Settantotto anni di cui 60 in giro per il mondo a suonare. Se, come titolava il più celebre album “italiano” della sua discografia composto con Vinícius de Moraes, Sergio Endrigo e Giuseppe Ungaretti, la vita è l’arte dell’incontro, Toquinho non ha mai smesso di incontrare, di vivere, di suonare.
L’elenco delle sue collaborazioni, che siano su disco o su palco, è interminabile: da Jobim a Lucio Dalla, da Chico Buarque a Ornella Vanoni, da Ennio Morricone a C. Tangana. Antonio Pecci Filho, in arte Toquinho, infatti non è solo un musicista, un virtuoso della chitarra brasiliana, un autore e interprete. Toquinho incarna la brasilianità, quella brasilianità fatta di intensa leggerezza e poetica samba che è entrata nella cultura italiana grazie a dischi fenomenali come il già citato La vita, amico, è l’arte dell’incontro, Per un pugno di samba con Chico Buarque ed Ennio Morricone, La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria con Ornella Vanoni.
Toquinho non sembra intenzionato a smettere. La sua infatti è una storia di disciplina e studio («bisogna essere un po’ tedeschi, un po’ brasiliani», dirà nell’intervista), di passione e amore per una storia dove ha scritto il suo nome in modo indelebile. Dopo essere passato a Sanremo nella serata cover al fianco di Gaia, Toquinho tornerà nel nostro Paese a maggio per sei date (18 maggio a Napoli, 19 a Cagliari, 21 a Padova, 22 a Milano, 23 a Catania, 25 a Roma) per un tour appositamente pensato per il pubblico italiano. Un modo per festeggiare i 60 anni di carriera di uno dei più grandi rappresentanti della MPB, la Música popular brasileira.
Abbiamo chiacchierato con Toquinho in una telefonata che collega simbolicamente l’Italia al Brasile. E lui, con il suo bonario fare carioca, ci ha chiesto subito di dargli del tu. In italiano, come tutta l’intervista.
Festeggi 60 anni di carriera. Hai un segreto?
È importante stare bene con sé stessi ma per farlo bisogna avere disciplina. Stare attenti a cosa si mangia, bere poco, far ginnastica. Per affrontare un palcoscenico, stare in tour, è necessario stare bene fisicamente. Ma è anche importante fare cose che ti diano piacere. Io sto bene fisicamente e mentalmente e ho ancora piacere a suonare.
Anche nel suonare sei così disciplinato?
Sì, studio la chitarra tutti i giorni, per me è fondamentale, è una sfida suonare meglio di ieri. La disciplina va di pari passo ai piaceri, è questo che porta alla felicità. Sono piccoli segreti che tutti sanno, ma che pochi rispettano.
Cosa studi principalmente?
Studio la tecnica, suono brani che non suono da tempo, vedo canzoni di altri autori, nuovi e vecchi. Mi diverto con questa cosa che mi ha donato la vita. Mi sveglio e prendo la chitarra, dopo mangiato prendo la chitarra, la sera prendo la chitarra.
E qual è il tuo rapporto con lo strumento oggi?
La chitarra mi ha dato tutto. La chitarra mi ha aperto tante porte musicali, mi ha permesso di lavorare con tante persone. Ho cominciato come solista di chitarra, e poi sono diventato autore e interprete.
Ti ricordi la prima volta che l’hai suonata?
Devo andare molto indietro con la memoria (ride). Fammi pensare… ricordo di aver visto una chitarra nella cucina dei miei. Avrò avuto 5-6 anni. Ricordo di essermi chiesto com’era possibile fare tutti quei suoni con solo sei corde. Quando avevo 10-11 anni, grazie all’arrivo della bossa nova di João Gilberto e Tom Jobim, la chitarra è entrata nella classe media brasiliana. E lì ho avuto questo impeto di imparare la musica, di saperla suonare. Ho studiato con i grandi maestri e ho sempre voluto imparare da chi suonava meglio di me, da Paulinho Nogueira a Baden Powell, tutta quella generazione fantastica con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Io non sono dalla parte di chi decide di essere autodidatta.
E oltre i maestri, c’è qualche chitarrista di oggi che ti piace?
Yamandu Costa, con cui nel 2021 ho collaborato nell’album Bachianinha (Live at Rio Montreux Jazz) che ci è valso anche un Latin Grammy. Lo conosco da quando era bambino, è un grande strumentista.
La musica brasiliana è una storia di grandi collaborazioni. Secondo te da dove deriva questa attitudine verso la musica?
Questa semplicità nel collaborare è qualcosa di diverso, che non vedo negli altri Paesi. Gli artisti altrove spesso ti domandano quanto guadagneranno dalla collaborazione… Qui invece vogliamo cantare e suonare insieme, è molto facile per noi. Non so esattamente da dove viene questa disponibilità, è sicuramente qualcosa di culturale. A me è sempre piaciuto fare canzoni insieme agli altri, penso che migliorino il mio modo di pensare la musica. Ora, ad esempio, sono in tour con Camilla Faustino, che di anni ne ha 36, quindi tutt’altra generazione. Per dire che le collaborazioni nascono sempre dal rispetto e da un’amicizia, così con lei, così con Vinícius De Moraes, Chico Buarque, Gilberto Gil, Caetano Veloso. La musica arriva dopo, prima viene il rispetto.
