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Torozebu, giochi percussivi senza frontiere

Un superproduttore incontra un grande musicista. Il risultato è un disco di sole percussioni in cui «c’è tutta la tecnologia del mondo, ma anche le mani e il legno». Intervista a Clap! Clap! e Domenico Candellori

Foto press

Un disco di sole percussioni non è mai un disco facile. O forse, per paradosso, è sempre un disco facile da ascoltare perché ci riporta alla cosa più semplice possibile, il fondamento di tutto, la matrice di partenza: il ritmo. È proprio attorno al ritmo o, ancor meglio, nel centro del ritmo che nasce Torozebu, il nuovo progetto collaborativo di Clap! Clap!, producer toscano di fama internazionale che abbiamo intervistato per l’uscita del suo ultimo lavoro in studio, Liquid Portraits, e Domenico Candellori, percussionista di strumenti appartenenti alla tradizione afro-cubana, medio-orientale e mediterranea nonché studioso etno-musicale e autore di uno dei saggi più completi sulle percussioni in Italia.

Torozebu è un disco di otto tracce, mezz’ora di musica che ci porta in giro per il mondo, in luoghi sonori vivissimi in cui differenti culture si confondono tra tradizione e sperimentazione. Un disco che potrebbe sembrare per pochi e che, invece, ha la capacità di smuovere le interiora e il terreno come un toro in corsa.

Abbiamo raggiunto Cristiano e Domenico per un dialogo su Torozebu e su come si possa flirtare con le tradizioni del mondo con rispetto e intelligenza per creare una nuova musica senza patria o, ancor meglio, una nuova musica dalle molte patrie.

Il nome scelto per questo progetto, Torozebu, è molto evocativo. Trasporta subito l’ascoltatore in questa corsa aperta nel mondo del ritmo. Come siete arrivati a questo nome?
Clap! Clap!: Con Torozebu ci riferiamo al toro zebù, il toro classico, quello con la gobbona dietro.
Domenico Candellori: Ci piaceva l’immagine di questo animale forte, di terra, che in tantissime culture e in particolare in quelle antiche ha una simbologia importante, anche sacra, e rappresenta la generazione della vita, il contatto con la divinità, con il cielo. C’è una cultura antica molto ampia su questo animale.

Come nasce la vostra collaborazione e cosa vi ha spinto a fare un intero disco collaborativo?
Clap! Clap!: La prima collaborazione tra me e Domenico è avvenuta in Southern Dub, un brano dal mio ultimo disco, Liquid Portraits. Tra noi si era creata una gran fotta, uno scambio continuo di materiale.
Candellori: Potremmo dire che questo disco ci ha fatto conoscere, ma ora ho una voglia matta di continuare a fare cose assieme ancora più ricche e complete. Come puoi sentire questo è un disco di solo percussioni che – nonostante sia un mondo infinito – restringe comunque il campo d’azione. Non è facile fare un lavoro del genere, un disco di sole percussioni, senza arrangiamento o strumenti melodici classici.
Clap! Clap!: Il nostro strumento solista qui è stata la talking drum.

Come mai la scelta di fare un disco esclusivamente percussivo?
Candellori: È stata una richiesta esterna che abbiamo accolto. Il nostro incontro unisce il suono delle percussioni etniche-tradizionali con l’apporto elettronico. Il prodotto finale è una commistione tra acustica ed elettronica.
Clap! Clap!: Era una mia fissa. Con Domenico ho finalmente trovato il momento adatto per realizzare un progetto di sole percussioni che non fosse il classico ensemble di percussioni, ma che flirtasse con l’elettronica. Roots, ma con sperimentazione.

Il suono di Torozebu è effettivamente piuttosto particolare. Come lo avete costruito?
Clap! Clap!: C’è stato un mio grosso lavoro di sound engineering con il quale ho ripassato i suoni tradizionali suonati da Domenico in equalizzatori e compressori in modo tale da conferire al suonato una pasta più vintage, che era la nostra idea di suono. Questo processo è servito anche a dare al disco quella pacca elettronica che si avvicina al suono tipico di Clap! Clap!. Torozebu è come sentire un ensemble di percussioni con tutte le contaminazioni da dancefloor. Ci sono percussioni suonate, library e field recording. Ci sono dei suoni di percussione che sembrano un basso fatto con una Roland 808.

Nello sterminato universo delle percussioni, quale è stata la ricerca dietro la scelta degli strumenti da utilizzare?
Candellori: Prima di iniziare questo lavoro ci siamo palleggiati idee, dischi, reference. Abbiamo preso parecchie percussioni dall’Africa, e in particolare nella sua commistione che la collega a Cuba, altre cose dal medio-oriente. Partendo dalle tradizioni abbiamo mischiato cose molto differenti, come un tamburo italiano su percussioni afro-cubane o brasiliane. Ci siamo dati un punto di partenza, ma senza darci limiti, sperimentando.
Clap! Clap!: L’unico limite era non creare conflitti, evitare di mischiare ritmi di tradizioni in conflitto etnico. Questo per un discorso di rispetto culturale.

Quali sono state queste reference che vi siete scambiati per ispirarvi?
Candellori: Sono un ascoltatore di musica etnica dal mondo e ho lavorato con percussionisti e gruppi musicale dal Nord Africa, con gruppi di musica ebraica e rom, nonché con la tradizione italiana. Per questo disco ci siamo quindi scambiati degli ascolti tra tradizione e creativi che hanno messo mano alla tradizione per poi giocarci e liberarsi.
Clap! Clap!: È il gioco della sperimentazione, la tradizione che incontra la modernizzazione. A livello d’ispirazione come primi nomi ti direi Guem e Zaka Percussion, due progetti di fine anni ’70 algerini. Fan parte di quel mondo mediterraneo che è stato il nostro principale filone di riferimento. Ma ci sono cose molto differenti come la danza del ventre, la cumbia, e quant’altro, ma sempre contaminate dal suono dell’Africa.

