Thurston Moore, invecchiare facendo il dito medio al mainstream | Rolling Stone Italia
L’alternativo è il tuo papà

Thurston Moore, invecchiare facendo il dito medio al mainstream

L’album post-punk-hippie ‘Flow Critical Lucidity’, la biografia ‘Sonic Life’ pubblicata finalmente in italiano, la cancel culture, l’attivismo digitale, la fibrillazione atriale che gli impedisce di fare lunghi tour, la musica radicale nell’età della pensione. Intervista all’arbitro della figaggine alternativa

Thurston Moore, invecchiare facendo il dito medio al mainstream

Thurston Moore

Foto: Phil Sharp

Che scena pazzesca dev’essere stata. Negli anni ’70 Thurston Moore non è ancora uno dei Sonic Youth, ma un adolescente che usa un documento falso per infilarsi nei locali A vedere i suoi amati gruppi punk. Una sera va con gli amici in un club del Connecticut dove s’esibiscono i Twisted Sister. Qualcuno nella gran confusione lessicale di quei giorni li definisce punk e il giovane Moore è determinato a mettere in chiaro che non lo sono. Per farsi coraggio butta giù una vodka e 7 Up e mentre quelli suonano sale sul palco con addosso la sua bella maglietta della rivista Punk. Dee Snider s’accorge di lui, lo indica e comincia a cantagli in faccia. Thurston gli mostra il dito medio.

È passata una vita da quella sera, ma in un certo senso Thurston Moore non ha mai smesso di fare il medio al mainstream. Sorride quando gli ricordo l’aneddoto, che è contenuto nella biografia Sonic Life uscita l’anno scorso in inglese e da pochi giorni nella traduzione italiana di Baldini+Castoldi. «Non è che odio il mainstream, eh», dice in collegamento Zoom dall’Inghilterra dove sta facendo interviste per la pubblicazione il 20 settembre del nuovo album Flow Critical Lucidity. «Non mi piace il suo carattere imperialista. Ma non penso che la musica mainstream sia per definizione peggiore o migliore di quella che viene fatta ai margini dell’underground».

E difatti ai tempi dei Sonic Youth gli piaceva far incazzare la gente che si percepiva alternativa salendo sul palco che con indosso delle t-shirt di Madonna. «Non abbiamo mai pensato che i Throbbing Gristle fossero meglio di Prince o che i Black Flag fossero meglio di Madonna. Né ho mai pensato al mio status. Mi è sempre interessata la musica come scambio».

Aiutami a definire Flow Critical Lucidity. Per me ha un che di meditativo…
Di contemplativo, forse perché è stato scritto sul Lago di Ginevra, in Svizzera. Riflette le preoccupazioni per lo stato del pianeta. Non è stato concepito come disco a tema, diciamo che i temi della natura e dell’ambiente sono emersi in modo naturale. È un disco che parla di pensiero lucido. Del potere dei sogni. Della dignità della natura. Di cosa possiamo imparare da essa. E di coesistenza.

A me pare che parli anche del potere della musica. È per via di Sonic Life, che è un po’ biografia e un po’ racconto critico sul punk, il post punk e il rock alternativo?
Ho scritto il disco più o meno nel periodo in cui stavo finendo di scrivere il libro e quindi sì, stavo riflettendo sulla musica come vocazione, sull’impulso creativo e sul suo significato, sempre ammesso che ne abbia uno, sul perché si decide di seguire il sacro ideale della musica come comunicazione, come scambio inserito all’interno una comunità. Se ci pensi, il senso di responsabilità che provi nei confronti della natura è simile al senso di responsabilità che come musicista provo nel fare musica che ispiri qualcuno, o almeno me stesso. Mai provato il desiderio di avere successo. Neanche i Sonic Youth seguivano quell’impulso. Il fine ora come allora è l’esplorazione, che è poi l’essenza della musica e dell’arte. Lo so che la mia è musica più sfidante rispetto a quella di massa, non verrò mai scambiato per Taylor Swift. Ma attenzione, mi piace il fatto che ci sia una giovane come lei che fa musica onesta che dà gioia a tanta gente. È un fatto incredibile da vedere, da sperimentare…

Sei mai stato a un concerto di pop mainstream tipo quelli di Taylor Swift o chessò Rihanna, anche solo per vedere come sono, per curiosità?
No (ride).

