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Tutti amano Caroline Shaw (e hanno ragione)

Da Kanye West a Rosalía, che hanno voluto collaborare con lei, a chi le ha conferito un Pulitzer per la musica e cinque Grammy. Arriverà a Milano questa domenica per FOG Performing Arts Festival con Ringdown, il suo duo pop con la compagna Danni Lee. L'intervista

Foto: Anja Schutz

«È solo un premio», ripete divertita Caroline Shaw quando le faccio notare che tutti gli articoli che parlano di lei (compreso questo) contengono la frase «la più giovane compositrice ad aver vinto il Premio Pulitzer per la musica». D’altronde, anche lei sa benissimo che è stato proprio quel riconoscimento, ottenuto per la sua vorticosa ed eccitante Partita for 8 Voices – una composizione in quattro parti per il suo gruppo a cappella Roomful of Teeth – ad aprirle molte delle porte che, dal 2013, sta attraversando con sicurezza e una disinvolta giocosità creativa.

In questi 12 anni, infatti, Caroline non si è certo seduta sugli allori. Impossibile per un’artista la cui madre (violinista e cantante come lei) l’ha immersa nel mondo del suono fin da quando aveva solo 2 anni, grazie all’innovativo metodo Suzuki, una filosofia educativa giapponese per l’apprendimento musicale. Mentre la musica colta si interrogava se sarebbe stata lei a salvare la musica classica, Caroline conquistava Grammy Award (ora siamo a cinque), rimanendo estremamente prolifica sia con i Roomful of Teeth, sia con progetti solisti o collaborazioni continuative, come quelle con i Sō Percussion e l’Attacca Quartet, attirando così l’attenzione di Kanye West.

Sarà proprio Kanye, dopo un lungo corteggiamento intellettuale, a portarla nel mondo della musica pop e a produrre con lei alcuni dei brani più intriganti di The Life of Pablo come Pt. 2, FML, Wolves e Freestyle 4. Caroline proverà persino l’esperienza di andare in tour con lui, per presto allontanarsi dopo alcuni di quei comportamenti del rapper che ora sono sotto l’occhio di tutti. Sarà però grazie a Kanye, che le presenta il producer Noah Goldstein, che Caroline si troverà a lavorare al fianco di Rosalía per uno degli album pop più apprezzati degli ultimi anni, Motomami.

Tra composizioni a cappella, lavori per archi e cori, collaborazioni con gli artisti più all’avanguardia del pop mondiale e colonne sonore – se pensate che parliamo di una musicista di nicchia da pochi stream vi sbagliate, le sue composizioni raggiungono anche i milioni di ascolti sulle piattoforme – Caroline Shaw ha trovato il tempo – e l’amore – per presentare una nuova creatura: Ringdown, un progetto pop insieme alla sua compagna Danni Lee. Perché alla fine, come dice lei, «per fare pop ci vuole coraggio».

Quando ci vediamo via Zoom, Caroline è appena sveglia. Il fuso orario con gli States non è clemente. È vivace, sorride, e a volte straparla, come ammette ridendo. I suoi occhi sembrano sempre sull’orlo di una forte emozione. L’occasione della chiacchierata è proprio l’arrivo suo e di Danni a Milano, dove, con Ringdown, suoneranno in una delle rassegne più intriganti della città: il FOG Performing Arts Festival. Le due si esibiranno domenica 16 marzo al Teatro dei Filodrammatici, dove presenteranno brani del loro primo album in uscita, Lady on the Bike, previsto per il prossimo 9 maggio.

Domenica suonerai a Milano con Ringdown, il tuo progetto pop insieme alla tua compagna, la musicista Danni Lee. Ce lo racconti?
Io e Danni ci siamo incontrate anni fa: lei mi ha chiesto di registrare per un suo disco e, per farla breve, ci siamo innamorate. Ho sempre avuto l’idea di fare un disco pop indipendente, ma non ho mai avuto il coraggio fino ad ora, mi sentivo troppo vulnerabile. Musicalmente ci sono molti synth elettronici e una sorprendente quantità di viola. Lei è la cantante principale, io metto la mia voce qua e là.

Molti criticano la superficialità del pop, mentre tu, che arrivi dalla musica colta, mi dici che è un luogo dove ti senti più vulnerabile.
Quando faccio musica strumentale, mi piace l’idea di poter costruire un mondo. Mi sento una bambina che costruisce un fortino. Faccio un esempio: quando scrivo per il mio quartetto d’archi, ci metto tutta l’anima, mi sento vulnerabile, ma il pubblico non può capire esattamente cosa sto raccontando. Credo che nelle parole e nei testi ci si esponga di più. Anzi, direi che in generale è quello che succede quando si canta.