Toccare altre culture, recuperane il suono, è sempre un tema spinoso. Come si rispetta la tradizione e come si evita l’appropriazione culturale?
Clap! Clap!: La prima cosa a cui bisogna prestare attenzione è la religione perché nel mondo ci sono un sacco di ritmi che hanno un valore e un significato religioso, essendo il ritmo una comunicazione. Penso ad esempio a tutta quella musica usata per funerali e lamenti, cose che hanno un significato enorme in certe culture e che sono giustamente prese molto seriamente. Altri ritmi, invece, hanno utilizzi più leggeri, ad esempio nelle cerimonie festive come matrimoni o carnevali, e questi portano a meno problematiche.
Candellori: Il rispetto passa dal modo in cui proponi il progetto. Quando fai un lavoro come questo è già dichiarato che non stai facendo tradizione. Se fai musica tradizionale e non rispetti la tradizione, vieni contestato, ma il nostro non è un disco di musica tradizionale e lo capisci dopo quattro secondi; è una auto-dichiarazione. Si è comunque sempre soggetti a critiche. Nel 2010 ho scritto un libro sulle percussioni italiane, Tamburello & tammorra, e la critica che mi si fece maggiormente, ancor prima che uscisse, nonostante fossi andato a parlare centinaia di volte coi musicisti tradizionali per farmi dire tutto per filo e per segno, dal rituale alle tecniche, fu che misi queste informazioni su carta e in video quando invece la tradizione si impara solo in loco, sul posto. Mi dicevano: «Hai fatto un lavoro stupendo, inedito, serviva, però non si fa». Vedi? Non se ne esce vivi.

È anche difficile delimitare il concetto di tradizione in sé, tradizione è un termine a suo modo conflittuale.
Candellori: La tradizione è già conflittuale nel territorio. Per alcuni la tradizione è mantenere lo stesso modo di suonare, sempre e per sempre. Per me, invece, la tradizione è qualcosa che muta continuamente.
Clap! Clap!: Se non si evolve, la tradizione muore.
Candellori: La tradizione è cosa viva. Ti faccio un esempio. Alcuni musicisti si fissano su un determinato modo di suonare l’organetto o il tamburello. Poi però quando vai a vedere chi faceva quelle suonate nella storia o, come direbbero loro, nella tradizione, nella maggior parte dei casi erano lavoratori di campagna che a causa della falciatura spesso perdevano delle dita e che quindi, avendo certe limitazioni fisiche, suonavano in un modo completamente diverso, irripetibile al giorno d’oggi. Ma anche solo le fisicità di quelle persone che lavorano in campagna tutto il giorno erano diverse; a furia di lavorare i campi avranno avuto le mani che erano tre volte grandi le mie! Per questo pur applicandoti nel modo più preciso e puntiglioso possibile, non riuscirai mai a replicare la stessa tecnica. Cambiamo proprio noi, cambia l’uomo, e cambia la mente. Ora pensiamo il ritmo in maniera molto più rigida rispetto a quei tempi. Noi siamo abituati al ritmo delle macchine, loro erano abituati al ritmo della natura e quindi un andamento più zoppicante che per loro andava bene, per noi è sbagliato.
Clap! Clap!: Noi siamo sul click, mentre loro seguivano un ritmo molto più naturale. Ci sono molti fattori da tenere in considerazione e spesso i contesti e i momenti storici non vengono considerati in tutte le loro sfaccettature.

Quindi mi viene da chiedere; oggi chi è, secondo voi, il pubblico di un disco di percussioni come Torozebu?
Clap! Clap!: Bella domanda! Credo sia un pubblico che varia tantissimo, tra musicisti e addetti al settore, curiosi, gente che segue i nostri progetti singoli e sicuramente percussionisti e batteristi.
Candellori: Il target è ampio perché unisce coloro che sono interessati alle percussioni, all’elettronica, alla musica etnica.

Un’ultima considerazione su Torozebu. Il mondo delle percussioni porta in sé il concetto antico di ritualità come socializzazione e comunità. In un periodo in cui siamo stati tutti e tutte obbligati all’isolamento, un disco così vivo, forte, terreno suona quasi come una ribellione.
Candellori: È vero, sai, ne sentivamo la necessità. L’idea di fare questo disco nasce proprio durante la prima quarantena e probabilmente è stata una ribellione verso quella clausura, quella stasi.
Clap! Clap!: In un periodo culturale come questo dovrebbero esserci più spinte verso la socializzazione. Noi che abbiamo visto così tanti step tecnologici, dal telefono a gettone a internet, sappiamo che questo progresso – per paradosso – porta a socializzare meno spingendo l’individuo a concentrarsi su se stesso. È diminuito il bisogno di socializzare, dell’altro, perché quello che prima si trovava in piazza ora lo si trova online. Una spinta alla collettività è sempre una cosa positiva in questo periodo. È come il discorso che abbiamo fatto sulla tradizione: il progresso è sempre positivo, ma non bisogna dimenticare chi siamo e da dove veniamo e che siamo insieme su questo pianeta.
Candellori: In questo disco c’è tutta la tecnologia del mondo e al contempo ci sono le mani, il legno, i materiali. Bisogna evitare il rischio di dimenticarci chi siamo e da dove veniamo.

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