Se gli chiedi qual è il suo punto di forza a livello tecnico, ti risponde «una grande anima». E stiamo parlando di uno dei batteristi che hanno fatto la storia della musica italiana. Neanche a insistere scende nel pratico. Al massimo confessa di metterci anche «il cuore e il sorriso, sono elementi che insieme formano il groove».
Che sia questo, in fondo, il suo segreto? A giudicare dai risultati, che per essere elencati tutti servirebbe un’enciclopedia, come si può dargli torto? Anche perché Tullio De Piscopo non è soltanto un batterista. Se fosse necessario ricordarlo, lo dimostra il fatto che 40 anni dopo Stop bajon è ancora un punto di riferimento per molti musicisti in giro per il mondo. Così stavolta, per celebrare la ricorrenza (il disco che lo conteneva, Acqua e viento, è del 1984), ha deciso di tornare a suonare dal vivo perché «ho bisogno della gente». Nel frattempo, a causa di un tumore al fegato, ha rischiato di non essere più fra noi. Gli avevano dato sei mesi di vita, sono passati 12 anni e appena lo sentiamo per farci spiegare del nuovo lavoro su quell’evergreen e del concerto che l’11 luglio terrà al Castello Sforzesco di Milano, ci inchioda: «Quando suono sto sempre bene».
Anima, cuore, sorriso e quel groove che è addirittura terapeutico. Ci ha raccontato tutto questo e molto altro. Da quanto gli manca Pino Daniele, il suo «fratello in blues», al miracolo di San Gennaro che li fece esibire di fronte a 200 mila persone a Piazza Plebiscito a Napoli. Di Lucio Dalla che alle Tremiti lo portava sul promontorio ad ascoltare il “pianto” degli uccelli (che registrò e inserì in una canzone). Dei tanti no che ha rivolto all’industria discografica per non diventare «un burattino senza fili». Del consiglio che rivolge a Geolier: «Statt’accuort». E ancora di come ha «stanato» la malattia, di quel fratello batterista talentuoso scomparso troppo presto, ma che ha sempre sentito al suo fianco e di quella volta che, per davvero, ha rischiato di morire. Ma dal ridere.
Tullio, intanto come stai?
Quando suono sto sempre bene.
Infatti l’11 luglio torni live per una data speciale al Castello Sforzesco di Milano per celebrare i 40 anni di Stop bajon. Cosa ti spinge ancora a esibirti dal vivo?
Che io ho bisogno del pubblico. Ecco perché non faccio più dischi, non mi interessano. Ho bisogno di stare con la gente, del loro applauso. Non voglio avere l’adrenalina farmaceutica, voglio quella che c’è poco prima di salire sul palco. Quando non ci sarà più quella, ciao!
È cambiata nel tempo o rimane sempre uguale?
Ti assicuro che è la stessa che ho condiviso con Pino Daniele, con le stesse emozioni di quando partimmo col primo tour di Vai mo’ nel 1981. Una adrenalina pazzesca che provammo il 19 settembre del 1981 a Napoli in Piazza Plebiscito quando ci esibimmo di fronte a 200 mila persone nel giorno di San Gennaro, che ci fece il miracolo. Pensa te che partenza abbiamo fatto. Non ce lo aspettavamo. Anche perché, chi poteva prevederlo?
Secondo te che cosa portò tanta gente a quel concerto?
Fu un momento magico. C’erano i musicisti giusti, era il giorno giusto, l’anno giusto. Eravamo in perfetta simbiosi. Per questo lo chiamavano il Supergruppo. Io ho portato la mia esperienza, il jazz nel blues di Pino. Ma il jazz delle mie origini, con la personalità dello scugnizzo Tullio. Non solo l’Italia, ma nel mondo si sono accorti tutti di questa nuova onda.
Grande musica che in più poteva contare su una lingua internazionale come il napoletano.
Il grande Ray Brown, contrabbassista fenomenale, mi parlava in napoletano e non in italiano. A Brooklyn aveva un vicino di casa napoletano e l’aveva imparato da lui. Pazzesco, no?
Pazzesco come Stop bajon suoni ancora oggi modernissimo.
Questo pezzo è incredibile, non muore mai. C’è sempre qualcuno che fa qualche rivisitazione. È partito tutto dal dj inglese Ashley Beedle, che andò in vacanza alle Canarie dove mettevano questo pezzo tre-quattro volte a sera in discoteca. Se ne innamorò, comprò il disco e iniziò a metterlo in radio facendolo arrivare nella classifica inglese. Tanto che iniziarono a chiamarmi Mister Primavera. In napoletano Primmavera, con due emme. Da lì sono partite le versioni di Parcels Band, Thomas Bangalter, Bob Sinclair, Gaspard Augé e Michael Gray due anni fa. Continuano a portare avanti quel mondo sonoro.