Un’altra particolarità della musica brasiliana, che in questo caso mi ricorda il jazz, è questo rispetto e amore della propria storia, del proprio canzoniere, dei propri classici, degli standard potremmo dire. Questa tradizione continua a essere portata avanti.
Sì, è vero. C’è molto rispetto per le generazioni che sono venute prima di noi, per musicisti come Dorival Caymmi, Ary Barroso, Pixinguinha, gente dell’inizio del secolo scorso, personaggi molto rispettati della storia brasiliana. Le loro canzoni vengono preservate e noi le suoniamo ancora oggi perché sono belle. Vogliamo rendere omaggio a questa gente fantastica che è arrivata prima di noi.
In un’intervista avevi detto una frase che secondo me spiega bene il tutto: «Non vivo nel passato, il passato vive in me».
In realtà non è una frase mia ma di Paulinho da Viola, un musicista che fa una samba più tradizionale, come se fosse stata composta 50 anni fa, nel senso di struttura e melodia. E quando a lui chiedono perché fa musica in quel modo, lui risponde con quella frase. Quindi me ne sono approfittato e ho preso questa sua frase perché è fantastica. Funziona anche con me.
Vedi una differenza tra come si fa e faceva musica in Italia rispetto al Brasile?
Sì, è evidente, è molto diverso. L’Italia arriva da un passato legato a Puccini, all’opera. È un passato strutturato, molto forte. Il grande regalo che noi abbiamo avuto nella nostra cultura, invece, arriva da qualcosa di estremamente tragico: la schiavitù. Un momento triste della storia, ma che almeno ha portato nel nostro Paese (e non solo) una cultura musicale fantastica. I neri ci hanno regalato una storia ritmica impressionante. E quando i neri sono scappati da Bahia verso le colline di Rio de Janeiro è arrivata la samba carioca, il carnevale, le sfilate. E anche la samba tradizionale, il chorinho. Tutto questo noi lo dobbiamo agli africani. C’è molta differenza tra la musica europea e la nostra, questo perché la musica nera ha influenzato la musica del nord, centro e sud americana.
Inoltre la radice è legata al ballo, è musica che ha bisogno di corpo, di danza.
Sì, infatti il ballo arriva dalla cultura africana. Pensiamo anche solo a come le tifoserie delle squadre africane vivono una partita allo stadio: è tutto un ballo, una festa. È una cultura fortissima.
Con la fuga e l’esilio dal Brasile a fine anni ’60 molti musicisti brasiliani sono stati costretti a lasciare il vostro Paese. E anche qui un evento tragico come un esilio censorio ha portato un grande regalo alla cultura italiana. L’arrivo in Italia di musicisti come te, Chico Buarque, Vinícius De Moraes ha dato vita a dischi incredibili e collaborazioni affascinanti con artisti come Sergio Endrigo, Ornella Vanoni, Ennio Morricone, Lucio Dalla, Sergio Bardotti. Addirittura Ungaretti. Cosa puoi raccontarci di quel periodo?
A quei tempi c’era molta disponibilità. Ma il tutto non era così voluto come si possa pensare, era un po’ figlio della situazione. Ti spiego: c’era una collina vicino a Roma dove c’erano solamente quattro case. Una era di Ennio Morricone, una di Sergio Endrigo, una di Sergio Bardotti e una di Luis Bacalov. E sai chi veniva sempre a dormire? Lucio Dalla, era un ragazzino ma era già pieno di peli! C’era un viavai di artisti, di persone unite. Fare quei dischi è stato facile per questo, perché c’era un’atmosfera unica, diversa. Poi ad esempio la Vanoni l’ho conosciuta tramite Bardotti e quell’album incredibile che è La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria è nato così. E poi dopo è arrivato Acquerello con Maurizio Fabrizio e Guido Morra, e le registrazioni con Lucio Dalla. Era tutto familiare, circostanziale. Prima l’amicizia, e poi la musica.
Mai titolo mi sembra più azzeccato di La vita, amico, è l’arte dell’incontro allora.
Questa frase di Vinicius è fantastica, è emblematica, è vera. La vita è così, conoscere nuove persone, essere vicini alle persone, incontrarsi, perdersi, ritrovarsi.
Tra l’altro in Per un pugno di samba c’erano anche delle giovanissime Mia Martini e Loredana Bertè ai cori.
Sì, sono passati tantissimi artisti in quei giorni che sicuramente ora me ne dimentico qualcuno.
Visto che abbiamo citato La vita, amico, è l’arte dell’incontro, volevo chiederti: come siete riusciti a coinvolgere un poeta come Ungaretti a partecipare al progetto?
