Se oggi siete intorno ai 35/40, e se non eravate dei metallari oltranzisti, probabilmente avete passato le estati della vostra adolescenza bevendo cocktail scadenti e ballando su una cassa in quattro con il basso costantemente sugli ottavi. Sicuramente ai tempi non vi rendevate conto che anche in molti altri paesi succedeva lo stesso e che la dance era diventata la nuova immagine del made in Italy. Che piaccia o meno, è stato un momento importante per la nostra musica e l’epicentro era Alessia Aquilani, in breve: Alexia. Ha messo a segno un successo dietro l’altro scalando le classifiche internazionali, fu la prima artista italiana ad esibirsi in Inghilterra a Top Of The Pops e in Finlandia vendeva più di Michael Jackson. Poi la sua carriera si è evoluta spaziando tra generi diversi e pubblicando altri dischi di successo. Ora, per i suoi 50 anni appena compiuti, si regalerà un nuovo album di inediti. Noi l’abbiamo intervistata per farci raccontare di quel primo, glorioso, periodo, quando Danny Boyle la implorava per avere Think About The Way nella colonna sonora di Trainspotting e la summer era crazy, ma decisamente happy. Una piccola storia, bellissima e tutta italiana.
Partiamo dall’inizio, come sei finita a fare dance?
Ho fatto una lunga gavetta. Per tanti anni ho suonato nelle cover band e, nell’ultimo periodo, era diventato doveroso fare anche i pezzi dance che andavano ai tempi, come le canzoni di Spagna o le altre hit che entravano nelle chart. Avevo comprato l’impianto, le luci, i furgoni, giravamo come pazzi. Provavo anche i concorsi canonici ma senza grandi risultati, poi ho incontrato il mio primo produttore in una discoteca.
Roberto Zanetti, in arte Robyx.
Esatto. Dopo una prima collaborazione, piuttosto insignificante, mi chiamò a lavorare da lui in studio come corista e in alcune cose per Double You. Nel frattempo aveva scovato Ice Mc e aveva già messo a segno un po’ di successi. Ha deciso di includermi nel progetto e nel ’94 c’è stato il miracolo con Think About The Way. Finimmo nelle chart di tutto il mondo e pure nella colonna sonora di Trainspotting. Ad un certo punto la cantante di colore che girava con Ice Mc, quella che faceva finta di cantare con la mia voce, si era stufata di fare solo la controfigura e ha chiesto di cantare davvero. Non è stata considerata all’altezza e scelsero me anche per i tour. Tre anni dopo pubblicammo Me and You, il primo singolo a nome Alexia.
A tuo avviso siete riusciti a inserire Think About The Way nella colonna sonora perché la canzone rappresentava bene il mondo raccontato dal film o c’erano altre ragioni?
La cosa è andata all’inverso, sono stati loro a volerci fortemente. Zanetti ricevette una telefonata dalla casa di produzione del film dove ci chiedevano se potevano utilizzare il brano. Mi ricordo che mandarono pure un fax per provare a convincerci.
Vuoi dire che ai tempi eravate più famosi voi di Danny Boyle?
Beh, sì. Dal momento che Zanetti era proprietario di tutti i diritti del brano ha deciso da solo. Mi disse: «Sai mi hanno chiesto la canzone, secondo me sono un po’ degli sfigati, ma sono inglesi, fa figo, ho deciso di dargliela». E poi il film è scoppiato e noi siamo finiti nella colonna sonora di un cult movie pazzesco. (ride)
La dance per te era solo una possibile via per fare carriera – come un’attrice giovane che oggi non rifiuterebbe mai una parte nei Cesaroni pur sapendo che il grande cinema è tutt’altra cosa – o invece ti piaceva davvero?
