Se negli ultimi anni in Italia il genere musicale più dirompente, che ha cambiato nel profondo l’industria, le classifiche e l’immaginario collettivo, è stato la trap, sicuramente lo si deve anche a Tony Effe. Con la Dark Polo Gang, il rapper romano classe 1991 è stato uno dei primi a portare il genere da queste parti, e a farlo con un successo imprevedibile: dall’underground e dall’indipendenza alla cima delle classifiche.
Se tanti dei rapper usciti da quella ondata del 2016 erano considerati trap più per comodità e per l’appartenenza a uno stesso giro, la Dark Polo Gang (e in particolare quella della mitica Trilogy composta da Crack Musica, Succo di zenzero e The Dark Album che ha rivoluzionato gli ascolti di tanti ragazzi), era effettivamente una versione credibile della trap d’oltreoceano anche per il nostro Paese. Amato e odiato, detestato dai puristi, il gruppo è diventato un fenomeno sulla bocca di tutti anche grazie alla sua immagine, alle vite dei quattro (prima, e tre poi) perennemente condivise via social, a un linguaggio e a uno stile indubbiamente diversi da tutto quello che c’era stato prima.
A cinque anni dagli esordi, che sembrano almeno dieci per quanta acqua è passata sotto i ponti, ora Tony Effe pubblica oggi il suo primo album solista Untouchable. Un progetto ambizioso sin dalla copertina, realizzata da Anton Tammi (già al lavoro con The Weeknd) e con la supervisione dell’art director e grafico Moab (Stole Stojmenov), dietro ai progetti grafici di nomi come quello dei Migos.
L’album vede collaborazioni importanti (il “padre della trap” Gucci Mane, Gué Pequeno, Tedua, il ritorno con l’ex DPG Side, i soci Pyrex e Wayne, l’accoppiata Lazza e Gazo) affiancate a pezzi puramente solisti, il Tony più classico e momenti diversi da quello a cui ci ha abituato, ma soprattutto una grande voglia di rivendicare il proprio ruolo nella scena: l’affermazione di avere incarnato la trap in Italia prima che fosse il genere del momento, e di essere quello che ce l’ha fatto diventare. Non ultimo, l’orgoglio di essere ancora al top di questo movimento.
Di tutto questo, e di come sono stati questi cinque anni formidabili, abbiamo parlato con il diretto interessato.
Come va? Come ti vivi l’uscita di un disco: sei contento perché l’hai finito o sei agitato perché deve uscire?
Molto tranquillo: sono andato in palestra, a tagliarmi i capelli, ho fatto un riposino, poi faremo una cena e una festa per l’uscita. Sto bene, finché non arrivano proprio i minuti finali che c’è un attimo di agitazione me la vivo abbastanza bene.
Quando avete cominciato, il genere di cui sei uno dei principali esponenti in Italia era una novità e una scommessa, mentre adesso è al numero uno da tutti i punti di vista. Come ti spieghi questo successo, peraltro in un Paese in cui storicamente il rap aveva sempre attecchito fino a un certo punto?
Non me lo so spiegare: penso sia una cosa di ricambio generazionale, e poi di musica e immaginario allo stesso tempo, che erano talmente forti che non potevi evitarla, tutti i ragazzini l’hanno seguito. Era una cosa forte, eravamo in tanti a farlo. Poi in America già andava anni prima, e quello che succede là nella musica bene o male succede poi anche in Italia. Anche in Francia il rap già andava tantissimo. È successo quello che doveva succedere. Mancavamo solo noi.
A proposito di immaginario, dal punto di vista estetico questo disco è molto curato, con la copertina di Anton Tammi, che si è occupato anche di The Weeknd.