Adesso, però, il remix l’hai fatto tu.
Proprio io, l’autore ed esecutore, insieme a Pino. L’ho fatto pensando ai giovani, ci ho messo la stessa energia di allora. Infatti quando lo senti non puoi stare fermo. Cominci con il piedino, poi con la spalla e alla fine ti alzi e balli.
Il bajon è un ritmo che hai scoperto da giovanissimo grazie a tuo padre, vero?
Da bambino ascoltavo la radio e c’era solo un programma della Rai, Ballate con noi, erano gli anni ’50, che aveva un ritmo sinuoso e affascinante. Mio padre mi spiegò che si chiamava bajon. Me lo fece vedere sulla batteria, ma io lo trasformai alla mia maniera.
Cioè?
Seguendo i vicoli di Napoli.
Com’è nato invece il disco che lo contiene, Acqua e viento?
Nel 1983 tornammo da un tour europeo, in quel periodo abitavo sopra i Bagaria Studio di Pino in un appartamento che fece costruire per me e gli ospiti che venivano a suonare. Ma finito il tour gli dissi che doveva lasciarlo per andare a Milano a fare un disco. E lui rispose: «Ah mamma mì, e come faccio? Devo consegnare un disco alla Curci, sono sotto contratto». Così provammo a chiedere la liberatoria. Io tra me e me dissi: figurati se ce la danno. Invece ce la accettarono. Portai i miei provini, con quel ritmo magico che conosciamo. La presunzione di chiamarlo Stop bajon era semplice: basta con il bajon di prima, beccatevi questo!
«I gestori chiedono ai giovani musicisti prima di ingaggiarli quanta gente possono portare nel locale. E che siamo, un ufficio di collocamento?»
A livello tecnico cosa pensi di aver portato nella batteria?
Una grande anima. Il cuore, con la sua pulsazione. Oltre al sorriso. Sai, ci sono musicisti che non sorridono mai. Tutto va a formare un groove personalissimo. Ma è così bello suonare, è la vita, come fai a non essere contento di farlo? E fatelo un sorriso quando suonate!
Non c’è esibizione dove la soddisfazione di suonare non ti si legga in faccia.
Sai a quante persone ho fatto compagnia? Il bello è che quando mi vedevano i bambini in televisione poi dicevano alle mamme: «Io voglio fare il batterista». In tanti sono diventati dei grandi professionisti, altri davvero bravissimi.
In quel disco c’era anche Lucio Dalla al clarinetto.
Che bei ricordi. Io e Pino, con gli occhi pieni di speranza, prendemmo la “pizza”, il nastro sotto braccio e andammo a Bologna per far registrare il clarinetto a Lucio. E lui ci regalò una esecuzione straordinaria.
Altro artista che sembrava godere del suo essere musicista.
Siamo stati in vacanza assieme alle Tremiti facendo belle escursioni in barca. C’era una bella amicizia. Lucio raccontava un sacco di aneddoti. Ma sai dove mi ha portato una sera?
Dove?
A mezzanotte a me, la mia famiglia e Pino ci portò sul promontorio per sentire le diomedee. Degli uccelli che la notte piangevano come dei bambini. Io registrai quel momento e inserii quel “pianto” in un brano dedicato alle Tremiti.
Insomma, va bene stare in studio, ma bisogna anche ascoltare quel che ci circonda?
Ma certo, soprattutto è importante suonare. Suonare assieme. Fare dischi in diretta negli studi. È straordinario e noi abbiamo avuto quella fortuna. Addirittura con le grandi orchestre. A volte mancava solo il cantante e il disco era pronto. E poi sai, a me questa storia della chiavetta non piace.
Passarsi i file registrati e lavorarci singolarmente…
Appena parli con un musicista ti dice: «Ti passo la chiavetta». Ma quale chiavetta? La perdo! Come metto una batteria in coppa alla chiavetta? È ridicolo.
I Måneskin, suonando assieme e partendo dalla strada si sono presi il mondo.
Esatto! Loro sono un grande esempio da seguire. Prima di venire fuori suonavano tutti i giorni in cantina, nei localini e per strada. Suonavano continuamente.
Cosa ne pensi del loro groove?
