All’inizio del 2010, Tom Petty guardava al futuro con ottimismo. Nell’home studio della sua proprietà affacciata sulla spiaggia di Malibu, svapava circondato da chitarre. Era la prima sigaretta elettronica che vedevo in vita mia («Le lobby del tabacco non le vogliono sul mercato»). Intanto, mi faceva ascoltare il nuovo album con gli Heartbreakers Mojo che doveva ancora pubblicare, una bella botta dopo il deludente The Last DJ.
Petty è morto sette anni dopo. Con la recente ristampa con due inediti di Mojo, ecco per la prima volta la nostra intervista completa condotta quel giorno del 2010.
Perché hai voluto pubblicare un album più duro e psichedelico di qualsiasi cosa tu abbia fatto in passato?
La band ha un lato che nessuno, a parte me, conosceva. Ho voluto tirarlo fuori. Sai, ascoltavo i primi dischi del Jeff Beck Group, John Mayall, Peter Green, Muddy Waters, roba del genere, e mi è venuto da fare un album di quel genere. Anche un po’ di J.J. Cale. Una sera sono andato a jammare con gli Allman Brothers e qualche giorno dopo io e Mike [Campbell] abbiamo suonato con J.J. Cale per un’ora, al McCabe’s. Ci siamo divertiti, ho pensato che fare qualcosa di simile mi avrebbe reso felice, così ho detto: «Suoniamo per noi stessi, facciamo quel che ci va». Abbiamo stabilito alcune regole per registrare quanto più possibile dal vivo, cercando di ottenere una buona performance in ogni traccia.
Una cosa è far suonare la band in quel modo, un’altra è scrivere i pezzi giusti da suonare in questo modo. Come ci sei arrivato?
Ho scritto e basta. Sapevo che avrei dovuto tirare fuori canzoni solide, che dovevano suonare bene solo con voce e chitarra. Nel disco precedente degli Heartbreakers portavo dei demo con le singole parti già arrangiate. Con la conseguenza che gli altri non erano granché ispirati, non erano entusiasti di suonare parti già scritte. Questa volta abbiamo costruito i pezzi assieme. A volte trovavano al volo la cosa giusta, altre era necessario fare più tentativi. Ma gli arrangiamenti sono degli Heartbreakers.
Questi pezzi spaccheranno dal vivo.
Sì, l’idea è suonarne un bel po’. E credo che nessuno se ne lamenterà.
Se non dovessi preoccuparti di compiacere il pubblico, faresti meno hit sul palco?
Probabilmente non ne suonerei nemmeno una. E invece mi sento un po’ in obbligo, perché le persone ne passano di cose per esserci a questi grandi concerti e hanno delle aspettative su quello che vorrebbero sentire. E però abbiamo tante altre canzoni che potremmo suonare e che non sfigurerebbero. Lo scorso fine settimana ci siamo esibiti in un localino e abbiamo suonato per lo più pezzi minori, poco noti. Non mi sorprenderebbe se diventasse più la regola che l’eccezione.
Sei arrivato a questo disco dopo aver rimesso assieme i Mudcrutch. È stato come fare reset, no?
Hai detto bene, è stato un reset. Finito l’album dei Mudcrutch, ho pensato che era uno dei miei dischi preferiti fra tutti quelli che ho fatto. E l’abbiamo prodotto nel giro di un paio di settimane. Volevo tornare a fare le cose in presa diretta in studio, pezzi che puoi rifare sul palco esattamente come sono. Ma un disco del genere non lo puoi fare senza persone che sanno comunicare tra loro senza parlare troppo. Non abbiamo dovuto dirci granché, se non «qui piazziamo una strofa» o «ripetiamo il ritornello». Ci si muove d’istinto. L’altro mio pensiero è stato: voglio far emergere Mike. Non esiste un chitarrista migliore di lui. Voglio che si metta davanti e che lo faccia diventare un disco chitarristico. Non volevo nemmeno che ci fossero dei cantati armonizzati nell’album. Non c’è nessuna armonia vocale.
Immagino che ci sia stato un tempo in cui scrivevi e registravi tenendo conto delle esigenze delle radio, dei singoli, di cose del genere. Hai smesso di preoccupartene?
Sì ed è stato liberatorio. Non cerco di fare dei singoli o del pop. Curiosamente, così facendo finisci per pubblicare cose che suonerebbero benissimo alla radio. Comunque, non è una cosa di cui mi preoccupo. Questo è l’altro elemento importante che riguarda i Mudcrutch: ero così soddisfatto del risultato che non mi importava se sarebbe stato un successo o meno. Volevo solo che fosse un bel disco. Perché, come ho detto, non ne facevamo uno da tanti anni e non volevo passasse inosservato.
In First Flash of Freedom la voce è strana.
Volevo dare l’impressione che ci fossero più cantanti. Piuttosto che optare per un’atmosfera bluesy, ci siamo orientati su qualcosa di più melodico e dal respiro più ampio. Nell’arco di un album è bene cambiare voce di tanto in tanto.
U.S. 41 è molto suggestiva. Come nasce?
L’avevo scritta più o meno sei o sette anni fa. È stato Bugs, il nostro fedele roadie, a farmi riascoltare il demo: «Era un gran bel pezzo», ha detto. Credo sia stato subito dopo The Last DJ. Il brano era lì, in forma grezza. È venuta fuori una cosa divertente.
Sono letteralmente decenni che dici che vorresti pubblicare un album più pesante. Finalmente ci siamo.
Sì, ogni cosa doveva andare al suo posto. Non avremmo potuto farlo negli anni ’70, non ne saremmo stati capaci. Ma siamo cresciuti. A un certo punto credo di avere anche detto: «Se qualcuno avesse fatto questo disco nel ’73, avrebbe dominato il mondo» (ride).
È un momento difficile e alcune di queste canzoni sembrano avere un effetto rassicurante. Le hai scritte pensando ai tempi in cui viviamo?
Se scrivi, è una cosa che non può non venire fuori in qualche misura. L’ho pensato come disco blues per la working class. E ho scritto anche qualche canzone d’amore, cosa che non facevo da anni. Sono in un momento positivo della mia vita, me la sto proprio godendo. Forse ha qualcosa a che fare con questo.
Cos’è cambiato?
Forse sono solo cresciuto (ride). Sai, con il passare del tempo, un po’ alla volta, riesci a tenerti lontamo dalle cose che ti rendono la vita difficile. E credo che un anno di pausa abbia fatto la differenza, perché ho sempre corso a tavoletta.
Sembra che tu sia sulla strada giusta per seguire le orme di Dylan e rimanere sulla cresta dell’onda per decenni.
È quello che ho intenzione di fare (ride). Non me ne andrò da nessuna parte. Continuerò. Bob è una grande fonte d’ispirazione, non ha lasciato che l’età ostacolasse la sua creatività. Per certi versi, mi sembra persino di essere un po’ più bravo di un tempo.
Da Rolling Stone US.