Un anno fa, di questi tempi, andavo a Los Angeles – con indosso una camicia hawaiana: ero a Los Angeles – a chiacchierare con Tiziano Ferro. C’era un disco, Accetto miracoli, in uscita (e una cover di Rolling Stone), cui sarebbero seguiti prima FERRO, il documentario prodotto da Amazon e Banijay Italia previsto per lo scorso giugno, quindi un tour. E poi sappiamo com’è andata. Il tour è saltato, il documentario esce ora, il 6 novembre, e lo stesso giorno s’aggiunge un disco non previsto di cover, L’esperienza degli altri, anticipato dai singoli Rimmel e E ti vengo a cercare. Senza camicia con le palme, ma con un maglione grigio-novembrino, torno a Los Angeles, stavolta via Zoom.
Quest’anno è andato tutto come non doveva andare. Umore?
C’è stato un senso di grande impotenza, di tristezza. Ma, soprattutto, di responsabilità: non mi sono mai sentito di potermi lamentare. Artisticamente, ho provato a farlo diventare un momento creativo. Quando ho sentito che la claustrofobia mi stava invadendo, ho chiesto a Marco (Sonzini, audio engineer e producer, nda), con cui ormai registro quasi tutto: sei disposto a farti con me il test ogni tre giorni e venire in studio a provare qualcosa? Io ho sempre voluto fare le cover – in realtà tutti i cantanti vogliono, poi però rinunciano perché le fanno in troppi. Ho iniziato per gioco, ho provinato di tutto, pure i Ricchi e Poveri. Alla fine, mi sono trovato con un pugno di canzoni che mi piacevano, perché erano nate dal divertimento, dall’esigenza di fare qualcosa di creativo. Non c’era l’idea di un disco. Il progetto era il tour, e prima il documentario, e poi una seconda parte dell’album con il live, al massimo un nuovo singolo. Invece si sono uniti un po’ di puntini. C’erano state le cover di Sanremo, molti mi chiedevano: perché non le registri? Poi è arrivato I Love My Radio. Mi chiamò Linus per chiedermi se volevo partecipare. Io, preso dall’entusiasmo, registrai e produssi Bella d’estate e gliela mandai. Lui disse: bellissima, ma stiamo per mandare una lista di canzoni, dovresti scegliere da lì.
Tiziano Ferro manda una cover fatta e finita, e dicono di no?
Questa cosa l’hai detta tu… (ride). Ma non perché sono Tiziano Ferro. Mi sembrava assurdo che un artista come Mango, che ha fatto la storia di tante estati italiane, non ci fosse. Ma non è stato ostracismo, è che – mi hanno spiegato – se avessero trasgredito con uno, avrebbero dovuto fare un favore a tutti. Nessun problema.
Parentesi: sbaglio o poi alla radio una cover di Bella d’estate di Mika l’ho sentita?
Anche questa cosa l’hai detta tu. Boh, m’ha lasciato un po’ interdetto. Siamo nella stessa casa discografica, io avevo già annunciato la mia versione. Non so com’è andata. Comunque, neanche morto l’avrei tolta dal disco, è una canzone che è parte del mio sangue, ne parlavo da mesi con Laura Valente (la moglie di Mango, nda), quando l’ha sentita si è messa a piangere. Fa solo un po’ ridere che, dopo anni di oblio, nel giro di due mesi esca la cover della stessa canzone. Ma vabbè, non credo cambierà la vita a nessuno.
Torniamo alla radio.
C’è Perdere l’amore, mi dico. Ho la scusa per chiedere un ultimo favore a Massimo Ranieri e, dopo Sanremo, chiudere il sogno di registrarla. A quel punto, avevo Perdere l’amore e Bella d’estate, mi stavo divertendo, ho continuato. Ho chiamato Fabrizio (Giannini, il suo manager, nda) e gli ho detto: questa cosa è bella. E lui: sì, ma è un disco a parte, non possiamo farlo uscire adesso. E io: ma “non possiamo” non esiste più, i piani son tutti sballati, freghiamocene. E quindi li ho convinti su una cosa che non era neanche in contratto, non puoi fare un disco di cover e pensare che valga come uno di inediti. Tornando all’inizio, durante il lockdown mi sono imposto di diventare creativo, ed è nato questo disco che forse non avrei mai fatto. Anche se la lista delle cover esiste da dieci anni, vado rimpinguandola di continuo.