È per questo che hai scelto di fare pop, per poter esplorare una parte più vulnerabile di te?
A me piace la musica pop, un po’ come a tutti, no? Gli ABBA mi emozionano, così come i Beach Boys. Certe cose di Chappell Roan mi fanno piangere, proprio come altre di Mozart. E questo è ciò che vogliamo fare io e Danni Lee: emozionare.

Tu, che arrivi dalla musica classica e dal canto a cappella, dove la tua ricerca non ha limitazioni di spazio e struttura, hai trovato difficoltà ad adattarti alla forma-canzone pop?
Danni mi prende in giro perché la mia musica va di qua e di là senza mai avere una struttura da canzone. E ha ragione. Nella mia musica qualcosa di strutturato c’è, ma in modo completamente diverso. Non ne sento il bisogno di una forma. Ma c’è un motivo se certe strutture vengono usate e danno soddisfazione. Io non sono contraria, ma la domanda che mi faccio di continuo è: cosa voglio sentire? Voglio sentire qualcosa che non ho mai sentito prima. Per quello non credo nelle regole.

Che tu faccia pop o classica, libera o meno nelle strutture, il tratto peculiare della tua musica è sempre una forte e decisa emotività. Come si rapporta l’emotività con la tecnica?
Riesco sempre a percepire quando nella mia musica non sono onesta. So bene quando qualcosa che faccio mi emoziona; è quello il sentimento a cui miro ogni volta. La musica arriva sempre da un luogo emozionale. Prima della tecnica, dell’ingegneria e dell’architettura del fare musica, è l’inconscio a guidarci. Quando ne sono in contatto, so che vado nella direzione giusta. È l’unico motivo per farlo: abbiamo solo questa vita, e non è lunga. Non abbiamo tempo per fare cose che non arrivano dal nostro profondo.

È questa la tua filosofia di artista?
Sono una musicista e non conosco altro modo per esserlo. Tutto ciò che fai deve essere vero, devi amarlo. Prima di tutto, devi farlo per te stesso. E se non ti torna, puoi solo continuare a provarci.

Tua madre, violinista e cantante, ti ha fatto approcciare la musica da giovanissima, a 2 anni, con il metodo Suzuki. Come si è evoluto il tuo rapporto con la musica?
Qualcosa è profondamente diverso, qualcosa è profondamente uguale. La risposta veloce è che ora ho ascoltato tantissima musica, mentre da piccola per me esistevano solo Mozart e Bach. Quindi il mio rapporto con la musica è cambiato grazie a tutte le volte che nella vita che ho pianto e amato. Ma ci sono cose che mi emozionano oggi come allora: l’armonia è qualcosa di magico. Che sia la progressione armonica di una sonata di Mozart o quella di Guilty Pleasure di Chappell Roan.

Proprio per questa tua capacità di muoverti tra generi, hai una serie infinita di progetti. C’è il tuo gruppo a cappella, i Roomful of Teeth, le collaborazioni con l’Attacca Quartet e i Sō Percussion, le commissioni, le composizioni per orchestra, le colonne sonore (l’ultima per la miniserie Leonardo Da Vinci). Come riesci a districarti tra composizioni così differenti?
Sono molto organizzata. Ogni progetto nel mio computer ha le sue cartelle ben ordinate e, senza disordine, posso muovermi facilmente da un progetto all’altro. Ogni lavoro, però, è differente. Ad esempio, sto lavorando a una composizione per piano solo che dovrò suonare alla Carnegie Hall tra un mese. È un brano di sei minuti e mi immagino come potrebbe essere ascoltarlo dal pubblico. Ma devo finirlo. Con Ringdown stiamo facendo le prove per le date, mentre con i Sō Percussion, quando ci troviamo, l’obiettivo è essere noi stessi, liberare la nostra creatività in studio. Sto finendo una colonna sonora per una serie, ma questo lo vedo proprio come un lavoro pagato, voglio solo togliermelo di mezzo. Nel frattempo, sto preparando un pezzo per orchestra e uno per la coreografa Pam Tanowitz, in cui decostruirò la Sesta di Beethoven.

Esiste un fil rouge tra tutti i tuoi lavori?
Sono tutti progetti che devono emozionarmi e che devo sentire necessari. Devono avere un significato per me e per chi li ascolterà.

Per questa ragione immagino sia molto importante la scelta delle collaborazioni. Cosa deve colpirti in un artista?
Devo davvero apprezzare la persona che ho di fronte, ma soprattutto devo chiedermi cosa potremmo fare insieme che sia nuovo. Cerco qualcuno aperto a sperimentare, a tentare qualcosa di differente, non voglio far musica per la playlist Chillwave di Spotify. Il mio obiettivo è sempre fare qualcosa che arrivi al cuore come una freccia.

Non tutti lo sanno, ma hai collaborato con Rosalía per Motomami.
La amo. Sono stata messa in contatto con lei da Noah Goldstein, che conosco dai tempi di Kanye West, e so che è uno che lavora bene. Rosalía mi è piaciuta per la sua voglia di fare qualcosa di differente e inusuale. Ha una voce bellissima e una grande etica del lavoro.

