Prima di incontrare telefonicamente Tony Hadley, ex frontman degli Spandau Ballet ora definitivamente solista, in occasione del suo tour per i 40 anni di carriera che proprio questa sera passerà da Torino, guardo un documentario straordinario, da poco disponibile su Netflix intitolato Blitzed. Il film, diretto da Bruce Ashley e Michael Donald, racconta la storia della rivoluzione culturale che prese forma piena intorno al Blitz, il club underground londinese di Covent Garden che, per fecondità, si rivelerà essere il corrispettivo inglese dello Studio 54 e da cui, nei primi anni ‘80, emergerà, in coda a quella punk, la grande scena New Romantic. Al Blitz si formano tra gli altri Boy George, gli Ultravox, i Visage e, naturalmente, proprio gli Spandau Ballet.
Per parlare con Tony Hadley, penso, è necessario partire proprio da qui e poi sapersi abilmente spostare, modificare il baricentro dell’attenzione in funzione dell’infinità di attività che il cantante ha messo in cantiere e realizzato in questi decenni di carriera di cui, è chiaro, il lavoro con gli Spandau Ballet è stato solo l’incipit fondativo e straordinario. Lascio il Blitz, i lustrini e il trucco magico e pesante e appena chiamo Tony, come previsto, vengo catapultata in tutt’altra dimensione: «Stavo facendo giardinaggio», mi dice. «È un novembre ottimo per preparare le piante all’inverno che arriverà». Mi scuso per averlo interrotto e lui sorride e mi risponde, solerte, che non devo assolutamente preoccuparmi: «Non scusarti, oltretutto mi ero già stufato! Come si dice? Siamo inglesi… prima di tutto».
Cosa ti inebriava della musica 40 anni fa e cosa ti accende ancora?
Prima di iniziare a fare musica stavo cercando di evitare di fare il medico, quando avevo 11 anni volevo fare il chirurgo, ero molto affascinato dalla medicina ma sfortunatamente più tardi mi sono accorto di non essere molto bravo in matematica. Ho scoperto la musica molto presto, da piccolo cantavo nel coro della scuola e in chiesa, ma il mio incontro effettivo con la potenza della musica è stato quello con David Bowie nel 1970 o 1971. Avevo 10 o 11 anni, più avanti mi innamorai dei Queen, dei Roxy Music, di Rod Stewart ed Elton John. Ho amato tutto questo anche se ero ancora un bambino, volevo la musica alta, volevo quello che avrei avuto con il punk. La mia vita, senza quello che è stato l’incontro con la musica, sarebbe come un film senza colonna sonora, qualcosa che io non riesco a vedere. Amo ancora la musica, me la godo ancora completamente, in studio e dal vivo.
Che ruolo aveva il look di un artista per te? Cosa ti colpiva?
A cinque anni impazzivo per My Boy Lollipop di Millie Small, un brano ska. Nel 1971 quella musica mi piaceva ancora, per esempio amavo Double Barrel di Dave & Ansel Collins: amavo lo ska e il reggae, poi di conseguenza ho amato i Clash e poi i Damned, i Sex Pistols, Siouxsie and The Banshees: li amavo tutti anche per il loro look, un elemento che allora per me è stato fondamentale. Sai, penso che voi in Italia abbiate un gusto formato per il look, siete sempre vestiti molto bene, alla moda, questo in alcuni casi prescinde e ha saputo prescindere da tutto, musica compresa, mentre ho sempre avuto l’impressione che da noi in Inghilterra, in Gran Bretagna in genere, in molti abbiamo imparato la moda dalla musica, il look mod dagli Small Faces e poi l’estetica dei punk, il look new romantic e tutto il resto.
Ho visto questo film dedicato al Blitz che mostra come il clima in cui tutto accadde è quello di una Londra turbolenta di razzismi, omofobia e riot: com’era Londra quando hai iniziato a fare musica? Com’era essere giovani in quel contesto?
Londra nel ’77 era un posto completamente diverso da quello che si scopre oggi, ma intorno a Soho dove c’erano i club punk e dove c’era il Blitz, c’era una città molto affamata, desiderante, non c’erano i social ma c’erano cose pericolose anche all’epoca: il tempo ha reso tutto molto diverso, il costume si è modificato completamente. Quello che posso dirti oggi è che essere dei punk rocker allora era fantastico: c’erano molte band, la moda era incredibile, era tutto molto ispirato, frizzante, appassionato, una cosa che noto è che ora siamo come passivamente abituati a tutto ma in quel momento non smettevi di girarti per strada a scoprire, guardando gli altri, nuovi modi per stare nel mondo.
Sei arrivato dopo il punk, un’epoca in cui cantare bene non era importante, anzi, se possibile era sconsigliato. Tu hai rimesso inaspettatamente il canto e la voce al centro del discorso. «Una voce che sta da qualche parte tra Bowie e Sinatra», ha scritto qualcuno di te, e io non riesco a immaginare niente di meglio per un cantante.