Io sono un fan di The Weeknd, ho conosciuto Anton tramite un’amica modella che me l’ha consigliato, e poi ci siamo messi in contatto. È stato molto bello: lui è super forte, mi ha raccontato anche la storia dello scatto di The Weeknd che inizialmente doveva essere un altro, e quello che poi è diventato la copertina di After Hours era stato fatto sul set in un momento morto. Il mio management inizialmente era scettico, normalmente non ci si va a rivolgere così in alto, ma per me l’immaginario è sempre stato molto importante, ed essendo fan di The Weeknd e del suo lavoro lo volevo a tutti i costi, e alla fine si è fatta.
L’avvento del nuovo rap appunto è molto legato anche all’immaginario: per te la musica è comunque la cosa principale o è parte di qualcosa di più ampio che include anche immagine, social, vestiti? Gli artisti sono sempre più personaggi a 360 gradi oggi.
Sì, va tutto al passo con l’immaginario. Anche con la moda, è tutto un unico calderone. Poi dipende, ci sono artisti che se ne fregano e fanno musica e basta, è una cosa soggettiva. Ma il personaggio fa tanto, non basta solo essere bravi.
Ma si può avere successo solo con il personaggio o non dura?
Solo con il personaggio può essere un successo effimero, ma poi servono i risultati, il talento, tante altre cose. La testa soprattutto.
A questo proposito, voi anche per l’immagine o i testi siete stati visti un po’ come dei disgraziati, ma a un certo punto, quando le cose diventano importanti a livello discografico, bisogna essere in grado anche professionalmente di essere all’altezza?
Passano anche gli anni, e cresci. Succede in modo naturale. All’inizio pensi più al divertimento e a fare casino. A dire il vero non so neanche se sono più produttivo adesso che vado in studio in orari di ufficio o prima che col fatto che non avevamo niente da fare invece di stare in strada stavamo in studio. Era il nostro punto di ritrovo e quindi facevamo sempre musica. Metodologie diverse, però il lavoro c’è sempre stato, anche quando facevamo di più i cretini la sera. Il live poi è fondamentale. Per esempio Salmo che in live è fortissimo, tiene il palco, ha il fiato, lavora un sacco proprio su quello. Quello è il modo giusto, non puoi andare a pezzi sul palco.
Hai l’impressione, sentendo gli artisti più giovani, che ti copino? Ti fa piacere o ti fa incazzare?
L’ho visto succedere anche in America da un sacco di tempo, è normale che succeda. Quando una cosa funziona, altri cercano di emularla. Noi poi alcune cose che avevamo portato per primi in seguito le abbiamo un po’ lasciate perdere, e così magari ci si è messo qualcun altro. Con questo disco ho voluto anche rimettere un po’ la chiesa al centro del villaggio, ribadendo il mio ruolo all’interno di una scena.
Parlando del disco, c’è il featuring importantissimo di Gucci Mane, che immagino fosse un tuo riferimento da tempo.
Io sono super fan suo ed è il padre della trap in America, quindi per chiudere un cerchio potevo fare un featuring solo con lui. Non era pianificato di avere lui come featuring internazionale, ma poi questo pezzo che con Drill (Drillionaire, il producer, nda) ci è venuto fuori verso la fine della lavorazione ci ha fatto pensare che lì ci voleva Gucci Mane per forza. È successo in modo spontaneo, dopo che avevamo fatto il pezzo: abbiamo pensato immediatamente a lui. Lui l’ha sentita e l’ha fatta in cinque giorni: non me l’aspettavo, sentendo anche miei colleghi che hanno aspettato strofe per mesi, o che magari le hanno ricevute registrate sott’acqua, qua è andata liscia come l’olio per fortuna.
E la lavorazione del disco in generale come è andata?
Meno liscia: l’ho fatto negli ultimi due o tre mesi ed è stata una lavorazione complicata perché ci sono stati un po’ di imprevisti, cambiamenti dell’ultimo minuto, situazioni che ci hanno colto di sorpresa. Ma alla fine questi problemi mi hanno fatto uscire ancora più voglia dal punto di vista agonistico, e quindi ho fatto anche altre tracce nuove, con più carica.