Come si decide cosa tenere e cosa togliere?
L’elemento darwiniano numero 1 è: le provi e non ti vengono, cioè proprio non le hai. Per esempio, io volevo fare Mango già a Sanremo. Provai Lei verrà: un disastro, non era mia, non c’era. Poi, per il disco, ho provato una versione quasi jazz-swing di Je so’ pazzo di Pino Daniele. E ho pensato: non so, forse non canto bene il napoletano. Ho lasciato stare. Quando ho postato la prova sui social, mi ha scritto la figlia di Pino, e la moglie, e un sacco di fan napoletani: cavolo, ma sei nato a Napoli! E lì mi son pentito, ho capito che la mia insicurezza mi aveva frenato, che avrei dovuto metterla.
Ci sono classiconi come Margherita e Ancora ancora ancora, e poi però anche Piove, che m’ha fatto venire in mente cose tue, Hai delle isole negli occhi, quel mondo lì…
Lorenzo mi ha scritto una cosa molto bella: l’hai fatta diventare un mantra soul. Ma è lui ad aver fatto una melodia così ipnotica. A Natale ’93 mi regalarono il mio primo lettore cd, Lorenzo ’94 è il primo cd che ci ho ascoltato sopra. Quel disco potrei registrartelo in studio oggi, a memoria. Non è che è il mio stile: è che il mio stile si è creato attorno a quello. Sono diventato quello che sono anche per colpa sua.
Cigarette and Coffee di Scialpi, e non avrei mai creduto di dirlo, è una sorpresa. Ecco: forse avrei voluto più tracce così, pezzi sconosciuti che diventano tuoi.
Hai ragione, e mi dispiace da morire. Scialpi è una delle due-tre canzoni aggiunte alla fine. È un pezzo meraviglioso, che non si conosce abbastanza. L’originale è tipo solo tastiera e voce, non ha neanche la ritmica, una roba malinconica, lenta, io a cinque anni lo ascoltavo sul 45 giri, immaginati un bambino che tenta di capire cos’è l’isola dell’oceano della solitudine… già mi facevo queste domande (sospira). L’ho ripensata come una moderna Bohemian Rhapsody, è melodicamente complessa, del resto Migliacci è uno dei più grandi autori italiani, quello di Nel blu dipinto di blu. È figlia di quegli anni ’80 chiusi in quella scatola di ricordi con le spalline grosse e i glitter, ci si dimentica che c’erano pezzoni allucinanti.
Da degregoriano, quando ho letto che avresti rifatto Rimmel ho tremato. Mi son dovuto ricredere.
Aspetta, ti leggo il suo messaggio, così sai che non dico bugie: «Bella, bellissima, arrangiamento strepitoso, me l’hai fatta riscoprire ancora una volta, grazie amico mio». Firmato: F puntata. De Gregori ti manda questo e basta, puoi solo essere felice. Ho cercato di celebrare gli artisti che sono presenti nella maniera in cui volevo. De Gregori, appunto. E Battiato, che gli vuoi dire. Cocciante è stato il mio primo concerto, Giuni Russo (Moriro d’amore, nda) è come Mango, andrebbe celebrata ogni giorno, e invece. E Califano (Non escludo il ritorno, nda) è stato un vero rapper, quello che viene dal Bronx e parla del Bronx, ma in Italia, a Roma. Tra gli assenti, manca un pezzo di Dalla, ma il testo di Bella d’estate è suo, l’abbiamo coperto. Il grande assente è sicuramente Battisti.
Proprio ora, e forse non è un caso, che i giovani cantautori e produttori lo citano fin troppo.
Non però nella bellezza delle canzoni, ahimè (ride). Forse è andata come con Pino Daniele, non ero sicuro, e poi esistono mille versioni di ogni sua canzone, quindi alla fine non è accaduto, la prossima volta.