Non posso parlarne male di gente che fa musica, bella o brutta, che però suona insieme in quel modo. E poi quel successo lì fa bene anche ad altri giovani made in Italy. Ben vengano. I giovani non trovano facilmente luoghi in cui esibirsi. Addirittura i gestori di locali gli chiedono quanta gente gli potranno portare prima di ingaggiarli. E che siamo, un ufficio di collocamento?
Nel 2025 saranno dieci anni senza Pino Daniele. Quanto ti manca?
Devo essere sincero? Ieri sera ero proprio distrutto. Sai, ci sono quei momenti no. Io sono sempre positivo, però quando tutti vanno a letto e resti da solo il peso dei ricordi si fa sentire. Così sono andato davanti alla sua foto, l’ho salutato e gli ho detto «mi manchi». Eravamo in perfetta sintonia. Anche quando non ci vedevamo ci sentivamo sempre. Ci raccontavamo la giornata. Noi ce ne andremo via ma il tempo resterà, diceva Pino.
Tu per lui ci sei stato fino all’ultimo, quel 22 dicembre 2014 al Forum di Assago.
Prima di quel tour siamo stati in tournée in tutto il mondo. Ricordo a San Francisco al festival del jazz, che si svolge in un teatro bellissimo e dove hanno i camerini dedicati ai grandi artisti come Miles Davis o Dizzy Gillespie. Allora quando andammo nei camerini noi, dopo il soundcheck, dissi a Pino: «Ma ’o camerino tuo ando sta?». Scoppiammo a ridere. Poi siamo rimasti insieme fino all’ultimo, con grande energia. I viaggi erano pesanti, però c’era una enorme passione che ci animava. Alla fine ce l’abbiamo fatta.
Tornando a Stop bajon, è un brano passato alla storia come il primo rap napoletano-italiano. Una lingua che supera ancora qualsiasi ostacolo, come dimostra ultimamente Geolier.
Lui sta avendo veramente un successo pazzesco, con tre concerti di fila allo stadio Maradona. È una realtà. Io gli consiglierei: statt’accuort! Stai attento. Rimani con i piedi per terra. Si fa presto a diventare famosi, il difficile è rimanere. Non è detto che devi per forza vendere milioni di copie. Ma restare lì sì, perché è quello che ti piace fare. Lo consiglio a Geolier, ma anche a tutti gli altri giovani: non vi montate la testa. Perché non dobbiamo diventare, mi ci metto anch’io in mezzo perché ci sono passato, dei burattini senza fili.
«Noi musicisti non dobbiamo diventare burattini senza fili»
Tu hai detto spesso dei no per non diventare un burattino senza fili. Ce ne ricordi qualcuno?
Dopo il famoso anno 1988 di Sanremo di Andamento lento. Un successo pazzesco. Io non ci credevo, infatti ho fatto arrivare la mia famiglia dopo la prima esibizione. Un sabato decidiamo di andare a pranzo sul lungomare e quando arriviamo mi assaltano più di 2000 persone. Tanto che ho perso addirittura la famiglia e mi ha dovuto riportare in albergo la polizia. Le mie figlie erano preoccupate, ma io le ho rassicurate: «Va bene così, questo è il successo per tutto quello che ho fatto fino ad ora».
È in quel momento che hai iniziato a dire i primi no?
Esatto. Tornato a Milano mi sono rimesso a insegnare, come faccio da 50 anni. Ma la casa discografica e i produttori, visto il successo di Andamento lento, volevano farmi abbandonare la scuola di musica per diventare un ragazzo da manovrare. «Ti viene a prendere l’autista», mi dicevano. Ma quale autista? Io vado da solo, rispondevo. Un’altra volta, con una delle case discografiche più importanti al mondo, continuavo a chiamare e mi rispondevano sempre che erano in riunione. Così ho scritto una lettera e me ne sono andato. E avevo ancora un garantito molto alto. Ho ricominciato da capo, ma ero libero. E da quel momento non ho più dovuto chiamare nessuno sentendomi rispondere che era in riunione. E poi i concerti…
Hai rifiutato dei concerti importanti?
Al contrario, i manager mi tenevano: «Non salire sul palco, non ti hanno ancora pagato». E io salivo lo stesso per rispetto del pubblico. Sono fatti miei se non mi hanno pagato, il pubblico cosa c’entra? La gente viene lì per te, quindi è stupendo. Non puoi farli aspettare.
Tu che insegni da moltissimi anni, che ne pensi di Alex Britti che ha dichiarato di non aver voluto studiare la musica per non perdere l’istinto?
