Rap e derivati sono classificati come musica giovane e per giovani per eccellenza, ma tendiamo a dimenticarci che esistono rapper ultra-cinquantenni che hanno successo da decenni, ormai. Come i Cypress Hill, che il 13 agosto 2021 festeggiano trent’anni di carriera discografica (lo stesso giorno, nel 1991, veniva pubblicato il loro album di debutto omonimo). I festeggiamenti sono in grande stile: una digital expanded edition di Cypress Hill che conterrà anche le versioni spagnole di hit come Latin Lingo o Pigs, per l’occasione ribattezzata Puerco.
Quando contattiamo Sen Dog – che insieme a B Real e a dj Muggs costituisce il nucleo originale del gruppo – via Zoom, è seduto nel suo home studio, e alle pareti non è rimasto neanche un posticino libero, tanti sono i dischi d’oro e di platino che ha appeso. Per lui, però, le priorità sono altre, tanto che confessa di essere quasi riuscito a godersi il lockdown. «Ne ho approfittato per stare a casa e passare più tempo possibile con la famiglia», racconta. «All’inizio era un po’ strano, perché abbiamo passato anni della nostra vita in tour, perdendoci i compleanni dei nostri cari, i momenti importanti… Ma alla fine, nel delirio generale, devo dire che sono stato bene».
Come ti fa sentire il fatto che siano già passati trent’anni da Cypress Hill?
Mi fa venire le vertigini. Comincio a pensare a tutti i momenti belli, a quelli brutti, agli alti e ai bassi che abbiamo attraversato… A tutte le volte che siamo partiti in tour anche se nessuno in quel momento ne aveva voglia, ad esempio. Ma anche alla prima volta che abbiamo sentito How I Could Just Kill a Man in radio o in un club, al primo disco d’oro e a quello di platino, alla prima volta che ho incontrato i Public Enemy e i Run-D.M.C. a New York. È stato meraviglioso conoscere i miei idoli, siamo amici ancora adesso, e non sarebbe mai successo se non fosse stato per quel primo album. Era un momento speciale per l’hip hop, con l’esplosione di un sacco di nuove realtà e Yo! MTV Raps che dava una cassa di risonanza a tutta la scena. E poi la prima volta che siamo venuti a suonare in Europa, e abbiamo scoperto un mondo: non sapevo neanche come ordinare da un menù, non capivo niente della vostra cucina (ride). Ora sono un vero professionista, conosco i piatti tipici di ogni Paese.
Non hai menzionato i brutti ricordi, però.
Col senno di poi, sono tutti bei ricordi, anche quelli brutti. Magari ai tempi poteva non sembrare così, ma alla fine lo sono diventati. Il primo approccio con i tour non è stato facile. Non ci dispiaceva, intendiamoci, ma soprattutto all’inizio non volevamo essere in giro tutto il tempo. Ero incazzatissimo, salivo sul palco pieno di rabbia e alla fine del live sbattevo il microfono per terra, e i fan, che non avevano idea del fatto che fossi furioso sul serio, andavano in delirio pensando che fosse parte dello show. E io mi incazzavo ancora di più, perché stavo cercando di comunicare tutt’altro sentimento (ride). Ai tempi non riuscivo mai a dormire la notte, e magari avevamo quattro o cinque concerti di fila, spostandoci ogni giorno. Non sapevo che era perfettamente naturale per i musicisti faticare a prendere sonno, tra l’adrenalina e il jet lag: in quel momento detestavo la situazione e basta. Dopo anni di pratica ci prendi la mano e ti abitui alla vita on the road. Ma i primi tour sono stati veramente tosti, soprattutto quelli europei.
Come mai?
La prima volta che arrivammo da voi, la odiai dal profondo del cuore (scoppia a ridere). Era tutto nuovo e diverso per noi: la cultura, il cibo, il rapporto tra bianchi e neri. Perfino la tv ci sembrava stranissima: ai tempi MTV Europe aveva praticamente solo tre video che mandava a ripetizione tutto il giorno, e noi continuavamo a chiederci quando si sarebbero decisi a cambiarli. Quando abbiamo imparato un po’ di più sul contesto, ovviamente, la situazione è cambiata e abbiamo cominciato ad apprezzare molto il vostro continente. Oggi, ovunque io sia nel mondo, mi sento a casa.