Dai, nemmeno Madonna?
Lei l’ho vista, ma in un piccolo club di New York quando non aveva neanche un contratto discografico.

Allora non conta. Qual è l’esperienza più mainstream che hai fatto?
I festival in cui ci suonavano i Sonic Youth prima di Metallica, Lenny Kravitz o Black Crowes. Ma non ho mai avuto il desiderio o l’ambizione di diventare un musicista enorme, anche se a un certo punto ci siamo andati vicini. Mi piace l’idea di potere camminare per strada senza che nessuno mi fermi. Non cambierei ma la mia vita con la loro. Ok, non sarebbe male avere tanti soldi, ma me ne frego anche dei soldi (ride).

Thurston Moore con in testa l’elemetto ‘Samurai Warrior’ di Jamie Nares. Foto press

Mi pare che il carattere meditativo o contemplativo del disco si basi in parte sulla forza della ripetizione musicale, che se è ben calibrata riesce a portarti in uno stato tra il sogno e la realtà, in quella che chiami «sonic meditation». Perché che la ripetizione è così importante per te?
È uno degli aspetti più antichi del fare musica, pensa alle forme musicali primitive che vengono dall’Africa o alla musica classica indiana. La ripetizione evoca il battito cardiaco. È un riflesso della forza vitale. E a un certo punto ho capito che anche nel rock’n’roll l’uso della ripetizione può avere un impatto emotivo forte in chi ascolta, anche quando si tratta di musica prodotta dalle macchine, vedi il caso dei Kraftwerk. Ascoltare musica basata sulla ripetizione è come guardarsi nello specchio e vedersi raddoppiati. Sarà sempre un aspetto chiave del far musica. Ho cercato di investigare le tante possibilità della ripetizione in musica. È come quando qualcuno ti dice più volte «ti amo» e ogni volta che lo ripete il concetto diventa più forte.

New in Town è tra le altre cose un pezzo su come i musicisti hardcore anni ’80 si opponevano alle aspettative della vita adulta. Ora che hai 66 anni pensi che quel tipo di ribellione giovanile sia passeggera?
No, in un certo senso, non ho mai smesso di ribellarmi all’età adulta (ride). Anni fa ho scritto coi Sonic Youth un pezzo intitolato Radical Adults Lick Godhead Style e l’idea era proprio questa e cioè che c’erano voci radicali nella musica che stavano invecchiando, i Neil Young, le Yoko Ono, i Lou Reed, le Laurie Anderson, tutta gente che continuava a far musica radicale a 50 anni, a 60 anni e oltre, in un momento in cui la cultura musicale giovanile subiva un processo di normalizzazione e di omogenizzazione. Oggi, nell’era in cui abbiamo accesso immediato a tutto, mainstream e underground convivono e l’idea stessa di ribellione è diventata chic e la parola “rivoluzione” è uno slogan da adesivo da paraurti.

“Non seguirmi, mi sono perso anch’io”.
E invece l’attivismo dovrebbe avere a che fare con la realtà fisica. Con la strada. Col dibattito e il dialogo nei caffè, nei negozi di dischi, sulle panchine nei parchi, ovunque. Cosa vorresti per il futuro dei tuoi figli? Un governo mondiale controllato dalla destra o una società più libera in cui la gente ha la possibilità di scegliere il meglio per sé stessa? Sono dialoghi che devono avvenire in tempo reale, nel mondo reale.

Stai dicendo che non credi nell’attivismo digitale?
Sto dicendo che non penso sia l’unico modo di fare le cose. La ribellione è stata spersonalizzata da Internet. Siamo immersi nella nostra bolla dove siamo tutti d’accordo e parliamo a gente come noi. Uscire di casa e affrontare il mondo e gli altri è tutta un’altra cosa.

Lasciami tornare per un attimo sulla tua età. La tua musica è cambiata dai tempi dei Sonic Youth, non è più così radicale, non più così sfidante per chi l’ascolta, non è più sovversiva…
Non penso sia meno sovversiva. E del resto all’epoca non facevo musica sovversiva per il gusto di farlo. Non c’entravano niente neanche con gli standard del rock cosiddetto alternativo, tant’è che mi sono stupito del successo che abbiamo avuto. Non volevamo sovvertire niente. Volevamo esplorare.

