L’appuntamento con Francesco Tricarico è in Viale Pasubio a Milano. Sono in anticipo. Anche lui. Riconoscersi è un attimo. Basta alzare lo sguardo, come ai vecchi tempi, mentre tutti gli altri corrono di fretta a testa bassa chissà dove. Ci tiene a farmi visitare lo spazio espositivo con il quale collabora, ma invece di trovare i suoi quadri, una ragazza mi invita a provare un visore di realtà aumentata che mi proietta in cima a palazzi di una metropoli in bianco e nero per nulla rassicurante. Avvertenza: sotto i piedi c’è il vuoto, quindi è un’esperienza sconsigliata a chi soffre di vertigini. Il “viaggio bidimensionale tra le architetture del dipinto” fa parte delle opere di Fabio Giampietro. Impressionante. Infatti, barcollo. In quel momento sento qualcuno che mi stringe un braccio. È il gallerista Giancarlo Pedrazzini, titolare di Fabbrica Eos, più che un mercante un vero filosofo socratico in grado di snocciolare, tra uno spritz e l’altro, pensieri come “l’artista è l’antenna del sempre”. Torno a barcollare, ma fortunatamente ero già seduto.
Tricarico, mentre accade tutto ciò, sprofonda in uno dei divani bianchi della galleria e sorride sornione, senza nessuna fretta di iniziare l’intervista. Fosse per lui, neanche la farebbe. O gli basterebbe ripetere, come farà più volte, «il disco è bellissimo». Non lo metto in dubbio, però qualcosa bisognerà pur spiegare. Si convince. È così che A Milano non c’è il mare, il singolo con Francesco De Gregori che anticipa l’album, ha funzionato da grimaldello per cercare di scassinare la mente di uno degli artisti più enigmatici del panorama italiano. Cantautore, polistrumentista, disegnatore e pittore, a 48 anni è ancora un visionario interessato a «lasciare una traccia che superi questo periodo caotico» e che scopro aver anticipato di quasi 20 anni il tormentone Carote di Nuela: «ne parlavo già nel 2002 in Stupido Pio Pio». Torna alla carica Pedrazzini, che ci ammonisce: «dovete lavorare al più, al sempre e al vero». Anche Francesco lo guarda perplesso e si decide a rispondere alle mie domande.
Parto da una considerazione: mi sembri più sereno rispetto al passato.
Sì, ultimamente sono sereno e contento dei lavori che porto avanti, affiancato da un team splendido. Sento una tensione creativa molto bella. C’è grande voglia di fare, una energia costruttiva. Ma non è che fossi così chiuso, solo ho un grande autocontrollo. Comunque, non ho mai nascosto quello che sento. Però è vero, adesso è un periodo in cui ho voglia che accadano delle cose.
Dai tempi di Io sono Francesco si è sempre parlato di tuo padre, che è scomparso mentre si trovava in missione come aviatore, quasi per nulla di tua madre. Cosa rappresenta per te?
È una donna molto in gamba. Devo sdebitarmi con lei per avermi comprato un pianoforte a 12 anni. Intelligente e ricca di conflitti, alla quale però devo molto. Con il senno del poi ne riconosco la grandezza. Ma sono argomenti privati, intimi, devo elaborarli. Le scriverò una canzone, per andare a pari con la figura di mio padre. Detto questo, lei era milanese e lui di Gallipoli. La terra e il mare: le differenze, se gestite, sono una risorsa.
Fin dal folgorante esordio, per lo stile sia musicale che personale, mi hai sempre ricordato la figura del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Ti ci rivedi?
Non ci ho mai pensato. Credo che la grandezza di quel piccolo romanzo sia nell’aver saputo raccontare qualcosa di molto profondo in modo molto semplice. Può essere letto su più livelli. Questa è ciò a cui deve tendere ogni opera artistica. Quel che ho sempre cercato è di trasformare un problema in una opportunità, per arrivare all’universale. Non autocelebrare le difficoltà.
Come si conciliano in Tricarico la musica classica, il jazz e il punk? Cioè il diploma in flauto traverso, il primo trio giovanile e la passione adolescenziale che ti ha portato al successo?
Il Conservatorio è servito per avere un rigore, ma poi non volevo fare il concertista. Così mi sono unito a due amici che suonavano jazz, per cercare di fare follie. Sono andato anche a Parigi per un breve periodo. Purtroppo, però, non erano più gli anni ’70. Nei ’90 non era tempo di free jazz, si cercava qualcosa di più classico e io non volevo quello. E così il punk è stato un modo di vedere le cose diversamente. Anche Mozart era punk. Avviene quando le proprie esigenze forzano le regole creando un nuovo linguaggio.
E così è nata Io sono Francesco.