Ricordi ancora come avete passato la giornata in cui l’album uscì?
Eravamo a Los Angeles e ci avevano organizzato un release party al Whisky a Go Go. Guidavo verso il locale per il soundcheck con i finestrini abbassati, e dalle altre macchine sentivo un sacco di gente che stava già ascoltando le nostre canzoni, era pazzesco! Arrivati lì, scoprimmo che su ogni tavolo l’etichetta aveva piazzato una scatola piena di copie del disco. Noi ci incazzammo di brutto: «Cosa stanno combinando? Perché stanno sprecando tutti questi dischi? Se regaliamo così tante copie, tutta questa gente non comprerà l’album!». Così andammo tavolo per tavolo e cominciammo a toglierle o a nasconderle (ride). A un certo punto arrivò un discografico che ci spiegò che dovevamo lasciarle lì, perché erano per i giornalisti che dovevano recensire il disco. Non ci era proprio venuto in mente, eravamo davvero ingenui! Per fortuna il live di quella sera andò benissimo.
A proposito, quale fu la vostra reazione alle prime recensioni dell’album?
Beh, non ci furono recensioni negative, perciò la nostra reazione fu ottima. Certo, alcuni criticarono un po’ la nostra fissazione per la cannabis e ci diedero dei rapper pro-droga, ma a parte quello c’era grande entusiasmo: eravamo una novità, avevamo un sound diverso dal solito, perciò hanno scritto tutti cose positive.
In qualche modo, però, la vostra fissazione per la cannabis ha contribuito ad aprire la strada per la normalizzazione del consumo di marijuana, e per la sua legalizzazione in California…
Ci siamo sentiti orgogliosi di avere contribuito ad alzare il livello di consapevolezza sul tema, nel nostro piccolo. Sappiamo che non è successo grazie a noi, ma siamo stati tra i primi ad alzare la voce per i diritti di chi fuma erba. Prima di noi, negli anni ’90 non c’era nessun gruppo che celebrava l’uso della marijuana in maniera così estensiva. Certo, qualche rapper faceva una canzone qua e là sul tema, ma nessuno aveva fondato l’intera poetica di un gruppo su questo, a differenza nostra. Dopo di noi, tanti altri musicisti hanno intrapreso quella strada – dai Black Crowes a Snoop Dogg – ma ci teniamo a ricordarvi che siamo stati i primi a farlo (ride)!
Siete anche stati tra i primi a rappare in spagnolo, nel mercato americano: oggi il latin urban è un fenomeno globale e tra i generi più ascoltati al mondo.
Sicuramente anche lì abbiamo contribuito a sdoganare il concetto del rap in spagnolo, ma non è certo merito nostro se è diventato un mercato così enorme. Sappiamo però di aver aiutato a diffondere la cultura latina, semplicemente facendo ciò che ci veniva naturale fare e collaborando con altri artisti che hanno le nostre stesse origini. Effettivamente negli ultimi anni i sottogeneri latin si sono diffusi tantissimo: negli anni ’90, quando abbiamo iniziato noi, io stesso non avevo mai neanche sentito parlare di quella cosa chiamata reggaeton.
Il rap è cambiato tantissimo, in questi ultimi trent’anni, sia in termini di sound che di valori di riferimento. Lo ascolti ancora e riesci ad apprezzarlo?
