscire di casa, godermi il tour, la musica e le persone che verranno ai concerti».

The Darker the Shadow the Brighter the Light (il film), è stato proiettato in anteprima in alcuni cinema di Liverpool, Bristol, Birmingham e Londra ed è in attesa di una data d’uscita ufficiale in streaming prevista per il prossimo anno. Quanto saprà dirci davvero sul suo futuro, sul grande schermo o tra club e piccate barre scritte su un foglio in studio, è ancora faccenda prematura, ma la sensazione è che questo doppio capitolo abbia restituito stimoli importanti ad una carriera che aveva ancora molto altro da esplorare, altre cose da dire, con i suoi tempi ed i suoi modi. Che fossero alla luce delle prime ore del mattino o al buio di una gelida notte, in fila per entrare al club, poco importa: tra il dancefloor e il ritorno nelle (sue) strade, la penna di Mike Skinner può ancora significare molto per il rap britannico moderno.

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