Avrà anche 62 anni, ma nello spirito Thurston Moore sembra lo stesso ragazzino che era quando nemmeno aveva in mente di mettere in piedi i Sonic Youth. Basta scambiarci poche chiacchiere per intuire che la concezione della vita del musicista americano non è così cambiata da allora, filtrata com’è da uno sguardo ancora ben ancorato al mondo del punk-rock underground in cui è cresciuto negli anni ’70. Del resto, ce l’ha pure tatuato sul corpo: una “sonic life”, è questa la missione del cantante e chitarrista oggi di stanza a Londra, che il 25 settembre pubblicherà il nuovo lavoro solista By the Fire.
Lo avevamo lasciato alle lunghe cavalcate strumentali di Spirit Counsel, disco del 2019, e ora rieccolo con un album in cui torna al microfono e alla «gloria delle canzoni» – parole sue –, districandosi tra melodia, distorsioni, trame ipnotiche ed esplosioni noise, accompagnato dall’ormai consolidata all-star band con cui è al lavoro da qualche anno: Debbie Googe dei My Bloody Valentine (basso), Jon Leidecker dei Negativland (synth ed elettronica), James Sedwards (chitarra) e alla batteria l’ex Sonic Youth Steve Shelley alternato con Jem Doulton. Per chi si sente orfano della gioventù sonica che una volta riempiva riempiva cantine e garage trasformati in sale prove, una goduria che si apre con il singolo reso noto lo scorso giugno, Hashish, ispirato a Rimbaud. «Ma non parla di quel che pensate», precisa Thurston. «Dell’hashish amo l’odore, ma in realtà quando fumo non aspiro, se lo facessi andrei troppo fuori e non amo perdere il controllo. Sono parecchio straight edge, lo sono sempre stato».
Che rapporto hai avuto con le droghe?
Da ragazzo ho provato gli acidi, ma già allora non mi piaceva l’idea di buttare via soldi nell’acquisto di sostanze stupefacenti, preferivo spenderli in dischi, libri, strumenti, era quella la mia droga. Non ho mai voluto ficcarmi in situazioni che mi avrebbero portato lontano da ciò che volevo fare, ossia suonare. All’epoca circolava anche tanta eroina, ma sapevo che poteva distruggermi, per cui me ne sono tenuto lontano. Detto questo, Hashish parla più che altro di quanto sia importante trovare la felicità nelle piccole cose e nel prendersi cura del pianeta: siamo nel bel mezzo di un’emergenza climatica e non solo chi è al governo, ma anche noi tutti dobbiamo impegnarci per combatterla. In questo senso è una canzone sulla necessità di aprire la mente e se ti serve l’hashish… Trump mi sa che non lo usa, forse dovrebbe, potrebbe fargli cambiare prospettiva!
Oltre all’emergenza climatica adesso abbiamo anche l’emergenza sanitaria: come te la stai vivendo?
Sono fiducioso, voglio sperare che si torni ai concerti tra non molto, magari ci vorrà un anno, ma ce la faremo. Personalmente ho sfruttato il lockdown per scrivere. Non solo canzoni: ho buttato giù pagine di ricordi ripensando al periodo attorno alla metà degli anni ’70, quando ero ancora un adolescente e mi stavo avvicinando alla musica. Che cosa mi spingeva, che cosa mi entusiasmava, mi ispirava, m’intrigava, m’influenzava? Sono tornato con la memoria a quando, da diciannovenne, sono andato a vivere a New York e ho cominciato a suonare con un sacco di gente fino ad arrivare a fondare i Sonic Youth nel 1981.
E il tutto diventerà un’autobiografia, giusto?
Non esattamente, perché anche se dalla nascita dei Sonic Youth in avanti gli aneddoti sarebbero tantissimi, non ho molta voglia di raccontare quel periodo, è meno interessante per me. Ovviamente nel libro ci saranno dentro le mie esperienze, ma più che ripercorrere la mia storia vorrei analizzare cosa accade quando un giovane scopre una passione che definirà il resto della sua vita. Per me tutto è cominciato con mio padre, che era un pianista, teneva anche lezioni, aveva avuto una band: lui, attraverso i suoi dischi, mi ha fatto conoscere la classica. Ma in casa c’erano anche i vinili di mio fratello maggiore, Gene, al quale devo la scoperta del rock’n’roll. C’è chi da ragazzo prende in mano un pennello, chi si compra uno skateboard, io finii per buttarmi su chitarra elettrica e amplificatori.