Ai giovani do la mia esperienza e loro mi restituiscono molto. Mi tengono aggiornato. E i loro occhi pieni di speranza sono anche pieni di musica. Ne approfitto per ricordare che il 17 settembre sono in programma le audizioni per accedere al corso di batteria della NAM di Milano, dove insegno. Per rispondere ad Alex Britti, certamente è importante l’istinto, ma lo studio non è da meno. È necessario conoscere sempre di più il tuo strumento, perché ci sono segreti che non finisci mai di scoprire. Ma ancor di più abbiamo la fortuna di avere una lingua universale, uguale in tutto il mondo, che è il pentagramma. Meglio conoscere la musica.
Musica che non mancherà l’11 luglio al Castello Sforzesco per il tuo concerto.
Manco da Milano da parecchio tempo, anche per questo è una data speciale. Negli anni ’70 ho girato al Castello Sforzesco un documentario mentre cercavo casa e dissi: «Qui andrebbe bene, ma chissà quanto costa di riscaldamento». Comunque il concerto sarà un viaggio dentro la mia storia musicale attraverso i ritmi, la batteria e le mie canzoni. E i 40 anni di Stop bajon.
Un viaggio che ha rischiato di interrompersi a causa di una malattia, un tumore al fegato che quando è stato scoperto sembrava lasciarti soltanto sei mesi di vita. Hai raccontato persino di aver pensato all’eutanasia in Svizzera. Come ne sei uscito?
Una cosa tremenda, non so neanche io come ho fatto. Avevo 66 anni, mi dicevo che bello che adesso mi godo i miei nipotini, e invece mi arriva una sentenza così… Ho ripensato a tutte le realtà impegnate nella lotta ai tumori con cui ho collaborato e non mi veniva in mente nessuno a cui rivolgermi. Era bloccato. Poi mi sono detto: devo stanarlo. E così, piano piano, mi sono ripreso.
Grazie all’aiuto dei medici?
Sì, ma se ti devo dire come hanno fatto non ne ho idea. Mi sono rivolto al cielo. Non sono andato di fretta, ho atteso la persona giusta che a un certo punto è arrivata. Mi ha aiutato a capire dove rivolgermi, che è il vero problema. Però questo devo dirlo: la prevenzione è la base di tutto. Non abbiate paura di una puntura. È solo un pizzico. Fatela una volta l’anno.
C’è un altro dramma nella tua vita, che hai sempre coperto con il sorriso, che è la morte prematura di tuo fratello maggiore Romeo nel 1957. Anche lui musicista, a causa di un malore un giorno si accascia sulla batteria e viene a mancare. Si può dire che tutto quello che hai realizzato nella tua carriera lo hai fatto anche per riscattare lui?
Solo per lui! Tutto quello che ho fatto l’ho fatto pensando a lui. Io ero bambino, non ci sono registrazioni, però quelli che lo hanno conosciuto mi hanno assicurato che era il più grande batterista che avessero mai sentito. Aveva 21 anni, io ne avevo 10 e sono cresciuto con questa tristezza dentro e pensando a lui tutti i giorni. Ho iniziato presto a lavorare proprio perché la famiglia aveva bisogno, da allora mi sono rivolto costantemente a mio fratello Romeo. Anzi, a volte mentre mi esibivo ho sentito chiaramente che era con me. Quando ho suonato le sinfonie con la batteria, per esempio, ho rivisto delle registrazioni e pensato: come ho fatto a suonarle? Sono sicuro che ci fosse anche lui. Era impossibile suonare in quel modo da solo.
Chiudiamo con un sorriso, altro tuo marchio di fabbrica. Qual è la cosa che ti fa più ridere?
A me fanno ridere tante cose, ma la volta in cui non riuscivo più a fermarmi è stata quando sono andato all’inaugurazione di un negozio di scarpe. Sono uscito per fumare una sigaretta e mi si è avvicinato un signore: «Scusa Tullio, faresti un saluto come sai fare tu per il mio nipotino?». E io naturalmente ho accettato inscenando un po’ di scat. Quando ho finito lui dice: «Ma vai a cagare, chi ti credi di essere?». E se ne va. Resto di sasso. Poi scoppio a ridere, ma senza sosta. Era una candid camera del programma Le Iene, avevano nascosto le telecamere e mi avevano fatto lo scherzo. Solo che quando sono tornati indietro per avvisarmi continuavo a ridere e i tecnici pensavano stessi male. Insomma, stavo morendo dalle risate.