Ok, ma ora lo fai in modo meno radicale. Certi dischi dei Sonic Youth ti sfidavano, erano un tale attacco sonoro da risultare per alcuni respingenti, mentre Flow Critical Lucidity ti invita ad entrare lentamente nel suo mondo, ti seduce.
Capisco quel che vuoi dire e credo che abbia a che fare col fatto che certi suoni, certi stili dopo un po’ non sono più una novità. Ho visto Glenn Branca all’inizio degli anni 2000 e non è stato sorprendente, eppure quella musica solo una decina d’anni prima era scioccante. Qualunque cosa io faccia, che si tratti delle accordature aperte o della sperimentazione coi suoni, è stata già sentita e digerita dal pubblico, non è più una novità. Ma penso che ci sia un piacere anche nell’ascoltare un vocabolario sonoro già noto, un linguaggio musicale collaudato, purché sia personale. Del resto, quando andavo a vedere Lou Reed non volevo sentire un concerto per sassofono – ok, lo avrei ascoltato scritto da lui – volevo sentire i pezzi di Lou Reed. Lo so che nulla di quel che posso fare sarà sorprendente come le cose facevo trent’anni fa, ma non ci posso fare niente, posso solo cercare di ripetere quella freschezza e tornare… like a virgin, come cantava Madonna (ride).

In Shadow canti di una scena musicale sacra. Scena è una parola chiave della musica con la quale sei cresciuto, le scene erano spazi dove le relazioni e la musica potevano nascere, svilupparsi, esplodere. Ma è sempre più difficile trovare scene di questo tipo, no?
Oggi siamo tutti connessi online e le scene, qualunque cosa siano diventate, sono interattive. L’idea di band che condividono un’origine geografica e alcuni tratti stilistici è ancora fondamentale, solo che non ha più a che fare con luoghi precisi. È tutto più… universale, che è poi l’idea che sta alla base di Internet, che nasce dall’ideale molto hippie di uno spazio libero in cui viviamo tutti assieme. Non c’è più una scena di Seattle o una di Liverpool. La scena adesso è globale.

È meglio o peggio?
Non lo so. Chiedilo a un quindicenne e probabilmente ti dirà che non gliene frega niente delle scene che c’erano quando avevi la sua età.

Foto: Bo Kerhofs

Spesso nelle interviste e nei testi delle canzoni, che sono scritti per lo più da tua moglie Eva Prinz, sento parole come illuminazione e trascendenza che fanno tanto hippie. Ma quella hippie non è la cultura blanda contro cui ti sei ribellato?
(Ride) Ma sai, i punk si sono opposti agli hippie per un paio d’anni, non di più. Ed è successo a Londra, coi Sex Pistols e i Clash. Nel libro racconto la storia di Siouxsie Sioux che s’arrabbia con noi perché stiamo parlando con un gruppo di fan dei Grateful Dead. Ma senti, uno dei gruppi chiave del punk sono stati i Crass che venivano fuori dalla cultura hippie che voleva che si uscisse dalle strutture socio-economiche della società capitalista, tipo: mangia quel che coltivi tu, prenditi cura del prossimo, coesisti con tutti. Hanno influenzato molta gente che non si sentiva a suo agio con le aspettative della società personificate dai genitori. Sono stati i Crass a far capire quali erano i punti di contatto tra la cultura hippie e quella punk. Del resto il punk era anche contro la disco, ma a un certo punto band come Gang of Four hanno fuso le due cose. E del resto la disco era una musica a suo modo radicale e inclusiva, mentre il punk ha avuto anche una deriva fascista.

In Sonic Life racconti di musicisti che oggi verrebbero crocefissi online per i comportamenti sessisti o violenti. La sensibilità è cambiata e i concerti pericolosi ed eccitanti di cui scrivi oggi sarebbero considerati pericolosi e basta. Che effetto ti fa?
Negli anni ’70 e nei primi anni ’80 l’espressività era teatralizzata. C’era questa idea romantica di vita degradata, sai, la gloria nell’essere poveri. E nell’arte e nella musica si era maggiormente affascinati da idee scatologiche. L’estetica doveva essere scioccante, ma non c’erano abusi. Voglio dire, James Chance non era minaccioso. Ti suonava il sax in faccia e scendeva dal palco e tutti scappavano, ma non costituiva una minaccia. Molti punk erano invece stati vittime a scuola di cazzoni sportivi e per strada di delinquenti. La perversione era un modo per esprimere la loro energia nichilista. E non scordiamo che c’era anche molto senso dell’umorismo. Era teatro. Ma hai ragione, oggi sarebbe tutto diverso, oggi andrebbero incontro a molta cancel culture, a molta political correctness. Ma è così.