Hai capito come mai?
Credo dipenda tutto dal tipo di ascolti che ti concedi. Io sono sempre stato affascinato da gente che sperimentava, gente che si prendeva dei rischi, gente genuinamente eccentrica che proponeva un tipo di musica che dava voce agli emarginati, agli outsider: Captain Beefheart, Iggy Pop, i Ramones, Patti Smith. Erano gli eroi della mia comunità punk-rock. Poi tra gli anni ’80 e i ’90 ho scoperto il free jazz…
Com’è andata?
Ricordo che a quei tempi ero circondato da giornalisti e musicisti che parlavano spesso della rilevanza del jazz; gente come Tom Verlaine dei Television o James Chance dei James Chance and the Contortions. Fu così che mi resi sempre più conto di quanto artisti quali John Coltrane, Billie Holiday e Sun Ra fossero influenti e nonostante non fossi abituato a quel tipo di musica – per le mie orecchie era molto astratto – mi sono incuriosito fino a trovarvi una fonte di energia incredibile. La vivo così ancora oggi e so per certo che quegli ascolti hanno influenzato il mio modo di suonare la chitarra e di comporre. Questo sebbene non abbia mai avuto l’attitudine da jazzista: posso partecipare a delle session di improvvisazione, ma suonare jazz è un’altra cosa, richiede tanto studio e una preparazione tecnica avanzata, mentre io ho sempre suonato la chitarra in maniera impulsiva. Per questo oggi posso dire che il mio hashish è il rock’n’roll.
E il fuoco di By the Fire cos’è?
Ho scelto quel titolo per sottolineare come le persone, indipendentemente da quel che accade nel mondo e dalle sfide che si ritrovano a dover affrontare, hanno sempre e comunque bisogno di comunicare. Basti pensare a quanto accaduto durante il lockdown, quando la gente si è attaccata al computer, a Internet, perché la cosa essenziale era continuare ad avere rapporti con gli altri, interagire. In quella fase i social sono diventati uno strumento per ricreare ciò che succede quando un gruppo di individui si riunisce attorno a un falò per parlare. Qualcosa che per me implica sempre il rispetto reciproco.
Non che ce ne sia molto sui social, non credi?
So bene che il modo in cui sono gestite quelle piattaforme lascia spazio all’odio, ma non c’è solo quello. Io i social li uso per condividere la mia musica e le mie idee. Dopodiché in quel By the Fire c’è anche un riferimento alle strade in fiamme, all’esplosione delle proteste cui abbiamo assistito negli ultimi anni, proteste contro le discriminazioni perpetrate dal potere della repressione e che appoggio.
Qual è il tema che ti sta più a cuore, da questo punto di vista?
Politicamente sono più radicale di un liberale di sinistra. Non sopporto i nazionalismi, amo la diversità culturale e amo viaggiare, venire in Italia, andare in Francia, in Germania, in Giappone, fosse per me abbatterei tutti i confini. Credo nel valore del multiculturalismo e quindi anche delle migrazioni, per me fanno semplicemente parte della natura delle cose. C’è sempre stata gente che ha lasciato la terra d’origine per emigrare altrove con i mezzi più disparati, non è certo una novità. Oggi si scappa dai Paesi in guerra, ma se non spostiamo il denaro utilizzato per le spese militari su altri obiettivi… Non credo che assisterò a nulla del genere nel corso della mia vita, ma sono per la pace, è questo il grande ideale che dovremmo perseguire tutti.
Per ora potresti accontentarti della sconfitta di Trump alle presidenziali di novembre: voterai?
Certo che voterò, e voterò Biden. In questa fase chiunque guidi un’opposizione contro Trump va bene, la situazione negli Stati Uniti è troppo disastrosa e deprimente per permettersi di non andare alle urne.
Prima hai detto che ami venire in Italia, Italia che in By the Fire compare direttamente o indirettamente più volte. Innanzitutto nella traccia Siren, dove citi Vasto, la località del Siren Festival, dove hai suonato nel 2016.