Non ho conosciuto personalmente il poeta Ungaretti, sfortunatamente sono arrivato dopo. Me ne ha parlato Vinícius. E mi ha raccontato questo aneddoto che non ho mai dimenticato. Un giorno Vinícius arriva in hotel e incrocia Ungaretti che sta litigando a un tavolo con una giovane ragazza. Non sa bene cosa si stanno dicendo, ma capisce che stanno litigando. A un certo punto la ragazza se ne va e Vinícius sente Ungaretti ripetersi a voce bassa: «Le donne sono molto strane, le donne sono molto strane». Una frase bellissima che poi abbiamo usato in una canzone successiva chiamata Testamento.
Un’altra caratteristica che aggiungerei alla MPB è questa idea che la musica sia di tutti. Certo i brani hanno degli autori, ma poi ognuno la fa propria, cambia genere, la trasforma, la traduce (come successo nei dischi che abbiamo appena citato).
È un po’ vero, sì. Penso che quando si suona il brano di un altro musicista si porti sempre un filtro, un dna dell’interprete. L’interprete lascia sempre qualcosa della sua personalità. C’è l’anima di chi canta e suona e l’anima di chi quel brano l’ha scritto. Penso sia un’unione molto bella perché contiene uno spirito di trasformazione, di rinascita.
Abbiamo fatto parecchi nomi, ma vorrei chiederti un ricordo o pensiero per alcuni di loro. Partiamo da colui che è stato per molto tempo il tuo complementare, Vinícius de Moraes.
È una mancanza quotidiana per me. Mi piacerebbe essere con lui per saper cosa potrebbe pensare dei cambiamenti del mondo, di internet, di come questa comunicazione immediata abbia reso il mondo piccolo. Mi manca la sua opinione.
Visto che l’hai citato tu, Lucio Dalla.
Ricordo la sua disponibilità. Era un personaggio libero. C’era sempre una possibilità di fare qualcosa assieme.
E visto che sei tornato a Sanremo con un vostro brano, Ornella Vanoni.
Uno tsunami di energia e di vitalità. Oggi come ieri. Ha sempre fatto tutto con emozione, amore, verità. Questa per me è Ornella Vanoni.
Proprio a Sanremo ero all’Ariston mentre provavi La voglia, la pazzia con Gaia e l’orchestra. Il giorno delle prove delle cover è sempre un po’ caotico visto quanti artisti sono in attesa del pochissimo tempo a disposizione per provare il brano. E voi tra l’altro avete avuto dei problemi tecnici e siete rimasti sul palco più degli altri. Là dove si poteva respirare un clima piuttosto teso, ricordo che tu non smettevi di suonare anche nei silenzi, di scherzare con l’orchestra. È stata un’immagine romantica, sembravi quasi un alieno in quel contesto.
Che dire, a me piace suonare. (Ride) Mi diverto ancora molto a suonare. Quando si dà troppo importanza al palcoscenico, lo si rende complicato, denso. Per me il palcoscenico deve esser uno spazio in cui divertirsi, sempre rimanendo professionali. Quando ci sei, devi divertirti, non deve essere un momento di tensione, ma di tranquillità. Per molti, però, è qualcosa che terrorizza e lo si sente.
Sì, mi pare che questo sia sempre più evidente. Credo che in molti, in troppi, arrivino sul palco senza un’adeguata preparazione. Se studi e sei sicuro dei tuoi mezzi, non hai quella paura perché puoi fare affidamento su quanto sai. Qual è il tuo parere a riguardo?
Sì, è vero, oggi le canzoni sono più semplici e la preparazione è minore. Per star bene sul palco bisogna essere tedeschi e un po’ brasiliani. La parte tedesca è la preparazione, la concentrazione, lo studio. È lo studio, quello fatto bene, che ti permette poi di poterti sentire libero di divertirti, che ti dà la sicurezza per scherzare con la musica. Se non hai sicurezza, c’è tensione, e non suoni bene. Per quello studio molto.
Nell’ultimo periodo hai lavorato con Gaia e C. Tangana. Come ti trovi a lavorare con le nuove generazioni anche lontane dal tuo genere di provenienza?
Tutto è musica. Si possono fare cose belle in qualunque genere musicale. L’importante è portare nei rispettivi mondi il meglio di sé. Cosa posso regalare io agli altri? Questa è la domanda fondamentale. Deve essere una fusione musicale e umana, deve esserci uno spirito di comunione.

Toquinho e Camilla Faustino. Foto press
Arriverai in Italia per una serie di date che celebrano i tuoi 60 anni di carriera. Cosa possiamo aspettarci?
È una tournée a teatro, e questo è bene, perché il teatro è un luogo dove si può anche parlare e raccontare. Ci saremo io con la mia chitarra, un basso, una batteria e Camilla Faustino alla voce, una cantante che fa tutto bene. Canta da dio, sa ballare; è perfetta. Sul palco porterò la mia vita. Ricorderò da dove sono venuto e perché sono su quel palco. Anzi, meglio: sarà un po’ la mia vita, un po’ la storia della musica brasiliana.
Ma come si scelgono le canzoni per un live che deve racchiudere 60 anni?
Ho dato una gerarchia prendendo i momenti musicali più importanti per ogni epoca. Non ci sarà solo musica brasiliana, ma anche quella italiana. E lo ribadisco: l’importante sarà divertirsi.