Si definiscono una band geolocalizza e quindi i Tropea, in vista del loro primo album dopo sei di attività, non potevano che anticiparlo con un singolo che si intitola Gallipoli. Contiene tutte le loro influenze musicali, che sono tante, vanno dalla scena alternativa italiana agli schizzi pop di Mac DeMarco. E se in questa canzone, che prende spunto dalla cittadina pugliese soltanto come luogo dell’anima, vi sembra di sentire anche l’eco di artisti come Baustelle, Colapesce e Di Martino e Verdena è solamente perché «abbiamo gli stessi ascolti» e in fondo «siamo italiani».
Hanno ragione Pietro Lupo Selvini (voce), Lorenzo Pisoni (basso), Domenico Finizio (chitarra) e Claudio Damiano (batteria), che abbiamo incontrato a un anno da X Factor, perché in fondo non sono altro che un gruppo che si incardina nella migliore tradizione dell’alternative. Se dopo il talent di Sky molti sogni li hanno già realizzati – uno di questi è un featuring contenuto nel disco che stanno per pubblicare, ma è ancora top secret – nel frattempo ci hanno raccontato perché il loro progetto musicale «non dev’essere valutato in termini quantitativi» e che l’unica ansia per i numeri è quella «per il conto in banca».
Come va la vita fuori dai talent?
Pietro: Bene, dai. Abbiamo finito i concerti. Siamo in una fase più tranquilla.
Domenico: La vita dei Tropea è ok e anche quella personale, credo di parlare per tutti.
Veniamo a Gallipoli. È un percorso che prosegue o un nuovo inizio?
Domenico: È in dialogo con quello che abbiamo fatto nell’ultimo anno, come temi trattati e stile musicale. Rispetto al passato, la novità è che rappresenta anche l’inizio di un percorso verso il disco, che in sei anni era l’unica cosa che ancora ci mancava. Era strano che una band come noi, dopo questo periodo insieme, non avesse ancora pubblicato un album.
Un disco oggi è più qualcosa che si pubblica per sé o perché ha un valore sul mercato?
Claudio: Per me, prima di tutto, è importante per noi che non ne avevamo ancora uno. Era il nostro sogno raccogliere tutte le canzoni e dargli un filo unitario. A livello di mercato, chi lo sa. Non facciamo cose a domanda e richiesta del pubblico. Chi lo vuole se lo prende. Non si può sempre rispondere a una domanda del pubblico, anche se il nostro credo lo aspetti.
Vi interessano i trend e le mode, oppure andate per la vostra strada senza curarvene?
Lorenzo: Siamo un progetto, ma prima di tutto persone che si interessano alle mode del momento. Come la tecnologia e le nuove forme di comunicazione. Non a caso un nostro EP Might Delete Later era stato pubblicato su TikTok.
Pietro: Quando i trend ci ispirano e abbiamo qualcosa da dire al riguardo ci buttiamo negli esperimenti, come l’EP per TikTok. Poi non c’è stato molto ritorno…
Claudio: All’epoca no, ma era il 2020. Se l’avessimo fatto adesso sarebbe stato diverso.
Siete arrivati troppo presto.
Claudio: E adesso, come risposta, droppiamo un bel disco. Così imparate a non ascoltarci su TikTok!
Ma Gallipoli è solo un luogo geografico o qualcosa di più?
Domenico: La nostra musica è geolocalizzata. A partire dal nome della band, ma in generale i luoghi ci parlano: dove viviamo, scriviamo, registriamo. Molto spesso, come Tropea, i luoghi non sono quello che geograficamente rappresentano, ma luoghi dell’anima. Così Gallipoli, più che un vissuto reale, diventa il simbolo di una promessa. In questo caso di qualcosa che non si è mai avverato, o solo in parte. Di certo l’ispirazione è partita, come altri brani tipo Cringe inferno, da un flusso di incoscienza, più che coscienza, tra parole e chitarra come se fossero un unico blocco. Era il 2019, all’incirca. Ci sono voluti anni a capirne il senso. Ma rispetto ad altre volte abbiamo voluto rispettare quella prima ispirazione.
Vi hanno definito una band che si ispira ai beat anni ‘60 e che li miscela con il pop anni 2000, ma in questo brano sembrano esserci riverberi anche di Baustelle e Colapesce & Di Martino. Siete anche voi, in qualche modo, dei nipotini di Franco Battiato?
Claudio: Forse Baustelle e Colapesce e Dimartino attingono dalle nostre stesse fonti. Noi cerchiamo di metterci del nostro nel sound e negli arrangiamenti. Ma in fondo siamo italiani.
Ma vi sentite di far parte di una scuola, magari ancora non ben definita, che ha questo sound?
Domenico: Più che scuola un doposcuola, una lezione serale. I Baustelle io li associo a un’epoca da liceo, Colapesce e Dimartino, anche se hanno una carriera lunga, li trovo più recenti. Con questo pezzo, siamo andati a toccare quello che è stato l’alternative italiano. Per cui ci ritrovo gli Afterhours e i Verdena. Tutto quello che precedeva l’it pop. Una volta si chiamavano gli alternativi, poi indie. Ma noi preferiremmo l’etichetta di alternativo.
I Verdena li ho ritrovati nel suono della voce allo stesso livello degli altri strumenti, come se fosse parte di un tutt’uno.
Pietro: L’abbiamo voluta così in fase di mix con il sound engineer Marco Sonzini. Lui è abituato a lavorare in un mondo dove la voce è molto presente, mentre noi gli abbiamo chiesto di abbassarla, di farla stare dentro il sound generale. Non c’è il cantante e poi la band.