Ci ho anche festeggiato il mio compleanno! Ho amato Vasto, è veramente bella. Ma amo il vostro Paese in generale. So che dite che il Molise non esiste, ma io proprio in Molise ho parenti, la famiglia di mia cognata sta vicino a Campobasso, per cui ho trascorso parecchio tempo in montagna da quelle parti e mi piace molto come territorio: se un giorno dovessi decidere di andare a vivere altrove mi piacerebbe trasferirmi là, aprire un negozio di libri di seconda mano e sciallarmela con due gatti che mi girano attorno. Sarebbe bello, magari non lontano dal mare… Ah, ecco, quella traccia, Siren, è nata proprio durante una nuotata a Vasto durante la quale ho pensato «tenetevi pure il mondo, ma lasciatemi l’Italia». Il vostro è davvero uno dei Paesi in cui mi sento meglio.
Citi anche Dante in Dreamers Work.
Quel passaggio è dell’autrice Radio Radieux, che ha scritto con me parte dei testi.
È la tua compagna Eva Prinz, si può dire, no?
Sì, dai, posso dirlo (ride, nda). Dreamers Work è venuta fuori dopo un soggiorno di due settimane sempre in Italia, durante il quale io ed Eva abbiamo girato per chiese a caccia di dipinti da ammirare. Il testo, in particolare, è affiorato dopo che abbiamo visto un’opera di Tintoretto dal vivo. È un omaggio ai grandi pittori e artisti del Rinascimento e non solo – dentro c’è anche Baudelaire –, che con la loro arte hanno espresso la verità, che sono stati capaci di essere autentici sognatori e di portare l’idea del divino nella vita delle persone.
Pensi che oggi l’arte – o se preferisci la musica – abbia perso quel potere?
Non lo penso, ma parlando di musica è innegabile che l’avvento delle piattaforme di streaming abbia trasformato completamente la modalità di fruizione. Il risultato è che oggi non c’è più il mistero che c’era una volta, quando non si sapeva granché di quel che accadeva fuori dal proprio Paese, lontano dal proprio orizzonte, e questo rendeva ogni pubblicazione qualcosa di nuovo e di speciale che ti portavi dentro per anni. Adesso chiunque può ascoltare cantanti e musicisti di ogni parte del pianeta, è cambiato tutto e in fondo è stata una svolta: ora la musica è realmente per tutti, è parte della cultura. Certo, molta è standardizzata, ma esistono ancora tantissimi artisti che continuano a esplorare nuovi sound, così come ce ne sono ancora tanti che portano avanti un discorso d’impegno sociale. E questo anche nel pop da classifica, vedi Beyoncé.
E l’alternative rock com’è messo?
Anche lì le giovani band interessanti, con un approccio sperimentale e che hanno cose da dire, non mancano, ma mi sembra che i giovani artisti hip hop riescano maggiormente a innovare la scena partendo dall’underground, mentre nel rock… Insomma, se l’hip hop mainstream si è rinnovato, nel rock mainstream abbiamo ancora Pearl Jam, Foo Fighters, Queens of The Stone Age, ottime band e pure genuine, ma che non portano novità. Poi, sai, lì dipende anche molto dalle agenzie, dai manager, dalle radio, e a dirla tutta non sono uno che pensa che bisogna per forza avere l’obiettivo di diventare famosi quando si fa musica.
Dicono tutti così, ma sotto sotto…
No, veramente, chi se ne frega? Se hai bisogno di quel tipo di popolarità, di un successo enorme che ti faccia anche guadagnare un sacco di soldi, va bene, buona fortuna, ma chi dice che quel bisogno ce l’abbiano tutti? Si può anche fare musica per la propria comunità e per il piacere di farlo e vedere come va, se poi vendi tanti dischi e hai la folla ai concerti tanto meglio, altrimenti va bene anche solo mettersi in tasca il giusto per vivere. Del resto, io arrivo dalla scena punk-rock underground degli anni ’70, un ambiente dove l’aspirazione alla ricchezza era quasi imbarazzante e soprattutto era vista come qualcosa di banale. Essere ricchi non era cool, adesso lo è, ma non per me: non sono cambiato.
Con i Sonic Youth ti è andata bene, comunque.
Sì, mi considero fortunato, negli anni ’90 abbiamo avuto grande visibilità e questo ci ha permesso di lasciare un’eredità e un catalogo che ancora oggi mi permettono di stare bene. Ne vado fiero, anche perché vedo tuttora giovani che si avvicinano alla nostra musica, e non è poco.