È nata in Beglio (figlia d’arte) e si è trasferita negli States giovanissima. Trixie Whitley è cresciuta in mezzo a ogni forma d’arte possibile, dai balletti d’avanguardia ai dej set. Ma l’amore per la musica è quella che ha portato avanti con più convinzione.
Arriva in Italia per un’unica data a Milano, il primo dicembre per presentare in acustico Porta Bohemica, il suo secondo full length pubblicato nel 2015. L’abbiamo chiamata mentre stava per prendere l’ennesimo volo verso Oltreoceano.
All’inizio della tua carriera…
Beh, tecnicamente è ancora l’inizio (ride)…
Sì ma hai iniziato molto giovane! Quindi ormai possiamo già dire che hai fatto qualche passo in avanti. Com’è stato il primo approccio alla musica?
Non ho mai pensato che questa potesse essere una carriera vera e propria. Credo che la musica facesse già parte della mia esistenza, prima ancora che parlassi. Il primo modo di comunicazione che ho avuto è stata la musica, sicuramente. Ma non è mai stata una mia scelta precisa. Ho iniziato a girare in tour a 11 anni, con un collettivo d’avanguardia, Les Ballets C de la B. Nel frattempo iniziavo a suonare la batteria. È tutto iniziato molto tempo prima che potessi anche solo pensare: «Hey, che bella carriera che potrei fare!»
Però ti è andata bene, alla fine.
Beh, sono estremamente grata che il mio lavoro sia la cosa più vicina alla mia arte e alla mia passione. Credo che tutti dovrebbero essere in grado di farlo.
Sembra facile, detta così.
Ma non lo è. Serve un grande lavoro, tante persone mi dicono: «Ah, sei stata fortunata», ma non ha niente a che fare con la fortuna. Per me è il più grande matrimonio che ho fatto, devi dedicarci tutto il tempo che hai. Sono sposata con la musica, non è facile! (ride) È proprio come ogni altro matrimonio, c’è cosi tanto amore da dare, ma è difficile da mantenere acceso.
Tutta la tua vita è stata circondata da ogni forma di arte, dalla musica, al cinema, ai dj set… Pensi che la chiave sia essere aperti a tutto, soprattutto oggi?
La cosa principale è di tenere tutti i canali aperti. Per me è impossibile pensare come potrebbe essere la mia vita senza essere stimolata dalle cose: c’è cosi tanto da osservare. Essere un artista è legato al fatto di essere un ricettore e un comunicatore, sei entrambe le cose.
Sei nata in Europa e poi cresciuta negli Stati Uniti. Quale parte ti rappresenta di più nei tuoi lavori?
È una domanda che mi ha tormentata per tutta la vita. Soprattutto adesso, in realtà. Non mi sono mai sentita legata a un Paese nello specifico, non mi sono mai sentita americana, belga o altro. Entro in sintonia con le arti che esprimono. Per dire, credo di essere più legata al mondo europeo per alcune cose, ma ci sono alcuni elementi di quella americana che sono molto affascinanti. L’Europa è una saggia nonna, un po’ scura e cattiva, a volte anche noiosa. L’America è un ragazzino arrogante, metaforicamente parlando. Ma il lato positivo è il suo essere un po’ naif, tiene aperte tutte le possibilità. Dall’altra parte mi sento molto più compresa in Europa.
Come mai?
Perché penso ci sia più spazio per le novità. Le persone sono portate ad aprirsi alla novità, anche nel caso sia sofisticata. Nel mio lavoro ci sono più livelli di lettura, non faccio pop song che parlano di amore e di questi argomenti. È interessante.