Il paragone con i Cesaroni è centrato, ma in realtà a me la dance piaceva davvero. L’ho vissuta prima da ragazza, andando a ballare, e poi con il mio gruppo quando giravo le discoteche cercando di captare le idee delle altre cover band e rimanere sempre sul pezzo. Io amavo quella più raffinata di Chaka Khan, degli Chic, degli KC and the Sunshine Band, ma l’eurodance era comunque affascinante perché per i tempi era un vera novità. È arrivato tutto nel momento giusto: avevo l’età giusta per farlo, in più Zanetti stava diventando forte e tifavo per lui.
Sono arrivati anche i soldi?
I soldi sono arrivati e, per fortuna, sono anche avanzati. Il problema è che non avevo il tempo di spenderli. Il massimo della libidine era viaggiare in prima classe o dormire in hotel bellissimi, il resto era una faticaccia.
Qual era l’aspetto più stressante del tuo lavoro?
Dover far la stessa cosa per mesi e mesi: sempre la stessa canzone, sempre le stesse parole prima e dopo il pezzo, sempre gli stessi movimenti sul palco. In più non era facile gestire tutto quel successo, ci sono stati anni dove anche a Londra venivo riconosciuta e fermata per strada. Non avevi mai un momento per te e, quando sei giovane, questo tipo di pressione ti pesa.
L’impressione più diffusa è che il mondo dance italiano fosse piuttosto alla buona: i plagi erano all’ordine del giorno e spesso i producer portavano avanti più progetti in parallelo sperando che almeno uno sfondasse. Era davvero tutto così amatoriale?
No, è un’impressione sbagliata. È vero che spesso i pezzi nascevano nei retrobottega e in modo, diciamo, amatoriale, ma quando determinati nomi sono diventati grossi è arrivato anche l’interesse delle major ed è diventato necessario adeguarsi a determinati standard. A prescindere da questo, da Avicii fino a Martin Garrix, la dance è sempre nata nella camerette e con pochi mezzi, sono le idee che contano.
Le melodie chi le scriveva?
Le scrivevamo io e Zanetti. Diciamo che io mettevo la voce e lui dava la zampata pop finale. Ogni tanto mi lamentavo che erano troppo banali e lui invece mi obbligava farle ugualmente dicendo che avrebbe funzionato e, porca puttana, funzionavano sempre.
Come nasceva un pezzo?
Quando aveva un’idea ci trovavamo in studio con il tecnico del suono e la provavamo su una base improvvisata, giusto per vedere se la struttura del brano stava in piedi. Poi loro continuavano sull’arrangiamento mentre io andavo a casa a lavorare sul testo. Mi dava dei paletti piuttosto rigidi: mi diceva già il titolo e i concetti su cui lavorare. Dovevano essere cose molto chiare, come se fossero degli slogan.
Non era alta letteratura.
No, non era alta letteratura (ride). Quando scrivevo cose più personali mi diceva sempre che non andavano bene, che erano troppo complicate e che le dovevano capire anche i fornai – con tutto il rispetto per la categoria – a maggior ragione se una canzone doveva chiamarsi Happy. Se quel pezzo lo suonano ancora oggi vuol dire che il suo obiettivo l’aveva centrato. Può aver avuto colpi di fortuna – vedi Trainspotting – ma ha avuto anche ottime intuizioni. Era davvero molto bravo.
Mentre con la cassa dritta che rapporto avevi?
Due palle, ad un certo punto due palle. Non era tanto la cassa in quattro ma stare sempre alla stessa velocità. Quando cresci, poi, non ti interessa più di tanto e ti diverti ugualmente, ma all’epoca il pensiero che la mia vita fosse fatta e finita a 138 bpm e con un basso che faceva solo gli ottavi mi faceva morire.
L’eurodance è stato uno dei pochi generi che è avuto successo in Italia pur non avendo nulla di italiano, come te lo spieghi?
