La storia dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che quest’anno festeggiano 30 anni di attività, è una storia di musica come reazione all’adolescenza in un Occidente in decadenza, di città fantastiche, di collettivi alieni, di fumetti come espressione artistica, di maschere usate per discutere sullo sfruttamento della propria immagine e, negli ultimi tempi, anche di un mago che ha lasciato in eredità una vera e propria biblioteca esoterica. Per farcela raccontare ci siamo spinti a Pordenone, la Rock City friulana dove tutto è iniziato e tutto è ritornato – dopo un viaggio di oltre 1500 concerti – grazie all’album appena uscito, Garage Pordenone, 12 tracce che sono la summa di una delle band più longeve, coerenti e fieramente indie del panorama italiano.
A introdurci in questo mondo basato su regole peculiari non poteva che essere Davide Toffolo, frontman e mente creativa del trio composto anche dal bassista Enrico Molteni e dal batterista Luca Masseroni. Lo abbiamo incontrato nella sua grande casa contornata da un profumatissimo glicine e appartenuta a un personaggio alquanto bizzarro, un medico con la passione per la magia. Lì siamo stati testimoni di un incontro fra artisti che, oltre ai fiumi di vino ingurgitati, potrebbe generare interessanti collaborazioni. Ci hanno infatti raggiunti a sorpresa il pittore Giordano Floreancig e la coinquilina del musicista, la docente di storia dell’arte Paola Bristot, trasformando l’intervista in un reportage sullo spirito folle che alberga nei friulani.
Si va dallo stagno frequentato da bambino, affascinato da insetti e tritoni, al collettivo The Great Complotto passando per il contratto stracciato con una major («in quel periodo piangevo spesso») ai dischi autoprodotti e la creazione di una loro etichetta – e la distribuzione con un internet primordiale – fino all’incontro con mostri sacri del fumetto come Andrea Pazienza, Igort o Magnus. Per arrivare a chiedersi, dopo la morte del padre, se avesse ancora senso cantare: «Fino ad allora era contro mio papà».
Con Toffolo abbiamo ripercorso quasi 60 anni di vita (li compirà nel 2025): «Mio nonno a 90 anni ripeteva: “Tutti dicono che sono vecchio, solo che a me sembra sempre lo stesso giorno”». Ci ha spiegato perché, con le guerre in corso, non riesce più a intonare Bella ciao («Preferisco Le déserteur di Vian»), come mai i trapper «sono stonati nonostante l’Auto-Tune, ma cantare bene non è importante, bisogna cantare quello che sei». E che alla fine di ogni questione, il problema rimane sempre uno: «Il cazzo di capitalismo!».
Davide, quest’anno festeggiate 30 anni dei Tre Allegri Ragazzi Morti, però ci pensi che nel 2025 tu ne compirai 60?
No, non ci penso mai. Una cosa divertente è successa quando ne ho compiuti 58 anni e ho fatto il compleanno assieme a una nostra fan. L’ho incontrata a Roma quando abitavo là, mi ha spiegato di essere nata il mio stesso giorno e che le sarebbe piaciuto festeggiare insieme. Poi c’è stato il Covid e abbiamo rinviato. Alla fine l’abbiamo condiviso ed è stato il mio primo compleanno a pagamento in un locale (ride).
Hai unito l’utile al dilettevole.
Il posto era pieno e tutti erano contentissimi di pagare, però gli ho fatto anche uno spettacolo. In generale lo scorrere del tempo per me è un concetto lontano. Come diceva mio nonno che aveva più di 90 anni: «Tutti mi dicono che sono vecchio, solo che a me sembra sempre lo stesso giorno».
Arriva Floreancig e Toffolo, che non si aspettava un altro ospite, corre ai ripari: «Cerco in casa se ho qualcosa da mangiare e da bere». Il pittore lo mette in guardia: «Da bere è la cosa più importante, perché mangiare è un vizio».
