Al borgo marinari non risulta: Tropico Petrella non è piezz’e core. «È un cantante?» – chiede la signora del Barcadero Cafè – «e che canta?». «Ha presente la canzone che ha vinto Sanremo?». «Ah. L’ha scritta lui? Allora lo cerco su Google e poi me lo studio». Un grido da dietro: «Ooooh! Se serve una tikkettokke giovane tenetemi presente», dalle quinte la biondona, una settantina di primavere surfate via in scioltezza, improvvisa un mulinello di avambracci, le terga rigorosamente ancorate alla sedia, sorriso da immune alla vita. «E quindi?» – tre ottave sotto – «ve posso servì?». Quando al tavolo non capisci chi è il pollo, il pollo sei tu.
«L’ha scritta lui?» è la domanda dell’esistenza di Davide Petrella. Quando riesci a riunire in una domanda tutto ciò che serve a rispondere agli occhiuti e a scacciare gli scettici, sai di essere a buon punto per risparmiarti il viaggio di mezz’età in India. Petrella la domanda ce l’ha già, a 38, buon per lui. Quindi va così: «L’ha scritta lui?». Risposta positiva con buona frequenza, gli uni e gli altri soddisfatti. E, soprattutto, neutralizzati. Anche a casa hanno fatto ricorso alla Domanda. Mica facile capire, l’autore, mmm. L’autore come figlio è un atto di fede. È un po’ come quegli “aveva tutti trenta” del laureando farlocco e poi “non ce n’eravamo mai accorti, studiava tanto”.
Dice Petrella: «In famiglia hanno iniziato a capirlo con le cose più nazional popolari. Quelli più allenati alla musica l’avevano forse già capito. Gli altri alla terza volta che venivo citato prima dell’esecuzione dei pezzi di Sanremo in diretta: “Ah cazzo, allora lo fa veramente!” (l’Italia in mezza riga: lo sai tu e lo so io, che qualcuno ora lo confermi). Una volta scrissi un pezzo per la Nannini… lì ho scollinato. Codificandola plebiscitariamente come “artista importante”, la conseguenza è stata “se scrive per lei è bravo”». Convinti ma non paghi perché da quel momento è stato monocolore della Domanda: «Questa l’hai scritta tu?». «A ogni canzone, al bar, all’aeroporto, in radio, alla radio della macchina a fianco. E se capitava che l’avessi scritta io, bene. Ma poi ripartiva. Un giorno un mio zio me la fa a bruciapelo. Non stavo ascoltando ma scatto sull’attenti. Era Jerusalema, hit sudafricana. Ho dovuto ammettere che no, per l’Africa c’era ancora da lavorare».
Ma la Domanda non va fraintesa. La Domanda non è affondo inquisitorio. La Domanda è incredulità e bisogno di stabilità. Il numero di canzoni firmate da Petrella, parliamo di canzoni di successo, di hit, è praticamente sterminato. Per la lista completa si consulti Wikipedia, unico caso in cui la quarta voce di una bio, “Autore per altri artisti”, decuplica in rigaggio le voci precedenti, teoricamente quelle che dicono spiegano eccetera. Dapprima per Cremonini – che l’ha scoperto, onore all’orecchio di Cesare – e poi per chiunque abbia un microfono in mano oggi in Italia: Elisa, Marra, Fibra, Elodie, Guè, Blanco, Rkomi, Mahmood, Mengoni eccetera eccetera eccetera. Tutti. «È l’unico che può scrivere per tutti gli interpreti e per tutti i generi» – è la sintesi del suo editore estatico – «non esiste in Italia un altro Petrella».
Foto: Ciro Pipoli per Rolling Stone Italia
«Sono il numero uno», flexa all’improvviso. Poi alterna un più crepuscolare: «Se posso considerarmi nel gotha di questo lavoro…». Ma non ci crede. La verità è che per quanto la boria non si porti in pubblico, ha ragione. È pura analisi. Ma la verità contiene un asterisco. Petrella è bravo, altri sono bravi (Marz/Zef, Abbate, Dardust, i nomi li conoscete) ma il resto del peloton è piuttosto scarso. Se qualcuno perdesse il lavoro oggi gli consiglierei primariamente di tentare due strade: l’autore di canzoni pop italiane e il dog-sitter. Terzo il giornalista sportivo, anche lì pipa in bocca.
Per questo, che non è uno scherzo, lo stato qualitativo della musica italiana non è uno scherzo, uno così non si discute, si sostiene. Petrella vorrebbe parlare sempre e solo di musica. All’offerta del fianco compassionevole non cede: «Vieni da Napoli, vieni da una zona difficile di Napoli, non deve essere stato semplice», risponde «a 7 anni sapevo che avrei scritto canzoni per tutta la vita». «Dubbi?». «No mai, la musica è il mio gioco. Trovane un altro pronto a sacrificare qualunque cosa per la musica. E sarà sempre così, fino a 80 anni. Per me non cambia niente, non importa quanti anni hai, non importa se sei un ragazzino di 18 anni che ha avuto successo perché ti è capitato un pezzo. Stiamo giocando lo stesso sport e ti devo schiantare. Dobbiamo vedere chi è più bravo a scrivere la canzone. Che tu abbia 18, 25 o 40 anni si parte da zero a zero e io voglio vincere. Mi resta questo spirito di sana competizione… la cazzimma napoletana… io sono proprio innamorato delle canzoni».
