Fare un’intervista il giorno dopo l’annuncio del risultato di una delle campagne elettorali più tristi della nostra storia recente ti mette nella condizione che, ogni volta che senti la parola fiducia, la mente ti porta agli scenari più assurdi. È lo stesso Federico Dragogna a farmi ragionare sul fatto che nessuno dei candidati in corsa per Montecitorio abbia avuto il coraggio di dire “fidatevi” – così si chiama il nuovo album dei Ministri – come a ribadire che anche il più pulito ha la rogna. «In pochi si vogliono prendere quel rischio. Vuol dire affidarsi all’inaffidabile. Fidatevi è sia una richiesta che una speranza».
La title track si ispira alla storia vera di una ragazza che ha lasciato un contratto a tempo indeterminato nella moda per assistere i detenuti in carcere, lavoro per cui aveva studiato e che ha sempre voluto fare ma che, una volta trasferitasi a Milano e con un affitto da pagare, non si era mai potuta permettere; quel “fidatevi” nel ritornello è un’esortazione verso i propri genitori prima di lanciarsi nel vuoto. La famiglia c’entra parecchio con queste canzoni: «Il disco è nato durante un crollo, da figli siamo diventati uomini. A un certo punto eravamo noi a dover accudire i nostri genitori ed eravamo del tutto impreparati. Parallelamente ci siamo presi un grosso remo in faccia da una persona che, dopo anni di atteggiamenti adolescenziali tipici dei gruppi rock, ci ha mandato a fare in culo. Tutti i musicisti non reagiscono bene agli abbandoni, ma ti assicuro che non pensavo potesse avere questa potenza. Grazie a Dio, faccio un lavoro dove queste cose posso trasformarle in canzoni (Ride)».
Che fortuna, dico. Mi risponde che aveva materiale talmente pesante che avrebbe potuto far uscire un doppio album. Nonostante l’elegante produzione di Taketo Gohara, Fidatevi è un disco duro, triste e rabbioso. E oggi che la rabbia è diventata il nuovo petrolio, fa la fortuna dei partiti e delle Tv, la grande domanda è: si può cantare il proprio disprezzo senza diventare indignati come il peggiore pubblico di Quinta Colonna? «La rabbia, che una volta era l’espressione delle controculture, è diventata il linguaggio degli adulti. È sconfortante. Quando fai canzoni, poi, il pericolo di scadere nella retorica è altissimo. Uno dei modi per scardinare il problema è confidare in quello che Carrère chiamava “il criterio dell’imbarazzo”: nelle canzoni arrivo a confidare pensieri intimi, per esempio che la mia libido è un’azienda come le altre o che anni fa dovevi legarmi per farmi godere più in fretta. Credo sia l’unico metodo per essere veri di fronte a chi ci ascolta».
Gli faccio notare che forse ce ne sono anche di meno dolorosi, ma risponde che bisogna prendersi le proprie responsabilità nei confronti del pubblico: «Ci è permesso di fare i musicisti, avere i cocktail gratis e suonare la chitarra come compito più importante della giornata? Allora per lo meno affrontiamo quello che abbiamo dentro, in un modo che anche altri lo possano capire. Parlare del qui e ora della politica, dell’attualità o della gente che si insulta su Facebook, sono cose poco interessanti».
Ah già, gli insulti. Quando i Ministri stavano registrando, nello studio a fianco c’era Emma Marrone. Durante una pausa, hanno deciso di fare un selfie insieme. I fan non l’hanno presa benissimo: «Non puoi capire le reazioni della gente, a partire da commenti semplicemente brutti e volgari, fino a chi ci minacciava di voler bruciare i nostri dischi. Si è anche diffusa la fake news di un singolo insieme a lei. È stato un momento in cui ci siamo davvero spaventati dei social. Capisco che la musica possa essere un fattore identitario fortissimo e scatenare le parti più buie, se hai 15 anni va bene, a 30 è più preoccupante. L’aspetto triste è che, poi, ripensi a tutte le cose dette in questi anni, quando parlavi di tolleranza, e ti ritrovi catapultato in questa brutta letteratura dell’odio. Solo per una foto».
Sarà per questo che l’Italia è un disco introvabile come canta in Due desideri su tre. «Mi riferisco a quando avevo 15 anni e, non essendoci Spotify o Amazon, il disco era un concetto da inseguire e non solo un oggetto da ascoltare. Seguendo la metafora, l’Italia è un bellissimo disco, un paese della Madonna, eppure siamo un capitale sfuggente, non ce la facciamo. L’unica spiegazione che mi do è che le teste più intelligenti siano impegnate a far altro. Probabilmente hanno tutte le ragioni per non darsi alla politica e alla discografia, per dire due cose che non brillano, ma cazzo, è esattamente quello che servirebbe».
Avete mai avuto il timore che il vostro pubblico smettesse di seguirvi? «Abbiamo sempre avuto un ricambio interessante. Il tour per il decennale de I Soldi sono finiti è andato benissimo, con un sacco di 20enni che quando uscì andavano alle elementari. Quando è esploso Calcutta, che ha un talento clamoroso nello scrivere, abbiamo avuto paura di essere diventati vecchi. Ma era solo una paura, appunto, poi passa. Quando siamo nati eravamo un gruppo fuori moda e lo siamo tutt’ora. In fin dei conti ci è andata bene».