Sulla pagina Wikipedia a te dedicata è riportato questo pensiero: «Mi definirei un soldato, sì, un soldato di un esercito dove le armi sono matite e strumenti musicali. Un soldato che combatte per la libertà, per l’esistenza delle diversità, delle realtà specifiche, un soldato che combatte contro la speculazione sulle persone… perché ogni cosa che si fa ha un valore politico. Sono un soldato pieno di ferite». È tratto dal tuo Graphic Novel Is Dead. Ho trovato qualcosa di simile in Edmondo De Amicis: «Coraggio… piccolo soldato dell’immenso esercito. I tuoi libri sono le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, e la vittoria è la civiltà umana». Ti ritrovi?
È interessante, perché una dichiarazione così forte può risultare solo forte, anche se in realtà Wikipedia ha un problema. Quello che scrivono è più o meno sempre vero, ma non è detto che sia anche giusto. Sono frasi estrapolate da un fumetto che ha la dimensione della scrittura appoggiata a dei disegni. Perciò diventa un’altra cosa. E adesso te lo dimostro (Rientra in casa e torna con in mano la pagina citata di Graphic Novel Is Dead, nda). Questo esempio lo uso spesso quando faccio interventi sul linguaggio del fumetto. Se riporti solo le parole senza il contesto il linguaggio è monco. Io sono stato abituato a lavorare su un doppio linguaggio. Quindi quel pensiero epico, dove io sono un soldato e le armi sono le mie matite, in realtà è espresso mentre sono di fronte alla tv che gioco a tennis con la Wii (effettivamente il fumetto quello rappresenta, nda). E le mie ferite si riferivano all’uso indiscriminato di quella consolle. Mi riconosco in quel pensiero, ma tutto quello che faccio ha livelli diversi di lettura, anche con una certa ironia. Senza immagini invece è solo epico.
Vasco Rossi sulla guerra ha dichiarato: «Io rifiuto di schierarmi come se fosse una partita di calcio, Israele contro Palestina. Gli ebrei, dopo quello che hanno sofferto, hanno diritto a uno Stato. Free Palestine è un bello slogan, ma se implica la distruzione dello Stato di Israele, allora sarebbe più onesto dirlo. E alla distruzione di Israele io mi ribello».
Il sì e al no, il mi piace e il non mi piace sono una deformazione della nostra epoca. A Gaza c’è una guerra palese e io sono contro la guerra in assoluto. Un tempo nei nostri concerti cantavamo Bella ciao, adesso non ci riesco. Mi viene più facile cantare Le déserteur di Boris Vian per esprimere il rifiuto della guerra. La complessità è più vera della scelta tra like e dislike.
Non voglio tirarvela, ma nonostante le vostre prese di posizione non mi sembra di ricordare una shitstorm rivolta ai TARM. Solo fortuna o avete un segreto?
Come mi dice spesso un amico quando vado al bar: chissà quanto dura, perché sai che una secchiata di merda può arrivare da un momento all’altro, vero? Diciamo che una shitstorm a chi ha una certa esposizione può capitare. C’è chi dice che è meglio avere tanti che ti vogliono bene e contestualmente tanti che ti vogliono male, l’importante è che si parli di te. Questo lo dicono gli altri, io invece sono contento di non avere tanta gente che dice che sono uno stronzo.
Visto che casa tua è di fronte a un asilo, se chiudi gli occhi qual è la prima immagine da bambino che ti viene in mente?
Il ricordo più vivo è il rapporto con un animale, una raganella, proprio nel periodo in cui frequentavo l’asilo. Pordenone è un posto di acqua, se ti guardi attorno trovi tanta natura. Da piccolo impazzivo per gli animali e quella raganella verde gigantesca la tenevo in mano ed era gelida ma pulsante. È il primo e più intenso ricordo infantile.
Spesso gli animali sono presenti nella canzoni dei TARM.
È vero, c’è tutto un bestiario dei Tre Allegri Ragazzi Morti, anche di animali non miei. Vedi quel gatto? (Ne indica uno rossiccio che gironzola sul pianerottolo, nda). Si è affezionato e viene a trovarmi ogni giorno alla stessa ora.
E Davide da bambino era già creativo, oppure l’ispirazione è arrivata più tardi?
Ho avuto la fortuna di avere dei genitori che mi hanno sostenuto. In particolare mio padre. I miei primi ricordi sono legati a lui che mi diceva: «Questo bambino ha il dono di natura». Che era di disegnare, modellare il pongo, creare con le mani. Mi ha dato molta fiducia. Adesso abito qui, una casa borghese, ma sono un proletario. Ho sempre abitato alla periferia di Pordenone, mio padre era un operaio molto intelligente che mi ha insegnato a non avere paura di ciò che amo. Quindi il disegno è stata la prima forma di espressione.
