I primi due squilli vanno a vuoto, il terzo è quello fortunato. “Third time’s a charm” dicono gli anglofoni: la terza volta è quella buona, appunto. Dall’altro lato del telefono c’è un affabile Stephen Lee Bruner, che il mondo conosce come Thundercat. Virtuoso del basso dal look pazzo, ma soprattuto musicista e produttore dal suono e approccio iconici: ha messo lo zampino in tutta la musica statunitense più influente degli ultimi vent’anni. Tra le collaborazioni come pedina cruciale ci sono quelle con Kendrick Lamar, Flying Lotus, Kaytranada, Kamasi Washington, Erykah Badu, Mac Miller, Anderson .Paak, Terrace Martin. La lista è lunghissima. Senza citare poi i suoi album solisti, lunghi viaggi approfonditi tra funk, soul, hip hop e R&B – l’ultimo It Is What It Is è uscito nel 2020.
Mi risponde dall’Irlanda, appena sceso dal palco. «Sono a Dublino, ho appena finito di suonare. È stato fantastico». La voce è squillante e propositiva: ci sentiamo perché domenica 3 luglio torna in Italia dopo parecchio tempo, al Magnolia di Milano, per un concerto organizzato da Jazz:Re:Found. Solo qualche giorno dopo Kendrick Lamar all’Ippodromo di San Siro – due dei campioni del rinascimento jazz hop statunitense che ha invaso tutto il mondo e infine, con gran comodo, anche l’Italia. Difatti quella che segue è la sua prima chiacchierata per una pubblicazione italiana, in vent’anni di onorata carriera e successi planetari.
Sei conosciuto in tutto il mondo chiaramente, ma questa è la tua prima intervista per i lettori italiani quindi partirei dall’inizio. So che sei cresciuto in una famiglia di musicisti: com’è stato?
È stato abbastanza pazzesco, l’energia creativa di ciascuno era molto intensa. Era importante quindi trovare la propria voce, diventare una persona originale, distinta dagli altri. È come ci ha cresciuto nostro padre: anche ora ognuno di noi è un individuo unico, facciamo quello che vogliamo. Poi però quando siamo insieme siamo tutti lì l’uno per l’altro, per supportarci al cento per cento. In generale è stato divertente crescere in una famiglia di musicisti.
Qualche tempo fa guardavo una masterclass di Victor Wooten, come te cresciuto in una famiglia di musicisti. Diceva che la lingua parlata in casa non era l’inglese ma, letteralmente, la musica. È stato lo stesso per te?
È stato un misto. Sicuramente era la più grande forma di comunicazione, ma mio padre era anche molto pratico nel modo in cui ci ha cresciuto. Pensandoci i miei genitori hanno trovato un equilibrio veramente pazzesco (ridacchia).
Sei in giro per il mondo. Visti gli ultimi due anni di pandemia com’è tornare a suonare, anche fuori dagli Stati Uniti?
È fantastico. Sai si dice che non sai veramente cos’hai fin quando non ce l’hai più, ed è un po’ stato questo caso. È veramente qualcosa per cui essere grati. Da ragazzini, crescendo con Kamasi [Washington], lui diceva sempre «ogni giorno in cui hai la possibilità di suonare è un bel giorno». Invecchiando, è una frase che assume sempre più significato, soprattutto osservando quello che ci circonda: lo stato del mondo, dell’economia, le persone che muoiono. Nessun giorno che abbiamo la possibilità di vivere è da dare per scontato. Come ti dicevo, sarà che sto diventando più maturo, ma veramente: ogni giorno in cui hai la possibilità di suonare è un giorno di cui devi essere grato.
Sei grato anche per altro in questo periodo oltre la possibilità di suonare?
Sono grato della possibilità di continuare a farlo da tanto. È uno strumento di comunicazione, ci sembra qualcosa che possiamo usare, quasi una cosa materiale, ma in realtà non fa parte di questo mondo. È nostro ma anche non nostro, non so come dire. È incredibile avere la possibilità di partecipare a qualcosa di così speciale. La musica è come l’oceano o lo spazio. Avere la possibilità di esplorarne una fetta qualsiasi è meraviglioso.
Hai esplorato molto in questi anni. C’è qualcosa di nuovo, nuova musica, artisti che ti hanno sorpreso, continuano a stimolarti e farti innamorare?
Sì sicuramente, spesso artisti che già conosco ma continuo a riscoprire. C’è un giovane musicista che si chiama Button Masher [Jake Silverman], amo molto quello che fa: cerca di infondere il jazz nell’elettronica in modo molto intricato. Intendo quel tipo di elettronica che trovi nei videogiochi 8/16 bit. Lui è un musicista pazzesco, ha vinto anche un Grammy per questo progetto. Un altro musicista che amo ascoltare nell’ultimo periodo è Tigran Hamasyan, pianista incredibile. Il mio batterista, Justin, ogni tanto ci suona anche. Sono solo i primi due nomi che mi vengono in mente.
Su questa scia mi viene da chiederti se c’è qualche artista, musicista, italiano che apprezzi.