Devi soffrire, comunque, per fare un disco: non puoi stare tranquillo, ti devi sentire un po’ all’angolo per tirare fuori quella cosa.
Non possiamo non citare, anche solo per l’entusiasmo dei fan e l’effetto che ha avuto sui social, il ritorno della collaborazione con Arturo (Side, ex membro della Dark Polo Gang, nda).
Non era così scontato, ma era una cosa che volevo fortemente, amo quel tipo di pezzi. Ci stavamo riavvicinando, abbiamo lasciato il rancore e tutte quelle cazzate da parte, però non è stata una cosa scontata. Sono contento.
Un pezzo che spicca per diversità nel disco è Effe, che come mood e sonorità è molto diverso da quello su cui siamo abituati a sentirti.
Inizialmente era un beat trap che non mi piaceva molto, mi suonava un po’ vecchio, poi l’abbiamo rifatto un po’ di volte e Drill se n’è uscito con questo colpo di genio. Inizialmente, al primissimo ascolto, mi ha fatto strano; poi pensando a me su quel beat mi faceva ancora più strano. Però ho riconosciuto subito che la traccia era figa, quindi ho detto «mi sento un po’ strano però è figa, niente da dire, e allora facciamola». Oltre a quello anche Piazza, Diverso e Lacrime sono beat un po’ distanti dal resto. Inizialmente quando ho sentito il beat di Lacrime ho detto «mo che cazzo faccio qua», però mi ci sono prestato. È Drill che mi ha spinto a fare Lacrime: l’ho scritta, ma ad ascoltarmi sopra mi sentivo strano, mi sono abituato dopo qualche ascolto. Già avevo fatto delle cose del genere su Trap Lovers, però sul disco mio ero meno sicuro che ci stessero bene, però la verità è che a me piace quel tipo di musica.
Quali sono i tuoi ascolti, anche al di fuori del rap?
Ultimamente sto ascoltando un sacco i Backstreet Boys, le cose di quando ero ragazzino. Ascolto un po’ di tutto a seconda dello stato d’animo. La trap resta un riferimento, quando mi voglio caricare, se no anche musica pop come Dua Lipa. Mi piacciono molto gli anni ’90, li sto riascoltando molto: appunto i Backstreet Boys, ma anche Natalie Imbruglia… Spesso mi vado a ricercare le canzoni che mi piacevano da ragazzino e mi fomenta.
Come pensi di essere cambiato in questi cinque anni?
Da Roma siamo venuti a Milano, quindi intanto è cambiata proprio la città. Ho conosciuto un sacco di gente, sono cresciuto, sono passati cinque anni che poi sono quelli dai 25 ai 30, quindi anni proprio di cambiamento. È passato tutto così in fretta che neanche saprei dire bene: tante volte mi devo vedere le cose su YouTube per ricordarmi del passato.
Durante il lockdown hai avuto il tempo di fermarti a ripensare un po’ questi anni o eri molto preso?
In quel periodo abbiamo fatto Dark Boys Club, quindi ero piuttosto impegnato: andavo in palestra e registravo a casa, queste erano le mie giornate. Prima della pandemia avevo ricominciato ad andare in palestra, che avevo lasciato perdere per un anno. Avendo la palestra nel condominio, fortuna d’Iddio, potevo andarci ogni giorno e mi sono ripreso. In più facevo il disco, quindi mi sono tenuto bello impegnato, non è stata così difficile. Andare in palestra mi ha aiutato molto. Anche se mi sono fatti venti giorni di Covid, però tutto a posto. Me la sono vissuta tranquillo.
C’è una distanza tra la persona e il personaggio? Il Tony Effe dei testi e delle stories sei tu al cento per cento o c’è una differenza tra Nicolò e Tony Effe?
Sono io al cento per cento, con vari stati d’animo. Ci sono varie sfaccettature della personalità, però sono io di base. Sono sempre stato così, e se non era la musica era qualcos’altro.