Poi hai studiato a Bologna.
Sì, anche se si può dire che sono un autodidatta. Ho imparato disegno anatomico in una scuola di impostazione un po’ ottocentesca, il Rizzoli di Bologna. Era a numero chiuso, una quindicina di persone l’anno e disegnavamo dalle anatomie umane. Ero già allora appassionatissimo di fumetti.
Un periodo d’oro per il fumetto, no?
In verità a metà anni ’80 era un momento particolare, alcune riviste stavano chiudendo, ma alcuni autori con una certa idea del fumetto come linguaggio artistico, non solo come artigianato industriale, avevano immaginato una scuola specifica. Un giorno passeggio per le strade di Bologna e vedo un cartellone: “Scuola per autori di fumetto Zio Feininger”. Leggo chi sono gli insegnanti: Andrea Pazienza, Igort, José Muñoz e Carlos Sampayo, Magnus e Lorenzo Mattotti. Mi sono iscritto immediatamente. Il primo anno a pagamento, il secondo no. Ma c’era la possibilità di entrare anche presentando delle tavole. Così ci ho provato. Sai, a me non è mai piaciuto lavorare, per cui ero a totale carico dei miei genitori.
«Non mi è mai piaciuto lavorare» per uno che ha fatto così tante cose, è da spiegare.
Mancava un pezzo: non mi è mai piaciuto lavorare per altri. Ho portato le mie tavole e mi hanno preso. È stato l’anno più incredibile della mia vita. Ho avuto la possibilità di affiancare quegli artisti giovani in azione, che avevano un rigore e una dedizione mai visti per questo linguaggio, allora ritenuto minore. Volevo essere come loro.
In generale, che città era la Bologna di quegli anni?
Una città degli incontri. Nella musica avevo meno contatti, mentre per i fumetti è stata un’epifania. Quando ti trovi in un gruppo di lavoro con così tanto talento tra insegnanti e compagni di classe, poi diventa tutto molto competitivo. Era come se avessimo un manifesto da seguire. Un ambiente che avevo già vissuto a Pordenone con il Great Complotto. E a me quel tipo di dinamica ha sempre pesato. Infatti dopo l’università non ho mai abitato a Bologna, benché i miei primi editori fossero bolognesi. Diciamo che questa distanza rispetto a certi ambienti mi ha permesso uno sviluppo autonomo.
Il Great Complotto merita un discorso a parte, quando Pordenone era considerata la Rock City friulana.
Ero un ragazzino e ho fatto parte di quella sorta di collettivo. Difficile descrivere oggi quel clima. Era un gruppo di adolescenti, pochissimi i maggiorenni, che vivevano nel centro di Pordenone in una palazzina messa a disposizione dalla madre di uno dei “capi”, che si chiamava Tequila House. Una realtà completamente gestita da adolescenti, senza adulti e quindi con regole tutte sue. Un luogo alieno rispetto alla città, che in quegli anni era devastata dall’eroina. Non c’era ancora la definizione, ma noi a differenza degli altri, eravamo già straight edge. Solo per dire quanto ci sentivamo futuristi, oltre alle sale prove e agli spazi ricreativi, nella palazzina c’era un museo di autostoricizzazione. Molto avanti!
Futurismo che ti ha influenzato, tanto da far parte della band Futuritmi.
Ero eccitato dalla visione tecnica dei futuristi. In quel collettivo ho imparato a immaginare che le cose si possono fare anche se sei lontanissimo da certi centri e in gruppo con altri artisti. Pordenone in quel contesto era una riscrittura psicogeografica della città collettiva. Non c’era uno che proponeva e gli altri seguivano. Ognuno ci inseriva un frammento.
E com’è avvenuto il passaggio ai TARM?