Stacco: il documentario. Che è un vero documentario. Non c’è solo gente seduta che parla guardando in macchina. C’è una storia, una regia.
C’è un pensiero dietro, sì, ed è stata l’unica richiesta che ho fatto quando Amazon Prime mi ha chiesto di fare qualcosa. Io ho detto sì, però boh, vedo troppo imbellimento nei prodotti catalogati come documentari. Perciò mi sono chiesto: sono pronto a rinunciare all’estetica del videoclip per raccontare veramente una storia oppure vogliamo fare una cosa messa in scena? Sono tornato da loro: ok, ci sto, però voglio che voi abbiate il coraggio di fare un documentario in cui praticamente non c’è la musica, cioè non ci sono io che canto. E loro: … oook. Era da un po’ che stavo raccogliendo il materiale per un libro, in realtà per diversi libri, poi non li farò mai ma vabbè, stanno lì. C’è un romanzo, un libro quasi tragicomico, e l’idea per un film, una serie di cose. L’idea di questo libro, ho detto a quelli di Amazon, potrebbe essere declinata nel linguaggio della piattaforma. Ma senza edulcorare nulla, anzi con una troupe che mi segua senza filtri. Ho accettato di non apparire bello, magro, vestito bene, pettinato bene: poi, chiaro, i giorni in cui sapevo che c’erano le riprese un po’ mi sistemavo (ride). Però, se lasci il campo libero a un regista, alla fine ti dimentichi che è lì, e ci sarà sempre un momento in cui cattura delle cose che non vuoi. Abbiamo rinunciato a tanto materiale più bello da vedere, ma sono contento così. Questo film non doveva essere la celebrazione di un nome e di una carriera. Abbiamo visto troppi documentari egotistici, finto veri, di artisti internazionali che non cito.
FERRO segue cronologicamente un periodo – da settembre 2019 a febbraio 2020 – che è anche il nostro prima della pandemia.
L’ultimo giorno di riprese, cioè il giorno del mio quarantesimo compleanno, è stato quello del primo caso di Covid a Lodi. Il documentario si chiude paradossalmente proprio sull’ultimo giorno del mondo vecchio. È una cosa strana.
Si apre, invece, con un meeting degli Alcolisti Anonimi. Era da lì che volevi partire fin dall’inizio?
Quella è di sicuro la storia che volevo raccontare in un libro. Ma per me era importante parlare di soluzione, non di problema. Del problema si parla sempre, che si chiami droga, alcol, violenza, bullismo. Io volevo parlare della consapevolezza che, di fronte a un problema, ci può essere c’è una soluzione. Volevo celebrare la soluzione. E, già mentre scrivevo il libro, mi chiedevo come si fa a farlo senza cadere nella morbosità di certi dettagli.
Non citerò neanch’io i protagonisti di certi documentari recenti. Ma oltre all’imbellimento della forma, come dici tu, c’è il vittimismo come principale motore narrativo.
Non serve a niente, era quello che volevo evitare. Quelli di Amazon hanno scoperto – e questa è la parte divertente – che avrei aggiunto la cosa dell’alcolismo solo quando avevamo già firmato il contratto. Era già dichiaratamente un documentario non musicale, sapevano che avrei sviluppato tutta una serie di altri temi: la spiritualità, il rapporto con la famiglia, l’unione con Victor (Allen, suo marito dal 2019, nda), i miei quarant’anni, la vita all’estero, anzi la duplicità della mia vita, che loro volevano stressare ancora di più: a Los Angeles faccio la spesa in bermuda e – ed era il pezzo che mancava – vado a fare servizio agli Alcolisti Anonimi, lavoro per loro come segretario, partecipo ai meeting; poi atterro a Milano, mi metto gli occhiali da Clark Kent e rimango in una scatola, fai questo, fai quello, la promozione, i selfie, i video, e non uscire, e vedi gli amici a casa… Io non volevo che loro firmassero il contratto del documentario sulla base dell’alcolismo, ma che fossero convinti a prescindere. Quando ho appurato che era così, ho tirato la bomba. Era la prima riunione di brainstorming, per un attimo ho visto le loro facce come congelate…
Non temevi che l’alcolismo diventasse la cosa più notiziabile di questo film?