Andavo a registrare le canzoni al Malibù, in Piazza Vetra. Recitavo su delle melodie. Avevo delle buone tracce, come Musica e Gioia, però mancava un pezzo forte per pensare a un disco. E così, se proprio dovevo presentarmi, ho pensato “buongiorno buongiorno, io sono Francesco…”. Un fatto molto personale, ma nel quale si riconobbero in tanti. Persino nell’immagine della scintilla in fondo al mare: era una scena onirica, ma descrivevo i miei compagni di classe che mi confortavano mentre piangevo. Non mi era mai capitato, ero anche un po’ bulletto, ma questa improvvisa vulnerabilità dovuta al tema sul papà che io non avevo li portò a sostenermi. Un gesto molto sentito di compassione.
Hai già raccontato che la maestra ti chiamò dopo il successo della canzone. Ma se fossi tu un maestro, oggi, che tema daresti a scuola?
Ci siamo sentiti una volta e le devo una cena, un giorno capiterà. Prenderei ad esempio Disney che in questo era stato un genio. I suoi personaggi, Topolino o Paperino, infatti non hanno mai un padre. Ci sono gli zii e le zie o i nonni e le nonne. Perché si pose il problema, nel dopoguerra, che tanti bambini potessero non avere un padre. E forse per vendere più giornalini. Ma credo che l’avesse fatto a fin di bene. Per cui gli chiederei di raccontare loro stessi.
Qual è il tuo rapporto con il successo?
Sono contento perché da Io sono Francesco vivo di musica, parole e fantasia. È un privilegio. Sono cosciente di avere una opportunità per portare avanti un percorso di racconto. L’importante è continuare a fare musica, concerti e dipingere. Non che sia disinteressato a successo e soldi, ma l’obiettivo è lasciare una traccia che superi il momento caotico che stiamo vivendo. La profondità rimarrà uguale tra centinaia di anni. Se fossi nato nell’antico Egitto scriverei sui papiri, tanto che ancora oggi cerchiamo di interpretarli.
Cosa ascolti in questo periodo?
Tre cose. Le suite per violoncello di Bach, Imagine di Lennon e l’album Dalla del 1980, in particolare Balla balla ballerino. Oppure i bambini in auto mi fanno sempre ascoltare i Clash di London Calling.
Niente trap?
A volte in radio. Lo trovo un linguaggio dei tempi.
Se un trapper ti chiedesse di collaborare?
Lo farei subito, perché sono un curioso.
In letteratura, invece, cosa ti ha ispirato?
Dalla filosofia ai saggi di matematica. Mi affascina ciò che non capisco, perché lì c’è un mistero. Per questo, cerco di non capire quello che leggo. Oppure Nove racconti di Salinger, mi colpì molto. Ora ho quasi smesso di leggere, perché la vita mi ha sorpreso più di ogni lettura.
Hai finalmente trovato la Vita tranquilla che cantavi nel 2008?
Sì, anche se non ho avuto una vita turbolenta. Erano le situazioni che vedevo intorno a me. Se non sono con i bambini, inizio la giornata realizzando un quadro o una canzone o cercando nuove idee. Faccio progetti, ma sempre con una prassi, perché tutto nasce dall’allenamento. E quando non faccio nulla, continuo a pensare a quello e mi sento in colpa. Ho una ossessione: la mia tranquillità è lasciare un segno. Quando ciò avviene sono in pace, altrimenti no. È una piacevole irrequietezza.
Hai due figli, Sofia e Giulio di 9 e 10 anni. Cosa pensi di avergli insegnato?
Questa è una domanda come quella sulla madre. Non lo dico a te (ride, nda). In senso universale, sono loro a insegnarmi e ho imparato a trasformarmi e cambiare in meglio. Le difficoltà ti portano ad apprezzare e ripetere per tutta la vita ciò che conosci. Loro mi hanno spinto al cambiamento. Le avversità possono essere tante, ma non sono una buona scusa per non fare della propria vita un capolavoro.
Nel frattempo, gli hai spiegato bene che A Milano non c’è il mare. Un singolo che, a sorpresa, hai condiviso con Francesco De Gregori.
C’è stima reciproca. Parlò bene di me su una rivista e mi invitò a un suo concerto dove cantammo Santa Lucia. E così, dopo aver passato la serata insieme, mi propose di aprire il suo tour estivo. È stata una esperienza unica, in posti bellissimi: da Caracalla a Taormina, da Lugano all’Arcimboldi, con gente attenta, appassionata e un De Gregori in formissima. È una soddisfazione poter contare sull’amicizia di un poeta e un grande uomo. Quando gli ho fatto sentire le canzoni del nuovo album gli piacque A Milano non c’è il mare e si è prestato con entusiasmo a questo gioco.
Cosa pensi di aver imparato da lui?