In una vera e propria costellazione di band, a un certo punto comincio ad avere il mio gruppo, era più o meno ancora il periodo scolastico, e abbiamo iniziato a suonare in giro. Però tutti rispettavano un diktat nel Complotto: non si cantava in italiano. Perché era riconducibile alla musica popolare che già si sentiva in giro, oltre ai cantautori che erano pesantissimi per ragazzini di 15 anni. E per noi allora difficilmente affrontabili (scoppia a ridere, nda).
Eppure, sono proprio i testi in italiano ad avervi portato fortuna.
La svolta è nel 1983 durante un tour in Spagna. Il dittatore Franco non c’era più ed era tornata la democrazia con la riappropriazione del rock in lingua spagnola. A noi chiedevano di suonare in italiano e quando sono tornato ci ho ragionato. Con i Futuritmi abbiamo cominciato a inserire canzoni nella nostra lingua, ma quella band ha avuto un’esistenza stramba.
Come mai?
Siamo arrivati a registrare un disco con il produttore inglese Nick Griffiths, che aveva lavorato con Pink Floyd e Roger Waters e in due mesi abbiamo imparato tantissime cose. Ma più di tutti le ha imparate Gian Maria (Accusani, poi Prozac + e Sick Tamburo, nda). Non a caso poi lui i dischi se li è prodotti da solo. È sempre stato un vero musicista e io solo un cantante. E come diceva mio padre: «Dei cantanti bisogna sempre diffidare».
Perché tuo padre era così sospettoso nei confronti dei cantanti?
Ora che mi ci fai pensare, mio padre mi sosteneva nel disegno e nello stesso tempo mi denigrava sul versante della musica. Diceva che la mia voce faceva cagare e credo che in parte avesse ragione. Ma è stato quello che mi ha dato un’energia pazzesca per continuare.
Alla fine ti sei preso la tua rivincita.
Pensa che una decina di anni fa, sempre in tour, lui è venuto a mancare. E proprio in quel momento mi sono ritrovato a chiedermi per la prima volta il perché stessi facendo questa cosa, cioè la musica. Fino ad allora era contro mio papà. È stato un motore meraviglioso.
È anche per questo motivo che uno dei tuoi temi preferiti nelle canzoni è l’adolescenza, con tutto il suo carico di conflitti?
Un po’ è per quello, non c’è dubbio. Ma io ho cercato di scappare dall’adolescenza in tanti dischi e a un certo punto credo anche di esserci riuscito. Però l’adolescenza che racconto io non è l’adolescenza giornalistica dei ragazzi nelle varie epoche, è più un’adolescenza che viviamo tutti in Occidente. La fine di questa civiltà. In fondo la ricerca dell’identità è tipica del rock and roll. Per cui, penso, la spinta più forte è diventata il crollo di questo mondo.
Che forse non è mai stato tanto evidente come in questo periodo, no?
Noi facciamo questo lavoro… no il termine mi fa schifo. Descriviamo con questa attività la trasformazione degli esseri umani in merce. Non solo in quello che produciamo, perché ormai da tempo è la persona stessa a trasformarsi in qualcosa di mercificabile. Abbiamo sempre occultato la nostra identità dietro a una maschera per cercare un modo per stare in questo mondo, con tutte le sue difficoltà e contraddizioni, ma provando a non snaturare completamente la nostra dimensione personale.
Ci siete riusciti?
Lievi problemi psicologico-psichiatrici non ce li siamo completamente evitati. Quelli più gravi, forse, possiamo dire di sì.
I vostri primi tre dischi autoprodotti tra il ’94 e il ’96, Mondo naïf, Allegro pogo morto e Si parte, non hanno avuto riscontri dalla critica. Da Piccolo intervento a vivo cominciate invece a farvi notare e finite sotto contratto con la BMG Ricordi. Oggi sarebbe difficile un percorso simile, visto che al primo singolo o la va o la spacca.
Le condizioni del mercato musicale cambiano a seconda dei supporti. Io sono convinto che però la differenza la facciano sempre gli artisti. È vero che oggi sarebbe più difficile avere una crescita come la nostra senza investimenti, con i dischi autoprodotti, facendo le cassette perché il CD era borghese a metà degli anni ’90. Ma anche adesso è centrale l’artista e ognuno può trovare la sua modalità di espressione. Sono sicuro che quelli forti riescono ad arrivare anche oggi. Non dimentichiamoci che non è stato facile neanche per noi, nonostante l’ambiente fosse diverso.
