Julien Baker si interrompe per scusarsi. «Non so perché sto parlando delle note a margine della mia tesi». Non stupisce che la cantautrice 25enne tiri fuori gli studi accademici parlando di jazz e soggettività del linguaggio. Di recente ha passato più tempo in classe che sul palco. L’anno scorso, esausta e alle prese con problemi personali che si erano accumulati in tre anni di tour, ha messo in pausa la sua carriera per finire gli studi alla Middle Tennessee State University. «Ho cancellato Austin City Limits e sono tornata sui libri».
È stato un sollievo tornare a seguire le lezioni fra studenti ignari del suo status di cantautrice indie fra le più apprezzate degli ultimi anni. «Usavo la testa in tutt’altro modo, pensavo quotidianamente alla letteratura, allo studio della musica e del linguaggio, tutte cose che non hanno a che fare col mio ego come le canzoni. Mi è stato d’aiuto. So che così sembro una secchiona, ma studiare mi piace. Passavo tutto il tempo in biblioteca».
Dopo avere ottenuto il diploma nel dicembre 2019, è entrata in uno studio di registrazione della sua città, Memphis, per registrare il terzo disco solista. L’album si intitola Little Oblivions e uscirà nel febbraio 2021: non è solo il disco più pop e con la produzione più ricca della sua carriera, ma anche il più onesto e sincero.
Se i primi due LP di Baker – lo spettrale Sprained Ankle del 2016 e il meditativo Turn Out the Lights del 2017 – esploravano i temi della fede, dell’identità e della salute mentale, il nuovo lavoro è decisamente più centrato sul corpo. Le canzoni sono pieniedi sbronze, svenimenti, sangue e corpi. Sono spesso ambientate in un bar o a letto. E hanno quasi tutte la batteria.
Il fatto che il suo primo album con una band sia anche quello più centrato su problemi quotidiani non è una coincidenza. In quanto unica produttrice, Baker ha usato i suoni del rock per raccontare la resa dei conti con sé stessa e la rinascita che ha vissuto negli ultimi due anni. In Relative Fiction, per esempio, costruisce un classico arrangiamento scarno e atmosferico, poi entra in campo la batteria e la malinconia lascia spazio a un eccitante ritornello pop: “Non voglio un salvatore / Voglio che mi porti a casa”, canta mentre la band appare alle sue spalle.
Mentre scriveva Turn Out the Lights, Baker andava in giro «suonando le canzoni di Sprained Ankle e leggendo compulsivamente di teologia, filosofia e teorie politiche. Ero ossessionata dal fare la cosa giusta. Ero in uno spazio metafisico. E pensavo a queste cose enormi, come la natura dell’altruismo». Da allora, dice, «sono successe cose che hanno rimpicciolito il mio mondo».
Baker non suona un vero concerto da luglio 2019 e non è sotto gli occhi del pubblico dall’autunno del 2018, quando ha pubblicato l’EP Boygenius con il supergruppo fondato con Phoebe Bridgers e Lucy Dacus. «Due anni, wow. Sono successe un sacco di cose», dice. «Non è stato un bel periodo. Il 2019 è stato un brutto anno».
Quando a novembre 2018 il tour è finalmente finito, le cose sono precipitate. «Era come guidare una bici, lentamente. Quando perdi il ritmo inizi a vacillare». Nel gennaio 2019 Baker è finita in un articolo di GQ insieme a musicisti come Steven Tyler e Jason Isbell. L’articolo parlava del rapporto tra sobrietà e creatività. Baker, che all’epoca aveva 23 anni, rifletteva sui suoi sei anni lontana dall’alcol. «Sì, era chiaramente il momento sbagliato», dice oggi ridendo nervosamente.
Baker ha qualche difficoltà a parlare di quel periodo, a raccontare dettagli che preferisce tenere privati. È consapevole del rischio che correrebbe se dovesse, come dice lei, romanzare il suo rapporto con l’abuso di sostanze, un problema che risale a prima dell’adolescenza. Sa che spesso storie complesse di artisti che combattono con dipendenza e sobrietà vengono trasformate in narrazioni da usare nel ciclo promozionale di un disco. «Non volevo contribuire alla solita storia di redenzione», dice.
Sa anche che lasciare tutto nell’oscurità presenta altrettanti rischi. «Non voglio omettere le cose e parlare vagamente di salute mentale, sarei disonesta e la stigmatizzerei». Quindi, cerca di spiegare tutto al meglio delle sue possibilità. Dopo l’ultimo concerto delle Boygenius, alla fine del 2018, ha affrontato lo stress represso che aveva accumulato in tour «in maniera davvero negativa».