Non voglio sembrare un vecchio criticone che non capisce le novità: ascolto ancora rap, soprattutto con i miei figli – i più grandi seguono tantissimo la scena di oggi – ma non mi ci ritrovo granché. Ci sono nuovi artisti che apprezzo e rispetto tantissimo, ma è raro che senta una canzone alla radio o in una playlist e che poi voglia saperne di più. In generale continuo ad ascoltare i classici dell’hip hop, roba che è uscita soprattutto a cavallo degli anni 2000. Quando ho sentito per la prima volta Eminem, ad esempio, ho capito che era un b-boy all’ennesima potenza, che condividevamo la stessa passione e lo stesso fuoco. Quello di oggi lo definisco glam rap, un po’ come il glam rock, perché si basa tutto sulle belle macchine, sui vestiti, sulle belle ragazze che ballano mentre qualcuno schiaffeggia il loro culo. Praticamente, tutta l’apparenza e i lustrini del glam rock degli anni ’80, che già all’epoca non mi piaceva, sono entrati a far parte dell’immaginario dei rapper di oggi (ride). Il rap come forma d’arte si è un po’ perso: la tecnica, il flow, l’incastro delle rime sembrano superflui. Si limitano a mugugnare qualcosa di vagamente melodico.
Il famoso mumble rap (termine dispregiativo con cui molti definiscono il rap odierno, in cui le parole e le rime non vengono scandite bene, nda).
Esatto. Io voglio sentire le rime, i beat, le storie che per decenni hanno tenuto banco nei testi dei miei artisti preferiti e mi hanno aperto un mondo. Voglio vedere una performance live che mi faccia sentire orgoglioso della musica che ascolto. Manca anche la consapevolezza delle proprie parole, non c’è quasi più il rap che parla di argomenti sociali e istruttivi, che aiuta i nostri fratelli e le nostre sorelle a trovare la motivazione per migliorare la loro condizione. I nuovi artisti preferiscono parlare di se stessi, di tutti i soldi che fanno e di tutto il lusso che li circonda. Questo non è l’hip hop che conosco io, la mia generazione si poggia su ben altre basi. Preferisco continuare ad ascoltare Chuck D, o Eric B. & Rakim, o LL Cool J. In quell’età d’oro dell’hip hop sono state forgiate alcune delle rime più belle di sempre, e c’è un motivo.
Pochi gruppi (rap e non) sono durati quanto i Cypress Hill. Qual è il vostro segreto per continuare ancora a fare musica insieme, più di trent’anni dopo?
All’inizio non pensavamo di durare così tanto, pensavamo che il gruppo avrebbe avuto successo per massimo cinque/sei anni. Arrivati a 10 anni dal debutto, ci sembrava pazzesco, e abbiamo cominciato a chiederci quanto ancora avremmo potuto tirare avanti, soprattutto perché ai tempi nessuno poteva prevedere l’effettiva longevità di un gruppo hip hop. Ridevamo sul fatto che, se avessimo retto fino ai 20 anni dei Cypress Hill, saremmo stati i più vecchi in circolazione e nessuno ci avrebbe mai più calcolati. E invece no! Trent’anni dopo, la gente ha ancora voglia di ascoltare quello che abbiamo da dire. Prima che la musica diventasse una carriera, ho fatto molti altri lavori: la guardia giurata, il magazziniere… E così anche B Real e Muggs. Abbiamo imparato che quando trovi un lavoro che ti piace, è bene cercare di tenertelo: e questo è il lavoro migliore in cui potessimo sperare. Perché mai dovremmo voler fare altro?
Come celebrerete questo traguardo?
Abbiamo già un nuovo album pronto, prodotto interamente da Black Milk e in uscita a marzo 2022. Abbiamo fatto una canzone con lui qualche tempo fa, e ci è piaciuto così tanto lavorare insieme che abbiamo deciso di fare un disco intero. In aprile 2022, poi, uscirà anche un documentario sui Cypress Hill, per la regia dell’unico e solo Estevan Oriol. Ci conosce molto bene anche umanamente e ha saputo tirare fuori il meglio da noi. Per il resto saremo in tour per tutta l’estate e il giorno del trentesimo anniversario, il 13 agosto, suoneremo a Los Angeles, esattamente come trent’anni fa. L’unica differenza, immagino, è che stavolta sarà pieno di canne accese e nessuno potrà protestare (ride).