Voi ce l’avete fatta, mantenendo una forte indipendenza per oltre 30 anni.
Tutti i gruppi speravano che una major li strappasse dalla loro condizione di merda per arrivare a qualcosa di più figo. Invece noi pensavamo che la vita te la puoi trasformare da solo. Non a caso abbiamo sempre detto che il nostro è stato un percorso esistenziale.
Avete avuto più coraggio o incoscienza a uscire da una major per creare la vostra etichetta, La Tempesta Dischi?
In pochi allora ci provavano, noi sì e neanche tanto per calcolo, quanto per rispetto a ciò che sentivamo. È sempre difficile realizzare un disco. È un percorso di gioia e di sofferenza. Ma i dischi in quella condizione mi procuravano un disagio fisico. Se parli con chi mi era vicino ti dirà che ero molto insofferente, piangevo spesso. Abbiamo cercato un’altra via.
Tra l’altro, in quel periodo, non c’erano i social e internet era agli albori.
Sì, ma è stato esaltante, Abbiamo rotto il contratto con la BMG Ricordi e iniziato a distribuire in rete i nostri dischi. Che non era la rete di oggi, perché quando cliccavi sul sito potevi solo sperare che ti arrivasse davvero a casa l’oggetto fisico. Così Luca (Masseroni, il batterista, nda) si è trasformato anche in spedizioniere.
Nel frattempo il batterista chiacchiera con il pittore senza accorgersi che il suo bicchiere di vino non accenna a calare di livello, nonostante continui a bere, perché Floreancig, da ex oste, glielo riempie con maestria non appena il musicista si distrae. «Avevo il carrello della spesa a casa con i pacchi da spedire e le stanze colme di scatoloni. Begli anni!».
«Era eccitante, infatti il primo concerto dopo il disco autoprodotto da noi, con il successivo tour, quando ci siamo accorti che la gente sapeva tutte le nostre canzoni non ci potevamo credere. È stata una conferma bellissima. Ci siamo detti: ok, forse si può fare davvero».
Poi non sono mancate incursioni nel mainstream, ma sempre come toccata e fuga. Dalle aperture a Jovanotti a Sanremo con gli Extraliscio.
Con Jovanotti è successo perché Lorenzo ci ha fatto la corte per un po’ di tempo e quando doveva annunciare il suo primo tour negli stadi ci ha fatto sapere che gli avrebbe fatto piacere averci in apertura e abbiamo detto, ma sì proviamoci. C’è una foto indicativa di quell’esperienza che è stata scattata all’Olimpico. Siamo tutti insieme sulla pista di atletica e, mentre gli altri sono sulle pedane di partenza, noi ci stiamo avviando da un’altra parte…
Quando incontrate gli artisti che invece hanno scelto di far parte di logiche mainstream, cosa vi dicono?
Nella maggior parte dei casi sono affascinati dal fatto che non abbiamo il peso della presenza fisica, che per un artista noto è bellissimo, ma ti condiziona l’esistenza. E per le scelte che abbiamo compiuto nessuno ci spinge a fare cose. Piacciamo per come siamo.
In Italia siete stati pionieri anche nella scelta di indossare una maschera. Dopo tanti anni, occultare la propria immagine è ancora seducente, vedi il caso di Liberato. Come mai?
Non ci interessa tanto la cancellazione dell’immagine, quanto la discussione sull’immagine. Cioè che cosa vuol dire mettere in gioco un prodotto che ha la persona come centro. Questa è la chiave dei TARM su cui noi abbiamo giocato in tanti modi. Per molto tempo abbiamo utilizzato le maschere, ma all’inizio la usavamo nei concerti solo in determinati momenti. Avevo una cassettina video di un live registrato a Catania dove non la usavamo, ma per fortuna l’ho persa. Quando è arrivato YouTube, era difficile controllare che cosa la gente metteva online e quindi ora siamo stati costretti a tenere la maschera per tutta la durata di un concerto. Da quel momento anche la nostra fisicità emotiva nel live è diventata più teatrale. Quando metti una maschera, a parlare è il corpo.
Una delle collaborazioni più curiose del vostro percorso è quella con i Cor Veleno nell’album Meme K Ultra. Oltre alla voglia di sperimentare, c’erano altre ragioni?