Foto: Ciro Pipoli per Rolling Stone Italia
E dunque Tropico. Tropico è Petrella quando scrive e canta le sue cose. E Tropico è anche sintesi e motivazione di questa copertina: Chiamami Quando La Magia Finisce, uscito ieri, è di gran lunga il disco pop italiano dell’anno. E dell’anno scorso. E probabilmente del prossimo, sempre che Tropico non ne scriva un altro prima. Per ballare di architettura sapete di poter contare sempre su di noi; ma io mollerei il pezzo per andare a sentire. Vi piacerà? Domanda inutile. Il pop piace se fila tutto liscio. Il pop fatto bene non ti svolta la vita, non ti consola, non ti dà risposte. Non ti fa pensare. Non ti dice cosa fare. Quando è fatto male invece, vale a dire quasi sempre, è una xylella con i suoni sotto. Il pop è anche storiografia della modernità: per capire chi siamo – come mucchio, come unità – Madonna spiega più di Morrissey, le Spice stracciano Reznor, i Coldplay oscurano chiunque altro. I Nirvana hanno per un momento indossato entrambe le casacche. E sono schiantati. Accogliendoli a braccia aperte il pop ha dimostrato la sua invulnerabilità. Perché il pop non può perdere. La deriva politica pop? Non esiste nessuna deriva, il voto oscilla impazzito perché il voto è pop.
Quindi scrivere canzoni pop è complicato perché la linea di frattura non è belle canzoni contro brutte canzoni. È canzoni giuste contro canzoni sbagliate. Pare riduttivo ma è così. E Petrella in qualche modo ce lo spiega: «Per questo disco ho scritto tantissimo. Parliamo di 50 canzoni almeno. O sessanta. Il tutto per arrivare a sceglierne 14. Diciamo che altre tre o quattro le tengo per il repack, perché sono coerenti con il progetto in una visione più ampia. Le altre le butto tutte via. Le butto perché se non ce l’hai fatta, stronza, non ce l’hai fatta… e il mio editore sono anni che mi dice “ma fammele sentire che magari io le piazzo sai”, con la bava alla bocca. Ma no, non gliele faccio sentire perché non ha senso. Sono cose che ho scritto per il mio disco, non darei mai una cosa che parla dei cazzi miei a un altro. Scriviamo un’altra roba, siamo qui per questo».
La presentazione di Chiamami Quando La Magia Finisce è su una barca, una sorta di traghettino, piazzato in mezzo al Golfo. Lady Adriana. Si beve e si cena. Cucina Mimì alla Ferrovia, non esiste di meglio a Napoli. Castel dell’Ovo da un lato, il Vesuvio dall’altro, tutta la parafernalia in mezzo. Nel disco compare il napoletano in forma canzone, ci sono momenti da Murolo, altri sembrano già classici della canzone partenopea, ma non lo sono. Dice di averci messo 10 anni per sentirsi sicuro di scrivere in napoletano: «Il napoletano è a tutti gli effetti una lingua. È una lingua per giunta complessa. Non riesco a pensarlo come un dialetto e dato che il napoletano ha la fortuna di avere le parole tronche spesso e volentieri tendi ad accontentarti del suono. Cioè fondamentalmente non hai detto un cazzo ma siccome suona bene ti accontenti». Tropico però non si accontenta. «No, per questo ci ho messo un po’, sono entrato nel napoletano in punta di piedi, rispettandolo. La mia lingua è il napoletano, è casa mia Napoli, quindi prima di fare una cosa così roots dovevo essere sicuro di poterla fare bene. La cosa difficile del napoletano è inserire l’immaginario, la vita vissuta e le immagini che la città ti regala quotidianamente».
Foto: Ciro Pipoli per Rolling Stone Italia
I numeri di Tropico non giustificherebbero una copertina di Rolling Stone, lo sa perfettamente anche lui. Ma i numeri sono fuorvianti. I numeri spesso nascondono il problema. C’è chi pensa che non ci sia nessun problema, produrre la musica che le persone vogliono sentire non può essere in fondo un errore. È un’obiezione sensata a cui è meglio non credere. L’abbiamo visto milioni di volte: dopo il boom la grande crisi, dopo la partecipazione il riflusso, dopo Cavour Giuseppi. Dietro alla sbornia si nasconde sempre l’insidia. È il boomer che parla? È il boomer e il suo timpano, sì. La musica italiana ha un disperato bisogno di diversità. Di ricchezza, di respiro. Tropico il suo mattone lo porta a destinazione. Per il tour prevede una decina di elementi sul palco. I pezzi saranno interamente riarrangiati. «La canzone deve essere diversa dall’album. La musica deve essere viva. Non ti faccio la replica del disco, per quello apri Spotify, che vieni a fare a sentirmi?». Bene così. Intanto Spotify apritelo per davvero, è un buon momento per farlo.
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Foto: Ciro Pipoli
Art Director: Alex Calcatelli per LeftLoft
RS Producer: Maria Rosaria Cautilli
Photo Assistant: Federica Pone
Photo Producer: Anaïs Isabelle
Si ringrazia per la preziosa collaborazione Suonivisioni e Ufficio K