E la cosa non ti preoccupa? Non ti spaventa l’impossibilità di distinguere l’artista dalla persona? Lou Reed può anche essere stato in certi periodi e in certe occasioni un grandissimo stronzo, ma la sua musica resta, non la voglio cancellare per gli errori dell’uomo.
Ma sai, la cancel culture è un fenomeno tutto sommato blando. Siamo tutti parte di questa nuova cultura della trasparenza. Tutti guardano tutti e tutti giudicano tutti. Se sei una celebrità che dice qualcosa d’offensivo, la gente ti salta addosso, ma diciamo la verità, è roba che finisce dopo pochi giorni. E comunque nessuno è innocente. Tutta questa storia è diventata un gioco immaturo in cui si punta l’indice contro gli altri. Ma allo stesso tempo grazie alla trasparenza oggi siamo in grado di vedere che cosa succede ad esempio quando la polizia compie un abuso per strada ed è una cosa per cui essere grati. Sono cose che succedono da una vita, ora il mondo le può vedere e questo sta cambiando il modo in cui ci rapportiamo l’uno con l’altro. L’altro lato della medaglia è che se qualcuno estrapola dal contesto una cosa che hai detto rischi di finire sul banco degli accusati. Mentre scrivevo il libro l’editore ha evidenziato alcuni passaggi dicendo che potevano essere fraintesi. Sai, quello che negli anni ’70 era considerato “edgy” oggi può sembrare imbarazzante o diffamatorio. Ma non ho niente contro questo fenomeno. La gente piagnucola per via della woke culture, io invece penso che la woke culture sia grandiosa. È meraviglioso essere woke, essere consapevoli delle ingiustizie che avvengono nella società… e chi se ne frega delle piccole incriminazioni nel mondo delle celebrità. Sì, sono decisamente pro-woke.

A ottobre hai comunicato che dovevi prenderti una pausa dai tour perché a causa di un’aritmia cardiaca non potevi prendere aerei. Continuerai a fare tour?
Ho dovuto fare i conti con la mia fibrillazione atriale e sottopormi a delle operazioni. Non è una cosa grave, è piuttosto comune, ma mi impedisce di salire e scendere di continuo dagli aeroplani o correre troppo o salire su un van e fare concerti ogni sera in una città diversa.

Quindi hai rallentato l’attività concertistica.
Ho dovuto farlo. E poi sono io che non voglio più andare troppo in tour. Lavorare a Sonic Life mi ha fatto apprezzare ancora di più l’attività dello scrittore. Ho pubblicato poesie e saggi culturali, ma ho sempre voluto scrivere un libro lungo e il memoir m’ha dato l’occasione di farlo. Ci ho messo due anni, uno solo per l’editing.

Per via degli aerei farai concerti solo nel Regno Unito o anche nell’Europa continentale?
Li farò ovunque. Penso che nel 2025 suonerò un po’ di più. Sto anche scrivendo nuove canzoni per il sequel di quest’album.

So che stai lavorando a un romanzo, di cosa si tratta?
Racconta di due ragazzi che vivono a New York nei primi anni ’80 (ridiamo entrambi per il riferimento autobiografico sotteso, nda). È una storia d’amore surreale e punk-rock.

Sarò bello leggerla. Intanto c’è Sonic Life che arriva in Italia.
Benissimo, io e mia moglie veniamo spesso in Italia perché abbiamo dei parenti a Campobasso. Questa è l’unica estate in cui non siamo venuti e mi spiace davvero perché per me è una seconda casa. Una volta in pensione voglio venire a vivere in Molise e scrivere libri sotto un albero d’ulivo.

Spero di vederti in concerto in Italia.
Verrò. Sai cosa dice l’Attila di Verdi, no? Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me.

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