Per molto tempo abbiamo condiviso un’esistenza a distanza che in qualche modo è proseguita in parallelo. Loro hanno avuto anche l’agenzia a Pordenone. Io ho la passione per la cumbia e una sera, a Roma, sono andato a sentire un producer argentino di una etichetta che si chiama ZZK, piuttosto bizzarra perché fa cubia elettronica a Buenos Aires e porta il nome di un filosofo sloveno post-comunista. E chi trovo al live? Giorgio Cinini dei Cor Veleno. A me è sempre piaciuto il rap romano, lo trovo speciale. E questa collaborazione è nata in modo particolare. Il mio amico Adriano Viterbini, grande musicista e appassionato come me di musica diversa da quella che suona di solito, disse che dovevamo provare a fare qualcosa con i rapper romani. Lui con i Colle Der Fomento e io con quello che restava del TruceKlan. Così ho cercato quello considerato più cattivo, Metal Carter. Volevo produrre un suo brano con Squarta dei Cor Veleno. Lo contatto, ma prima gli chiedo se le due bande fossero compatibili. Sai, loro sono un po’ divisi in quel mondo. «Posso portarvi in studio senza rischiare?» gli domando. Lui prima mi racconta tutta la storia del rap, intuendo che non ne sapevo granché, poi accetta.
Con chi fa trap avete contatti?
Contatti veri con i trapper direi di no. Mi ero esaltato per Rockstar di Sfera Ebbasta, che mi è piaciuto di brutto. Con l’etichetta La Tempesta Dischi abbiamo dato voce per primi a un’altra grande artista di Cinisello Balsamo, Myss Keta. Non so se è rap o trap, però viene più o meno da quel mondo lì. Per il momento sono gli unici contatti con la trap.
E le polemiche sull’Auto-Tune dove ti vedono schierato, sempre che tu abbia voglia di schierarti?
Mi viene in mente che quando abbiamo realizzato il primo disco con la BMG, il produttore ci chiese di usare l’Auto-Tune in una parte di una canzone come cifra stilistica. C’è stata un po’ di discussione, eravamo poco inclini, ma alla fine lo abbiamo usato. Era il 1999.
Credi che oggi se ne abusi?
Mi stai chiedendo se i trapper sono veramente stonati? Secondo me sì, sono veramente stonati. Ma a questo punto si capisce anche che non serve a niente l’Auto-Tune. L’altra settimana ho visto The Voice Senior e ti fa capire che c’è gente con voci incredibili fuori dal mercato, perciò vuol dire che cantare bene non serve poi così tanto. Bisogna cantare nel modo giusto per te e quello che sei. È come nel disegno. Spacchi se disegni quello che sei, non quello che è bello e basta.
Le bottiglie sul tavolo aumentano, soprattutto quelle vuote. Si è aggiunta al banchetto la vicina di casa, Paola Bristot, docente di Storia dell’arte all’Accademia di belle arti di Venezia, che ci parla dell’incredibile storia del “mago” che ha venduto l’abitazione, condivisa con Toffolo, lasciando in eredità mobili, libri, documenti, vestiti. Seduta su una sedia a dondolo della veranda, spiega con dovizia di particolari una vicenda talmente incredibile che sembra una storia da racconti del brivido di fronte al caminetto.
Prima che l’alcol prenda il sopravvento, sarà il caso di chiederti del nuovo disco che già dal titolo torna a Pordenone, ma anche qui c’è una doppia lettura.
È un gioco, come sempre. Abbiamo raccontato una Pordenone fantastica, non realistica. Garage Pordenone è in realtà un luogo di Milano e quindi così c’è qualcosa che ti riporta a casa, c’e qualcos’altro che ti conduce altrove. È un gioco di specchi che ha a che fare con la nostra storia: una band che ha le radici a Pordenone, ma che si è spostata ovunque in Italia con più di 1500 concerti. E in tantissimi posti abbiamo la fortuna di sentirci a casa. Persino in Argentina, dopo un bellissimo tour.
Oltre a La sola concreta realtà, struggente ballad che ragiona sul senso dell’amore, c’è una frase che resta scolpita in testa: “Stento a capire perché quel cretino è più ricco di me” in Ho’oponopono.