Quali sono i riferimenti musicali che vi hanno formato?
Lorenzo: Veniamo tutti da ambienti diversi ma da matrici simili.
Claudio: Dai Pink Floyd…
Lorenzo: Claudio lo dice perché loro li apprezzano, mentre io meno… Comunque la matrice passa dagli anni ’60 ai ’70, ma c’è chi apprezza gli ’80, tenuta insieme dal prog rock. E alla fine troviamo la nostra sintesi nella musica degli anni 2000 con l’esplosione del lo-fi.
La seconda parte del brano è più urlata, quasi uno sfogo.
Pietro: Abbiamo tante influenze e per questo nei nostri brani ci sono diversi momenti, tra i più agitati e i più tranquilli. Un riferimento che forse li racchiude tutti è Mac DeMarco. Poi nei live esce di più la follia. In Gallipoli, effettivamente, convivono tutti questi aspetti.
Qual è il vostro rapporto con i social?
Pietro: Un po’ una via di mezzo. Agli inizi della band li gestivamo volentieri, spontaneamente, e ci piaceva. Con il passare del tempo è più difficile, si sente più il peso. Dobbiamo farlo e non c’è alternativa. Nell’industria musicale difficilmente puoi permetterti di non esserci sui social. Abbiamo un rapporto ambiguo: un po’ ci dà e un po’ ci fa penare.
Claudio: Sono in continua evoluzione. Ci sono linguaggi diversi rispetto a prima. Instagram ormai è una sorta di oblò nella vita delle persone, mentre prima era più facile postare situazioni random estetiche. Mettere tutti e quattro d’accordo non è facile, perché ognuno ha il suo modo di vivere e di pubblicare sui social, ma per ora ce la stiamo facendo.
Avete degli hater?
Claudio: Fortunatamente e purtroppo non tanti…
Pietro: Durante X Factor c’era qualcuno che faceva commenti pesanti.
Claudio: Erano due, che quando abbiamo interpretato un brano dei Verdena ci auguravano la morte. Cioè, non ci hanno criticato per il brano di Vasco Rossi e sui Verdena sono impazziti.
Lorenzo: Quando avremo degli hater fissi vorrà dire che ce l’avremo fatta.
Siccome voglio farvi avere più hater, cosa ne pensate dell’Auto-Tune usato dai trapper?
Pietro: Noi tendenzialmente non lo usiamo, il nostro genere è distante da quel sound. Non condanniamo l’uso dell’Auto-Tune, per la trap è obbligatorio perché è fondata su quello. Se utilizzato in modo artistico, perché no?
Claudio: Ormai è un linguaggio. Se usato per aggiustare l’intonazione, non è come barare. La musica non è una competizione. L’Auto-Tune dobbiamo accettarlo come si fece con la distorsione della chitarra e di altri strumenti. I tempi e le mode cambiano e ci si abitua.
Accettereste di collaborare con un trapper?
Pietro: Dipende da chi è e se la sua musica ci piace o meno. Non è il genere di per sé l’ostacolo, ma sta tutto nell’artista e in quello che esprime.
Lorenzo: Io sono per il vivere e lasciar autotunare.
I numeri degli stream vi hanno mai creato ansia?
Pietro: Più che i numeri degli stream sono quelli del conto in banca. Sul resto non vado in ansia per le prestazioni della nostra musica. Rispetto agli investimenti ha sempre performato oltre le aspettative. Forse con questo disco un po’ più di pensieri ci sono, ma senza esagerare.
Domenico: Il mondo musicale, la vita in cui viviamo ci porta a fare valutazioni di tipo quantitativo piuttosto che qualitativo. Si ragiona in termini performativi in tutti gli ambienti. Questa frustrazione anche nel brano Gallipoli c’è. Ma i Tropea, in questo momento, non sono un progetto da valutare in termini numerici. Sarebbe bello che anche altri aspetti della nostra contemporaneità si liberassero da questa concezione analitica.
Una collaborazione dei sogni ce l’avete?
Claudio: Sono tutti morti!
Pietro: Una ce l’avevamo ed è l’unico featuring che è già nel disco. Ma non possiamo anticiparlo.
Quindi i vostri sogni li avete già realizzati tutti?
Domenico: Abbiamo chiuso collaborazioni di cui siamo molto contenti. Per me già aver duettato con Donatella Rettore è un sogno realizzato.
Lorenzo: Quando ci siamo formati le due influenze principali erano Mac DeMarco e Tame Impala. Tra i due abbiamo un debole per Mac e un giorno ci piacerebbe fare un feat con lui.
Claudio: A me piacerebbe vedere come scrive i pezzi Thom Yorke. Anche se poi non dovessimo collaborare, vorrei stare un giorno con lui per vedere come li concepisce.
C’è un palco che secondo voi rappresenterebbe l’apice per i Tropea?
Pietro: Un po’ di festival li ho in mente, come il Primavera Sound. Ma ovviamente Sanremo è difficile non nominarlo, visto che è uno di quei palchi che ti può far svoltare.
Claudio: Per me un punto di arrivo, che poi è sempre molto relativo, potrebbe essere tra Glastonbury e Coachella. Per ora possiamo anche accontentarci di questi.
Qui intanto il video dell’ultimo singolo dei Tropea, ‘Ti Amerei’, estratto dal disco Serole (uscito a gennaio):