Il tuo ingresso nel mondo dei giganti della pop music è stato con Kanye West nel periodo d’oro di The Life of Pablo. Mi è rimasta impressa una cosa che hai raccontato sul perché avevi accettato quella collaborazione. Lui ti aveva approcciato un paio di volte dopo delle tue performance ma tu avevi rispedito la proposta al mittente. Poi ascoltando il lungo finale della sua Say You Will sei rimasta ammirata dal fatto che in quei minuti non accadesse nulla e gli hai detto sì.
Amo quando qualcuno ha il coraggio di non far accadere nulla in un brano, è una delle cose più potenti che si possa fare. And in I Say You Will c’è tutto questo, è una canzone bellissima. E ha questo finale dove nulla accade, solo la progressione armonica, un click e un beep che rappresentano una sorta di battito cardiaco. E nient’altro. E questo va avanti per due minuti. È come vedere un bellissimo quadro, magari di Yves Klein. Trovo molto figo che abbia preso questa scelta, soprattutto visto la dimensione di Kanye. È qualcosa di emozionante, devastante. È musica pura, cruda, nuda, qualcosa di cui gli artisti di solito hanno paura. Lo so per esperienza: a volte le cose migliori sono le più semplici e dirette.

Ora la composizione avviene spesso al computer, dove la possibilità di costruire brani layer su layer e perdersi nell’infinità delle opzioni è un rischio continuo. Pensi che questo renda più difficile arrivare al cuore della composizione eliminandone il superfluo?
Può darsi. L’infinità di possibilità offerte dalla DAW (come Logic o Ableton), se non hai un’idea chiara di ciò che cerchi, ti può far smarrire. È come vagare in una foresta senza una mappa. Ma se sai cosa vuoi, puoi eliminare tutto il superfluo. Mi affascina quando un artista riesce a navigare tra tutte queste scelte per arrivare a qualcosa di davvero unico. Ma è raro. È difficile ascoltare un brano pop che inizi solo con una voce nuda, senza una batteria che non suoni sempre uguale da trent’anni. Perché non si può avere solo un triste piccolo beep e un solo triste piccolo click?

Qual è il tuo strumento preferito?
Quello che mi emoziona di più è la voce. La voce di una persona sola che canta.

Hai un approccio diverso nell’utilizzo della voce rispetto a uno strumento?
Un tempo li vedevo come due mondi separati. Ma di recente, mentre registravo a Los Angeles da un amico, ho inciso delle voci e poi ho preso il violino. E mi è sembrato naturale. Ho capito che le sperimentazioni che faccio con il violino sono le stesse che faccio con la mia voce: respiro, sillabe, colori. È tutto connesso. Certo, scrivere per violino è diverso perché ha un range più ampio. Ci sono cose che puoi fare con il violino e non con la voce, e viceversa.

La voce, poi, è l’unico strumento che possediamo davvero. Il canto ha sempre, per natura, qualcosa di profondamente viscerale.
Sono sempre stata molto timida con la mia voce. Ho cantato in tanti cori, ma ho sempre avuto un certo timore a espormi come solista. Ultimamente, però, mi sento più coraggiosa, visto quanto fatto prima con i Sō Percussion e ora con Ringdown. Forse il punto è che ora ho capito che questa è l’unica occasione che abbiamo: potremmo non esserci domani. E bisogna cantare tenendolo a mente. Per questo, spesso, quando sono sul palco, sono sul punto di piangere. Cantare è qualcosa di profondamente viscerale.

Ogni articolo su di te inizia con la frase “la più giovane vincitrice del Premio Pulitzer per la musica” nonostante sia successo nel lontano 2013. Hai mai sentito pressioni per questo? Ricordo anche NPR che aveva titolato “Caroline Shaw non è qui per salvare la musica classica”. Hai mai sentito pressioni derivanti da questo carico?
Quando ho vinto il Pulitzer ho preso subito la decisione che non mi sarei fatta schiacciare da quel premio. Ho deciso che non sarebbe stata la mia storia. La vita è troppo breve, tutto questo è solo un’illusione. Non puoi farti schiacciare dalle pressioni: i fallimenti ci saranno, fanno parte del percorso. L’unica scelta che hai è accettarli e andare avanti, oppure lasciare perdere. Le aspettative degli altri ci saranno sempre. Puoi fare musica che ti smuove o meno, e solo tu puoi saperlo. E non è detto che la musica sia l’unica risposta. Se non ti funziona così, si può sempre fare altro. Alla fine della giornata, solo tu puoi sapere se quello che stai facendo è vero.

E poi è solo un award, no?
È solo un riconoscimento, sì, mettiamola così (ride).

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