Ti faccio vedere da cosa ho preso ispirazione per questa canzone. Quella è una frase presuntuosa in un pezzo con un inizio mistico new age, quasi una preghiera hawaiana che parla poi di una forma di disagio pienamente occidentale.
Davide ci porta in una stanza della casa di fronte alla biblioteca esoterica lasciata dall’ex proprietario, il fantomatico mago, dalla quale estrae due libri e ci spiega com’è nata Ho’oponopono.
«Un giorno che non sapevo cosa fare, tiro fuori questo tomo dalla vetrinetta che si chiama appunto Ho’oponopono, solo che subito dopo mi scappa l’occhio su un altro libro che si intitola Perché quel cretino è più ricco di me?. Li ho messi assieme ed è venuto fuori il testo. È una tecnica semplice, in questo caso, ma succede spesso di incontrare qualcosa durante le giornate che si aggancia a qualcos’altro e ne esce un pezzo».
Con Greta la bambina, ispirata all’attivista per il clima Thunberg, tornate nel campo dell’ambientalismo. Non è solo un inno a lei, quanto una stilettata a chi l’ha criticata senza entrare nel merito delle questioni: “Potevi dirlo tu, potevi dirlo prima. Potevi dirlo tu quello che lei ha detto prima”.
Ritorno a un ricordo di quando ero bambino. Stavo in periferia e, come ti ho spiegato, avevo la passione di andare a cercare animali. Andavo spesso in uno stagno, conoscevo tutti gli insetti, i tritoni e le larve che lo abitavano, seguivo il cambio delle stagioni e cosa comportava. A un certo punto, avrò avuto 10 anni, lo stagno si è atrofizzato ed è morto perché c’era una casa vicino da cui scendeva un rigagnolo d’acqua che scaricava detersivi.
Intanto, la discussione tra Bristot, Masseroni e Floreancig si è spostata sulla reunion dei CCCP, con Paola particolarmente infervorata sull’eterno dilemma se Giovanni Lindo Ferretti e soci siano in buona fede o stiano speculando sulla nostalgia dei fan. Il pittore, appena sente che io e Davide parliamo di “nquinamento, interviene a modo suo: «Come le sigarette elettroniche, chi lo sa se davvero non fanno male? Io mi trovo bene con le Lucky Strike da quando ho fatto una serataccia». Luca, incuriosito, gli chiede come mai. «Il giorno dopo non riuscivo a fumare nessuna sigaretta, finché uno mi ha dato quella e mi sono ripreso. Mi sentivo morire, sai? Quindi se mi hanno fatto bene, perché dovrei lasciarle?».
«Pensa che nel 2010 i Tre Allegri si sono regalati una fantasia. Per anni ci siamo detti di provare ad abitare tutti insieme e quindi abbiamo preso una bellissima casa in mezzo alle vigne di Valvasone, vicino al cimitero di Pasolini, una zona che ha tutta una sua speciale aura mistica friulana. Io però sono rimasto scioccato, era come ritrovarsi dentro una fabbrica con i vari trattamenti che facevano. È lì che è nato il disco, forse il nostro più fortemente ambientalista, Primitivi del futuro. Il problema è sempre uno: il cazzo di capitalismo!».
Dopo aver parlato per ore, mi sembra che tu non ti sia mai davvero spostato tanto da quello stagno che frequentavi da piccolo. Dalla tua adolescenza a quella dell’Occidente, dall’autoproduzione discografica all’equilibrio con la natura, fino alla meraviglia per il mondo animale che anche in questo disco è fortissima in pezzi come Crocchette buone e Torpignattara, tutta basata sul canto di un merlo.
Forse è proprio così. Crocchette buone è dedicata a lei (indica la gatta sul pianerottolo, nda). Una delle avventure più belle per l’essere umano, che come diceva Ungaretti, è l’attenzione per la natura. È il viaggio più intenso. Quando stavo a Roma ho preso casa al Pigneto, un quartiere diventato un bordello. Un giorno nella corte del palazzo mi sono messo a disegnare e vicino a me si è posato un passerotto Occhiocotto. Non ne avevo mai visto uno dal vivo, cosa c’è di più affascinante?