Era tutto merito delle melodie, pur non essendo le classiche alla Claudio Villa erano ugualmente molto belle. Anche gli svedesi erano bravissimi con le melodie, dagli Abba fino Ace Of Base hanno sempre avuto un grande talento. In più noi avevamo una genuina semplicità che si è dimostrata vincente. È il motivo per cui nei ’90 abbiamo venduto in tutto il mondo e per cui, negli ultimi anni, Pitbull e molti altri producer hanno ripreso i nostri suoni. Sono sonorità popolari, funzionano.
L’aspetto più affascinante della nostra dance era questa doppia anima: una base grezza e ignorante, a volte al limite della gabber, su cui si appoggiava una melodia più dolce e pop. Sei d’accordo?
È un buon punto di vista, in pratica è la stessa cosa che ci dicevamo in studio: noi abbiamo le melodie forti, loro hanno i suoni fighi. L’obiettivo era fregare quelle idee e quella loro capacità di essere innovativi e mischiarla con la nostra tradizione melodica.
Loro chi erano?
I C+C Music Factory, i Beats International, uno dei tanti progetti di Norman Cook prima che si chiamasse Fat Boy Slim, i Soul To Soul o gli Snap, quest’ultimi li tenevamo in altissima considerazione, hanno fatto davvero delle grandi cose. Era un periodo bellissimo e, nonostante le solite critiche che dicevano che le canzoni erano costruite a tavolino solo per accontentare il pubblico, mi piaceva molto la musica di quel momento.
E le canzoni erano costruite a tavolino solo per accontentare il pubblico?
Le nostre sì, assolutamente. La canzone non usciva dallo studio fino a quando Zanetti non dava il suo benestare. Era anche giusto, dal momento che ci metteva il grano, la faccia e tutto il resto. L’ho fatto fino a quando mi è stato bene, quando non è stato più così me ne sono andata e ho fatto altro. Ho pubblicato Dimmi Come, che era sì un pezzo fatto per far ballare ma era sicuramente più nelle mie corde e mi piaceva decisamente di più. Per me la dance è stato in momento importante ma dopo si è aperta un’altra fase altrettanto bella, con molti dischi e altrettante soddisfazioni, la vittoria di Sanremo inclusa.
La scena dance la segui ancora?
Abbastanza, in primis perché mi piace, e poi perché ho una figlia di dieci anni e se c’è qualcosa di forte me lo segnala lei.
A soli dieci anni?
Sì, ma guarda che i loro dieci sono i nostri quindici. I bambini adesso stanno tutto il giorno su YouTube ricevendo continuamente informazioni da influencer e da youtuber. Ghali me l’ha fatto scoprire lei, per dire.
Del pop italiano c’è qualcos’altro che ti piace?
Di musica italiana ne ascolto poca ma, dal momento che continuo a fare dischi in italiano, il prossimo uscirà a settembre, mi è necessario seguirla per capire i nuovi trend e tenermi aggiornata. Mi piacciono i Thegiornalisti, trovo che abbiano delle melodie molto melanconiche ma con dei suoni nuovi e freschi, è un bellissimo mix.
In America pop e dance sono ormai la stessa cosa e le cantanti – da Lady Gaga in giù – fanno a gara per accaparrarsi i producer giovani più freschi e innovativi alzando la competizione e, di conseguenza, la qualità delle hit. Da noi questo circolo virtuoso non si è mai innescato, perché?
Io credo che l’Italia in questo sia difettosa. I motivi possono essere tanti, in primis il peso della nostra lingua che male si sposa con certe sonorità e ti costringe sempre a cercare un sapore, una qualità e un preciso valore estetico delle parole. E poi è una questione di mentalità, prendi la radio: se ascolti le emittenti svizzere, polacche o tedesche, il discorso cambia. Forse loro non hanno granché da offrire, ma capisci come in Italia il peso della tradizione sia ingombrante. Va bene essere la patria del bel canto, ma poi non lamentiamoci se non sfondiamo all’estero. Io ne farei anche a meno di tutti questi tormentoni latino-americani, ma chapeau. Se riescono a vendere in tutto il mondo vuol dire che sono più bravi di noi, punto.