In effetti neanche io, è un grande, enorme complimento: quando ero un bambino molto piccolo i miei genitori erano grandi amanti dello swing, da Sinatra a Tony Bennet e molti altri, mentre crescevo e facevo le mie scelte mi dicevano: «Ok, ti piace il punk però prova ad ascoltarti anche questa roba» e così io ad un certo momento gli ho dato retta: credo che quelle voci alla fine abbiano avuto su di me un’influenza eccezionale, di grande portata, qualcosa che è entrato nella mia stessa vocalità e nel mio modo di stare su un palco a cantare.
Il New Romantic era liquidato da molti come qualcosa di commerciale, musica pop per ragazzine, e poi c’era chi sapeva che invece quella era anche una rivoluzione musicale e di costume. Le vostre canzoni non erano canzoncine, erano, soprattutto nei primi tempi, qualcosa all’avanguardia anche negli arrangiamenti e nell’accostamento di pop ed elettronica
Hai ragione ed è tutto nei nostri inizi come band. Quando abbiamo iniziato a 16 anni facevamo cover di Chuck Berry, dei Beatles, dei Rolling Stones un po’ come tutti, poi nel ’76-’77 siamo diventati punk e le cose dopo sono cambiate completamente, anche da noi in UK è arrivata Berlino, l’influenza dei Kraftwerk e di tutti gli altri, la musica cosmica tedesca ci ha cambiato la vita, ha modificato il modo in cui volevamo approcciare la musica. Abbiamo scoperto qualcosa di fantastico, un sentimento analogo a quello provato da band come i Depeche Mode credo, che amavamo. In To Cut a Long Story Short, nel suono, c’è ancora tutto questo, quando poi siamo arrivati a True eravamo infatuati di altro ancora, il blues e il soul soprattutto.
Perché vi siete messi a fare una cosa così radicalmente diversa, così più commerciale?
Lo sai com’è, il tempo cambia tutto, alcuni sono una cosa e fanno quello tutta la vita, come i rockabilly per esempio (ride), ma noi eravamo fan di Bowie, lui era la nostra più grande e prima influenza, lui vi aveva impartito una lezione e ci ha insegnato a cambiare. Così il primo album era molto elettronico, il secondo era funky e weird, il terzo mainstream pop. Io sono un grande fan dei Duran Duran, loro hanno fatto una scelta di maggiore fedeltà al loro sound, fanno questo corporate rock mischiato all’elettronica, noi abbiamo fatto una scelta diversa.
Quando li hai incontrati la prima volta? Ora se chiudo gli occhi penso a te e Simon Le Bon come in quella foto in cui McCartney e Jagger sono in treno insieme seduti uno davanti all’altro.
Siamo stati a un sacco di programmi tv insieme ma purtroppo non c’erano i telefonini e non abbiamo potuto fotografarci e farci selfie altrimenti te ne avrei mostrati ora. Se posso essere sincero la nostra massima collaborazione comunque è stata bere insieme, divertirci molto. La prima volta eravamo a Birmingham, avevamo suonato al giardino botanico della città e poi siamo andati in un club che si chiamava Rum Runner e abbiamo passato una serata incredibile. Ho saputo di recente della malattia di Andy (Taylor, nda) e mi dispiace davvero molto, lui è un grande.
Cos’è per te il successo oggi, dopo 40 anni di lavoro.
Cercare di essere felice. Se sei felice sei senz’altro una persona di successo. Io come tutti ho up and down ma sono grato perché ho cinque figli stupendi, e mia moglie Alison. E poi per me fare musica, registrarla, cantarla, è fantastico. Il business della musica invece è terribile e sopravviverci, in effetti, è un grande successo.
C’è un cantante italiano che forse conosci, si chiama Lucio Dalla, e in una sua canzone molti anni fa ha scritto che l’impresa eccezionale è essere normale.
Oh sì! Conosco Lucio Dalla! Certo, beh, ha molto ragione nel dire questa cosa. Io per esempio dal giorno in cui ho iniziato, a 20 anni, con la band, conduco una vita normalissima in cui vado al pub, al supermercato, ovunque voglia. Il nostro è un lavoro e non va trattato troppo come qualcosa di diverso da ogni altro lavoro.
Hai avuto una giovinezza incredibile in una band di grande successo, una carriera da solista, un’etichetta discografica tua, tanti concerti (che stai continuando a fare), hai fatto duetti e incontri importanti. C’è una cosa che vorresti fare, se parliamo di musica e della storia della tua vita, che non sei ancora riuscito a fare?
Non ho mai fatto un film a Hollywood e mi piacerebbe, una cosa tipo Mission Impossible, capisci? (Ride) Non mi sono mai buttato in caduta libera, sono stato molte volte nelle città americane più importanti ma non ho mai davvero esplorato gli Stati Uniti e mi piacerebbe: ci sono molte cose ancora da fare, quella che vorrei di più è trascorrere più tempo con la mia famiglia. Io non mi guardo mai indietro, non guardo mai vecchi video, non ascolto i miei vecchi dischi. Guardo al futuro, quindi le cose da fare ancora ci sono sempre.
Mi piace spesso fare questa domanda impossibile ai musicisti e vedere cosa salta fuori: disco preferito?
Ma è impossibile. Però è divertente… vediamo… ti dico Children di Robert Miles, amo quel pezzo ed è ottimo anche per fare ginnastica.