«Non avevo capito quante cose dovevo ancora affrontare e che i miei meccanismi di difesa negativi non facevano che alimentare problemi. Ho riesaminato un sacco di cose: la mia relazione con le sostanze, la mia identità da sobria o da straight edge, quali sono le differenze tra queste e cose e cosa significano. È stato un processo difficile, e non l’ho gestito bene». Vedere quel giornale in cui era presentata come un’artista sobria, ricorda, l’ha portata a «un confronto con la mia fallibilità. Ne andavo molto orgogliosa, ma poi ho dovuto ricominciare da capo, capire come affrontare di nuovo tutto».
Baker si è anche resa conto che il modo in cui parlava di sé stessa in quell’articolo rafforzava una mentalità che cercava di superare. «Ho pensato: parlo con grande sicurezza, come se fossi su una strada binaria, la vecchia me e la nuova me. Non so, mi piacerebbe dire che non ero io quando facevo quelle cose ai miei amici, eppure è così».
Sempre in gennaio, Baker ha iniziato a scrivere molte delle canzoni di Little Oblivions. «È difficile capire quando hai torto su qualcosa di cui sei convinta», spiega. «Mi sembra che in Turn Out the Lights ci fossero due parti che si affrontavano, la parte ostile e quella buona e idealista. Scrivendo il nuovo album ho capito che in realtà sono la stessa persona, e invece di cercare di sopraffare e distruggere la parte negativa dovevo assimilarla e usarla per capire meglio me stessa».
Baker ammette che non ha ancora finito di imparare. Sta facendo del suo meglio per farlo anche in relazione alla politica e all’idea stessa di comunità. «È facile disprezzare negli altri le stesse cose che non ci piacciono di noi stessi. È comodo prendere un aspetto che non ami di te stessa e personificarla negli altri, così da odiarla ed evitare di affrontarla».
Baker ha suonato ai festival programmati per la primavera e l’estate del 2019, ma alla fine di luglio ha iniziato a cancellare i concerti programmati. La ragione, diceva un comunicato dell’epoca, era di tipo medico. In quel periodo ha scritto la seconda tranche delle canzoni di Little Oblivions. L’album, dice, è «un po’ un documentario del mio 2019».
Per descrivere la fase di scrittura, che per la prima volta ha previsto demo, arrangiamenti diversi e più di un anno di lavoro prima di entrare in studio, Baker tira fuori una citazione di William Wordsworth: «La poesia è il fluire spontaneo di sentimenti potenti e nasce da emozioni raccolte in tranquillità». Se i suoi primi due album rappresentano la prima parte della citazione, Little Oblivions ha a che vedere con la seconda.
Lo scorso agosto, Baker era in viaggio verso Murfreesboro, Tennessee, per concludere gli studi che aveva abbandonato nel 2016 a un semestre dalla fine. Una volta laureata, sapeva di voler registrare con una band, ma ha riempito l’album anche di momenti più quieti, in parte per evitare che l’evoluzione del suo suono non fosse compresa dal pubblico. «Non volevo dare l’impressione sbagliata, come se gridassi “sono in una band!”. Ho le mie ragioni per mettere la distorsione nella pedaliera, non volevo che sembrasse un trucco. Volevo solo scrivere con la batteria».
A volte, Little Oblivions sembra accennare alla vecchia band hardcore che Baker aveva al liceo, i Forrister. «Mi mancava quell’energia. E insomma, sarà superficiale, ma è divertente suonare canzoni potenti. Mi rende felice».
Un’altra fonte di felicità: il suo nuovo cane Beans (l’idea è prenderne presto un secondo, che chiamerà Cornbread). «Adesso è difficile dire chi ha salvato chi», racconta mentre il cucciolo inizia ad agitarsi. «Diavolo, questo cane è così rumoroso. Sta zitto, Beans!».
A livello personale, Baker ha vissuto il tempo passato a casa nel 2020 come una sorta di benedizione, un modo per allungare il periodo di stabilità che ha trovato tornando a studiare. «Col senno di poi, sono felice di aver dovuto rallentare la mia vita». Ha passato gli ultimi sei mesi incontrando un’amica diventata mamma, con Beans, con i vicini. C’è però un “ma”, come spesso succede con i cantautori troppo riflessivi.
«Devo andarci cauta, perché anche se suona tutto romantico, so che non c’è nulla di definitivo. Credo di essere passata da un’esperienza concettuale a una più fisica, cerco di essere più presente».
Fa un’altra pausa. «Non so perché sembra tanto strano dire “presente”. Non capisco. È perfettamente normale, e anche sano, essere presenti al proprio corpo».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.