Trent Reznor non è un tipo da Las Vegas. Eppure eccolo qui, Mr. Autodistruzione in persona, vestito di nero come al solito, barba incolta di un giorno alle 11 del mattino, seduto sul divano di pelle di una stanza dell’Hard Rock Hotel & Casino. «Mi piace questa stanza, è scura», dice, bevendo una qualche bibita energetica di colore verde. La stanza è decorata con diversi memorabilia del rock piuttosto pacchiani, e alle pareti ci sono foto di rockstar, da Ozzy Osborne a Marilyn Manson, che fanno il dito medio. «Il rock non è morto», dice secco Reznor. «Anche se il fatto che io stia bevendo un succo verde non aiuta». Pausa comica.
«Anni fa, prima che diventassi sobrio, abbiamo fatto le prove per un tour qui a Las Vegas. Ti fa perdere la cognizione del tempo, non capisci mai se è giorno o notte. Non era proprio la città adatta a me. Adesso non mi dà fastidio stare qui. Non gioco d’azzardo, è uno dei pochi vizi che non ho mai avuto».
I Nine Inch Nails sono qui per fare tre serate e sperimentare il loro nuovo spettacolo lo-fi (un sacco di fumo e luci ridotte al minimo), prima di partire per il tour del loro Ep Bad Witch, terzo capitolo di una trilogia sulla disumanità nell’era di Trump, con chitarre distorte e oscure, un sax malinconico e invettive a denti stretti di Reznor misti a momenti disarmanti in cui canta come un crooner. Mezz’ora di rock&roll rumoroso, complesso ed elaborato. Un nuovo inizio per la band.
Trent Reznor è molto diverso dalla persona che era 30 anni fa. Oggi è sposato, ha quattro figli e compone colonne sonore per il cinema con Atticus Ross. Insieme hanno vinto un Oscar per The Social Network nel 2011. Continua a collaborare al servizio di streaming di Apple anche se, dice: «Molto limitatamente». I tre ultimi Ep dei NIN sono entrati nella Top 30 di Billboard, la band è ancora in grado di suonare da headliner ai festival e di far entrare brani nelle classifiche rock, come hanno fatto con Less Than, un pezzo in stile new-wave.
Reznor è sempre ferocemente critico verso se stesso e ogni tanto inciampa in espressioni tipo «non voglio sembrare presuntoso» o «sto diventando noioso», ma sembra molto sereno. Non è male essere Trent Reznor oggi, quindi perché la sua musica è ancora così piena di rabbia? «Ho un deposito segreto da cui attingo ogni tanto. Ma non mi sento più carico di quella rabbia e dell’istinto autodistruttivo che avevo prima, e ne sono molto contento», ride, «Oggi la mia rabbia è più rivolta verso l’esterno. Quando siamo in studio ogni giorno, io e Atticus facciamo una specie di terapia: ci sfoghiamo e cerchiamo di dare un senso a quello che succede nel mondo attraverso la musica».
Gli ultimi tre album dei NIN affrontano il tema della decadenza della società. Stavi pensando a Trump quando li hai scritti?
La causa non è solo Trump, anche se lui è certamente il prodotto della connessione delle persone attraverso i social media. A quanto pare, più siamo interconnessi tra noi, più il livello del dialogo si abbassa e si arriva rapidamente agli estremi. È un processo di tribalizzazione del potere. Essendo padre, è una cosa che mi preoccupa molto.
Come sono nati questi album?
Originariamente dovevano essere tre sezioni diverse di un album lungo, poi abbiamo pensato di dividerle in tre album più brevi. Ognuno è una riflessione intorno a domande come: “Chi sono? Come posso trovare un posto nel mondo?”
Cosa rappresenta ciascuno dei tre album?
Not the Actual Events dice: “La gente mi vede come un drogato che fa finta di aver trovato la tranquillità. E se invece seguissi le mie fantasie autodistruttive?”. La musica si sposa con questo tema. Il secondo disco, Add Violence invece dice: “Forse non è colpa mia, forse stiamo tutti vivendo in una simulazione”. Inizialmente il terzo disco doveva essere una versione più estrema di questa idea. Quando abbiamo iniziato a lavorarci ci siamo sentiti come se fossimo chiusi in un angolo dal punto di vista creativo, poi il disco si è rivelato a noi. Parla di come il pessimismo abbia ormai preso piede in modo irreversibile: “L’idea stessa di essere rilevanti nel mondo è una fottuta illusione. Siamo solo un errore creato dai nostri stessi strumenti. Siamo animali votati all’autodistruzione, non siamo i fottuti padroni del mondo e del nostro destino. Non siamo simili a Dio. L’illusione definitiva è pensare di esserlo”. Il pezzo più rappresentativo in questo senso è Ahead of Ourselves. Il sax mi ricorda quello di Blackstar di David Bowie. Sapevo che sarebbe stato così, penso a lui tutti i giorni.
Cosa pensi di David Bowie?