Sì. Ma se c’è una cosa che ho imparato in vent’anni di carriera, è che più ti liberi dei pesi e meglio è, per te e per gli altri. Intendo liberarsi di questa ossessione del controllo, di quello che le persone possono o non possono sapere: l’idea di vivere nel mondo con una sola versione di te stesso è il privilegio più bello. Lo dico sempre anche a proposito del coming out: non l’ho fatto per gli altri, l’ho fatto per me. Poi, se questa cosa può aiutare qualcuno, tanto meglio. Sull’alcolismo, da una parte dovevo trovare il modo e il tempo di dire le cose, di raccogliere la forza e la lucidità: e quel momento era arrivato. Dall’altra, non potevo rischiare che la cosa uscisse fuori da sé e passasse per una notiziola di gossip, che diventasse davvero il problema. E stava per accadere. Anche a Milano frequento i meeting, e una volta il paparazzo fuori me lo son trovato. Quelle foto non sono mai uscite, ma, se fosse successo, non avrebbero aiutato nessuno, sarebbero rimaste un pettegolezzo. Allora, perché ciò diventasse uno strumento reale e non un trafiletto di merda, è nata quell’idea. Io non ho problemi a parlarne, ma una delle caratteristiche più importanti dei gruppi di recupero è l’anonimato. Che non vuol dire solo non so chi sei o come ti chiami: esiste perché non passi l’idea che stai facendo marketing, che vuoi vendere qualcosa. A questi gruppi uno ci arriva per disperazione e bisogno. Io non dico dove andare: ci sono tanti modi per farlo, io ho trovato il mio.
Il tuo percorso, se posso, è chiuso?
L’alcolismo, come la depressione cronica, ha una matrice genetica. Non è un caso che nella famiglia di un alcolista o di un drogato ci sia una catena, un passato di nonni, di zii… È nel campo del comportamentale, perciò sarai sempre portato alla dipendenza, la tendenza della tua personalità è cercare quel tipo di compensazione. Non si smette mai di essere alcolisti. Una volta passata la dipendenza, che è la parte più facile, continui a lavorare su te stesso per scoprire quali sono gli elementi che ti portano in quella zona della testa. È un lavoro che non finisce mai, ma mica è brutto: è bellissimo. È un percorso fatto di meditazione, di lavoro con gli altri, di aiuto agli altri. Devi uscire dalla tua testa, dalla relazione d’amore spasmodica con te stesso. Si può essere sobri a livello di utilizzo di una sostanza, ma è la sobrietà mentale e spirituale che devi coltivare.
Torniamo al coming out. Dopo dieci anni, sei ancora uno dei pochissimi ad averlo fatto, in questo Paese. Parlavi di aiuto – anche indiretto – agli altri, ma è il 2020 e ancora fa notizia Gabriel Garko.
Ascoltami: io la penso come te. Però ho sviluppato un atteggiamento di grande empatia e carità nei confronti di questo tema. Penso che oggi ogni coming out sia utile. Perché in un mondo dove in parlamento qualcuno si chiede ad alta voce se gli omosessuali abbiano davvero bisogno di una legge contro l’odio; dove la possibilità di avere figli surrogati è considerata un crimine universale; in un mondo così arretrato, mi sta bene tutto. Poi c’è da dire un’altra cosa. Io ho quarant’anni, e per me è stato un incubo. Sono cresciuto in una città (Latina, nda) di estrema destra, intollerante, dove il bullismo, le offese, la possibilità di accettarsi erano zero. E, nonostante questo, sono diventato famoso: un mix esplosivo. Cadere in una dipendenza era il minimo che potesse capitarmi. Poi per sufficiente disperazione, o non so cosa, ho trovato la capacità di guardarmi, di sciogliere dei nodi, di dire: io sono questo. C’ho messo dieci anni. Se penso alle generazioni più vecchie, con bagagli ancora più pesanti, tristi, separatisti, omofobi, discriminatori del tipo “se sei gay non lavori”, ecco: io non dico che le giustifico, ma le capisco. Perché hanno ancora tanta paura, tanto stress post traumatico. È gente che ha preso botte, che è stata cacciata di casa, che non lo dice ai genitori perché ora i padri e le madri hanno ottanta, novant’anni e non gli parlerebbero più. I fatti della vita hanno schiacciato l’inconscio di certe persone, che arrivano a sessanta, settant’anni e non ce la fanno, pensano ormai è così, chi me lo fa fare, combattetevi la vostra vita. Non vorrei che fosse così, ma lo capisco. Detto ciò, non capisco invece quelli di trent’anni, di venti, perché il mondo adesso è diverso, o può esserlo. Loro proprio non li giustifico. Bom.