Oh wow. Ci sono alcuni vecchi compositori che mi piacciono, ho paura che dirò malissimo i loro nomi. Sicuramente il compositore della musica di Cannibal Holocaust, Riz Ortolani.
Domani non sarà la tua prima volta in Italia però, giusto?
No assolutamente. C’è stata quella volta con i Suicidal Tendencies e anche altre occasioni. Sono curioso di vedere com’è cambiata, penso sarà divertentissimo.
Te lo chiedo anche perché solo qualche giorno fa a Milano ha suonato Kendrick Lamar. È speciale che suoniate entrambi a soli pochi giorni di distanza. Continui a sentirti con lui?
Sì assolutamente continuiamo a sentirci, ho lavorato anche un pochino sull’ultimo album. Voglio un bene dell’anima sia a lui che a Sounwave (il principale producer di Lamar, nda), amo la musica che fanno. Invecchiando sta solo migliorando, l’ultimo album è fantastico. Puoi veramente contare su di lui come artista, sai che farà il suo meglio in qualunque cosa si cimenta. Per dire: vediamo spesso artisti con collanoni d’oro, gioielli ecc, lui invece non ha mai sfoggiato niente del genere. Poi adesso arriva con questa corona incredibile che batte tutti… è semplicemente una leggenda, fatto di una pasta diversa.
E tu invece? Stai lavorando a nuova musica? Come sta andando? So che il processo per scrivere e registrare l’ultimo album è stato sfibrante, fisicamente e psicologicamente.
Piano piano sto lavorando a un nuovo disco. So che devo essere paziente quando si tratta della musica. È il lavoro della mia vita, non una cosa fica del momento che faccio tanto per. Cerco quindi di imparare qualcosa di diverso ogni volta, ogni album è diverso, sono in viaggio, curioso io in primis di dove arriverò. Sto sperimentando e facendo cose che non avrei pensato, non posso rivelare nessun segreto però (ride).
Qualche tempo fa hai fatto questo video in cui parli delle tue linee di basso preferite di sempre. Dopo il basso qual è lo strumento che preferisci?
Il pianoforte, sicuramente.
E se ti chiedessi, come in quel video, di dirmi le tue parti di pianoforte preferite, momenti iconici e via dicendo?
Ce ne sono così tante. Barry Manilow, Could It Be Magic, un sacco di pezzi di Phil Collins e i Genesis, di Stevie Wonder. Poi c’è Gino Vannelli, uno dei miei pianisti preferiti, parlo sempre di lui. Uno dei miei pezzi per pianoforte preferiti è una composizione di Ravel, Pavane pour une infante défunte. Un altro pianista che mi ispira molto è Steve Kuhn, il suo album omonimo del 1971 è stato e continua a essere di grande ispirazione per me. E poi mi ricorda molto Austin Peralta (figlio del leggendario skater Stacy e grande amico di Thundercat, giovane jazzista dal talento enorme, stroncato a soli 22 anni da una polmonite virale, nda).
Al di là della musica cos’altro ti sta appassionando in questo periodo?
Mi nutro ancora molto di passaparola, di solito sono i miei amici a passarmi cose eccitanti. L’ultimo manga che ho visto si chiama Ranking of Kings, è fantastico; so anche che stanno facendo un remake di Trigun, questo manga degli anni ’90, sono super gasato all’idea. Poi in generale mi piace rileggere vecchi anime, soprattutto quando sono nel mezzo della frenesia del tour.
La nuova scena jazz hop di Los Angeles è esplosa in tutto il mondo soprattutto nel 2015, con gli album tuoi, di Kamasi Washington e chiaramente Kendrick Lamar. Cosa pensi sia cambiato in questi anni?
Penso che tutti stiano cercando di tornare a regime dopo la pandemia. Vedremo cosa succederà, penso che sia stata un po’ un’arma a doppio taglio. Avevamo tutti bisogno di sederci a pensare un secondo, ma allo stesso tempo tutto quel pensare per molte persone ha messo tante cose in prospettiva. Penso che capiremo meglio nei prossimi anni quali sono stati i cambiamenti.
Pensi che questa situazione abbia portato le persone a dare maggior valore alla possibilità di collaborazione tra artisti? Tu stesso ne fai la tua linfa vitale…
Più che altro penso che, come dicevo prima, abbia fatto apprezzare alle persone il tempo passato a far musica, in qualunque modo. Hanno realizzato che è un dono, in qualunque forma. Penso che la pandemia abbia più che altro ricordato questo a tutti.
Hai suonato praticamente con tutti, c’è qualcuno che ancora ti sfugge?
Assolutamente, ce n’è una tonnellata. Una persona con cui vorrei moltissimo lavorare è Post Malone. Credo sia un cantautore fenomenale, amo la sua musica, spero ci sia presto l’occasione di fare qualcosa insieme.
L’ultima cosa che mi viene da chiederti è cosa ti aspetti dal concerto di Milano.
Mi aspetto di divertirmi un sacco. Di suonare e trovare davanti a me tanti sorrisi meravigliosi. Perché le persone italiane sono bellissime. È vero!