Parliamo prima di Anthony Bourdain. Non l’ho mai conosciuto ma era uno di quei personaggi che rendevano il mondo un posto migliore. Era importante che ci fosse là fuori da qualche parte uno come lui, soprattutto in un’epoca come questa. È stata una grande perdita dal punto di vista culturale. Per quanto riguarda David Bowie, lo conoscevo abbastanza, l’ho studiato a lungo e continuo a farlo. La mia sensazione è: “Non è finita, abbiamo ancora bisogno di te”. Era quasi un familiare per me, una di quelle persone a cui sai che puoi affidarti, non necessariamente per un aiuto materiale, ma semplicemente perché sai che hanno sperimentato cosa vuol dire vivere in un’epoca di incertezza. Ci penso spesso.
Tornando indietro a Not the Actual Events, hai detto che in quel periodo la sensazione era quella di essere ancora un drogato e di voler distruggere tutto quello che avevi costruito. È una cosa contro cui lotti ancora oggi?
No. Se ripenso a come ero 20 anni fa mi rendo conto che non ero minimamente attrezzato per gestire la follia della fama. Alcol, droga e tutto il resto sono diventati uno strumento per gestire e hanno anche funzionato per un certo periodo, poi hanno smesso. Ora se passo davanti ad un negozio di alcolici non ho l’istinto di fermarmi. Onestamente non credo che faccia parte del mio DNA. È ancora lì, ma non ho intenzione di metterlo alla prova. Una delle cose buone del percorso di disintossicazione è che richiede un doloroso processo di autoanalisi che non avrei mai fatto se non fossi stato costretto. Non avrei mai scelto di dire: “Ehi, che idea favolosa fare sessioni di terapia per giorni interi!”. Mi ha dato degli strumenti. Mi conosco meglio adesso. Fare un album in cui esamini te stesso è un modo per fare la stessa cosa.
Perché hai cominciato a guardarti indietro e ripercorrere la tua vita in generale?
Ho cercato di riflettere su chi sono e quale può essere il mio posto nel mondo oggi. Non mi riferisco necessariamente a me in quanto artista, il punto è che il mondo mi sembra diventato sempre meno familiare. È una cosa su cui rifletto, e mi è capitato di trovare conforto in cose che sono nostalgiche. Non ho mai voluto guardare al passato in modo troppo romantico, ma non credo ci sia niente di male nel tornare indietro a delle sensazioni che mi fanno stare meglio.
Come si riflette questo nella tua musica?
Non volevo più suonare chitarre distorte, perché mi sembrava una cosa fuori dal tempo, ma poi l’ho fatto per Not the Actual Events ed è stato esaltante. In questo momento siamo in un’epoca contraria al rock e anche se io non faccio le cose solo per reagire contro quello che sta accadendo intorno a me dal punto di vista culturale, penso che una fottuta canzone rock aggressiva sia qualcosa di veramente nuovo in un mondo di stronzate pop.
Nelle vecchie interviste dicevi che lo scopo del rock&roll era fare incazzare le persone.
Sembrava che il suo intento principale fosse rompere gli schemi. Non voglio dire che il rock deve essere necessariamente arrabbiato, ma mi attira il suo spirito di integrità e il fatto che esprima la verità.
Hai detto che ti piace ascoltare i vinili. Dal momento che sei ancora sotto contratto con Apple Music, cosa ne pensi dello streaming?
Credo sia molto bello poter aver accesso alla musica in qualsiasi momento, ma allo stesso tempo penso sia dannoso perché non credo che il pubblico dedichi alla musica il tempo necessario. Io so che i miei gusti musicali si sono formati in un certo modo, proprio perché non avevo accesso a tutta la musica del mondo. Ascoltavo quello che riuscivo a trovare e se compravo un disco che non mi piaceva potevo sceglierne solo alcuni al suo posto. Siccome ci avevo speso dei soldi, dedicavo più tempo ai miei dischi, li studiavo e dopo un po’ li capivo.
Cosa hai imparato dalla tua collaborazione con Apple Music?
È stato interessante ma per molto tempo mi sono sentito un venditore, per esempio mi preoccupavo troppo di cosa potesse piacere al pubblico. Il risultato finale è che ho riscoperto cosa vuol dire essere un artista. Credo che adattarsi alle richieste del pubblico sia tossico. Un conto è capire come vendere i biglietti, ma pensare a come il pubblico vuole che sia la musica è la fine. Ho letto commenti del tipo: “Non è come volevo che fosse. Fa schifo”, oppure “È troppo simile a quello che mi aspettavo. Fa schifo”. È molto pericoloso per un artista. La musica indie oggi sembra costruita in base ai giudizi del pubblico: qual è la musica che tutti vogliono ascoltare? Sembra una ricerca di mercato e non il frutto di un’espressione di sé. Ho parlato con un rapper poco prima che uscisse il suo disco, e gli ho chiesto cosa si aspettava. Continuava a dirmi: “Voglio che sia quello che i fan vogliono da me”. Probabilmente non c’è niente di male, se è questo quello che vuoi, ma per me esiste una differenza tra un intrattenitore e un artista. Ci sono molte popstar che non mi piacciono, ma non mi fanno arrabbiare, li considero degli intrattenitori ma non bisogna confonderli con un artista che sta provando a fare arte senza sapere se intercetterà o meno un mercato e lo dico con presunzione. Se hai un repertorio di canzoni scritte da altri, ti presenti a fare un paio di session di registrazione e un servizio fotografico per la copertina di un album che qualcun altro ha disegnato per te, per me sei un intrattenitore.