Altri libri, l’idea per un film: nel futuro c’è un Tiziano che non canta e basta?
No, la traduzione di quel progetto è stata questo documentario. È stato faticosissimo farlo, ma lo dico con gioia. La gente che ci ha lavorato potrebbe rovinarmi la carriera (ride). Mi hanno ripreso mentre pulivo ettolitri di cacca di quella poverina di Piper, che poi è venuta a mancare: aveva questo cancro e allagava la casa di diarrea. Anche a Sanremo ho detto: fate quello che volete. Mi piace il fatto che la parte su Sanremo sia un pezzo sulla crisi. Beppe (Tufarulo, il regista, nda) mi ha detto: ti ho fatto una bastardata, ti ho ripreso dalla porta mentre tornavi dall’esibizione di Mia Martini. Gli ho detto: non mi piace, non mi piaccio, però usiamolo.
Nel film racconti di quando, ventenne, durante la promozione ti cambiavano i vestiti appena atterravi all’aeroporto, per farti sembrare quello che non eri. Ora invece mostri tutto.
Sì, ma è anche una cosa anagrafica. A vent’anni un po’ c’è il rispetto degli adulti, dei ruoli, questi erano grandi presidenti di grandi major. Un po’ ti fidi, un po’ hai paura, un po’ dici: mi sta accadendo tutto questo, non il ho diritto di dire la mia. Io non avevo mai visto un aeroporto e di colpo conoscevo quelli di tutta Europa. Oggi lo vedo come un abuso, però allora non lo capivo, succedeva e basta. A vent’anni già non sai chi cazzo sei, ancora meno se tenti di capirlo mentre tutti stanno lì con la telecamera puntata a chiederti: chi sei? Chi sei? Dimmelo! Dimmelo!
Un’ultima cosa. La più rilevante del documentario, per quanto mi riguarda: la tua amicizia con Brigitte Nielsen.
(Ride) L’ho conosciuta in palestra, mi giro e vedo questa colonna umana biondo platino di spalle, si gira anche lei, ci guardiamo… Da lì è nato l’amore, lei aveva appena avuto la bimba. È una persona accogliente, generosa, simpatica. Ho conosciuto sua mamma, che in quel periodo arrivava dalla Danimarca, suo marito è sardo e ha la mia età, invece Brigitte ha l’età di Victor, si sono subito trovati. È una di quelle cose che succedono solo a Los Angeles. Come quando ho scoperto che su Instagram mi seguiva la moglie di Robert Zemeckis, Leslie. Iniziamo a chiacchierare, lei mi dice che hanno una casa in Toscana e la sua assistente ha già comprato i biglietti per il mio concerto a Firenze, tutto ciò ovviamente pre Covid. E io pensavo: aspetta, Zemeckis verrà a un mio concerto? Poi ci siamo visti a cena, e mi son trovato a parlare con lui di film, di messa a fuoco, ero un po’ in imbarazzo anche solo a dirgli: ho visto The Walk in 3D. E lui: pensa che non l’ho ancora visto nemmeno io.
Zemeckis non ha visto The Walk in 3D, seh, vabbè…
Ma sai com’è, a volte pure a me dicono: che bello il vinile colorato. E io so che esiste, ma mica ce l’ho. Francesco Escalar – uno dei miei fotografi preferiti, purtroppo non c’è più – mi diceva sempre: faccio le foto a tutti, e non ho foto mie con i miei figli.