È un precursore. Ha giocato con le parole, la struttura, le immagini, la musica. Un grande cantautore, anche se sarebbe più corretto definirlo compositore e autore. Mi ha colpito la sua consapevolezza e la tranquillità nell’essere De Gregori. È un artista capace di gestire tutti gli aspetti dello spettacolo con disinvoltura. Una maestria che è da esempio. È la ricerca di armonia a lasciare allo spettatore un momento indimenticabile. E il suo è uno spettacolo perfetto.
Veniamo al tuo disco, uscita 2020. Mi hai anticipato che è bellissimo. Cosa puoi aggiungere?
Che è fantastico, davvero meraviglioso.
Sforzandoti un po’ di più?
Ho potuto contare su bravissimi musicisti e una produzione ottima. Il tema portante è quello di partire da una soggettività per andare ad astrarre, puntare all’universale, che possa interessare tutti, come dicevo prima. È tutto suonato con grande cura e con gli strumenti, poche cose sono campionate. Insomma, c’è un suono vivo.
Un disco che pensa già ai concerti?
Sì, non vedo l’ora di tornare su un palco per riprovare quella adrenalina. Sei solo, ma non sei solo. Un luogo protetto dove puoi dire quello che pensi. Sto bene sul palco. Un posto magico in cui tutto avviene al momento ma è necessaria una grande spontaneità seguita da altrettanta professionalità.
Francesco, hai mai fatto una follia nella vita?
(Fa una lunga pausa, nda) Dopo il primo successo ho comprato dei nuovi infissi per la casa. Per non sentire più il traffico, quasi antiproiettile. Ultimamente ho comprato anche dei colori nuovi e bellissimi per dipingere. Perché mi hanno spiegato che “se un colore è meglio… è meglio”.
Hai dedicato una serie di opere ad Andrea Pirlo, un altro loquace. Che vi siete detti?
Siamo rimasti in silenzio (ride, nda). A parte gli scherzi, mi piacerebbe avere la tessera dello stadio, però non vado da 35 anni. Il carrozziere mi parla spesso dell’Inter, credo sia un buon modo per parlare di sé stessi senza parlare di sé stessi. Com’era la canzone una volta. Pirlo è un grande artista.
Cosa ti aspetti dalla pittura, rispetto alla musica?
Un tempo la musica era davanti per priorità nella mia vita, ora la pittura sta prendendo il sopravvento. Mi sento in colpa, infatti cerco di pareggiare il tempo che dedico a entrambe. Ho realizzato dei lavori a quattro mani con Corrado Levi, grande artista e architetto e ne vado molto fiero. Il momento migliore è quando abbiamo suonato insieme, Corrado il violoncello e io il flauto, intorno all’opera.
Qual è il tuo rapporto con il tempo?
Mi sento ringiovanire, come Benjamin Button. D’altronde sono nato vecchio. Ho un buon rapporto con il tempo. Ho fatto cose che sapevo benissimo sarebbero state un disastro, ma senza rimpianti. Il privilegio è di arrivare a raccontare storie che non ti riguardano personalmente. Nel nuovo disco c’è per la prima volta un distacco. Non ho più nulla di soggettivo da esprimere. Per questo sarà più estroverso, o se introverso con grandi aperture.
Sai di aver anticipato il tormentone Carote di Nuela? Nel 2016 in una intervista spiegavi: “Secondo me puoi parlare delle carote e dire ‘mi piacerebbe mangiare le carote’ ma dirlo in un modo che non stai parlando solo di mangiare le carote”.
Ancora prima, scrissi di carote vent’anni fa. Effettivamente sento nelle nuove voci qualcosa di mio, forse hanno ascoltano i dischi. Mi ha stupito quando la giuria di X Factor lo definiva “geniale!”. Nel 2002 le carote sono presenti in Stupido Pio Pio o nel 2013 prendo in esame tutta la Frutta fresca. Ma sai, come si dice, se arrivi troppo prima è come non fossi mai arrivato.
Su quale artista giovane punteresti?
Su di me! Visto che sto ringiovanendo penso di presentarmi a Sanremo Giovani. Sono molto egocentrico. Sto lavorando su me stesso e tendo a non fare complimenti a me, figuriamoci agli altri.
Chiuderò citando Oriana Fallaci quando intervistò Totò. Signor Tricarico, lei è felice?
La felicità la impari. La puoi vedere e cercare di riprodurla. Per esperienza io devo immaginarla. Un giorno ero con lo psichiatra Andreoli e parlando con sua moglie le dissi che non ricordo i sogni. E lei mi rispose: “Le sono mancate delle figure importanti?”. Perché nei primi tre anni di vita, mi spiegò, crei il nucleo di emozioni. Se non hai quelle figure le devi oggettivizzare. A aggiunse: “È fortunato a fare musica e a dipingere, perché almeno trova dove incasellare quelle emozioni”. La felicità c’è, la vedo nei quadri, nelle canzoni, nel futuro.