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Umberto Maria Giardini: «Chi si accorgerebbe oggi di Jeff Buckley?»

Reduce dalla pubblicazione di ‘Mondo e Antimondo’, il cantautore (già Moltheni) racconta una scena fatta di stadi pieni (con certi mezzucci) e musiche vuote: «E gli artisti stanno zitti per convenienza»

Foto press

Coerenza, sincerità, lungimiranza. Si potrebbe racchiudere in tre parole la sua parabola umana e artistica, ma non sarebbe ancora abbastanza. Perché quando si parla con Umberto Maria Giardini, dopo aver ascoltato ciò che ha prodotto e continua a produrre, è impossibile non accorgersi che questo musicista di poco più di 50 anni, che ha attraversato gli ultimi 25 da musicista riuscendo nell’impresa di non scendere mai a compromessi, è dotato anche di una dose di coraggio non comune. Ce lo dimostrerà in questa intervista, nata per conoscere meglio il nuovo disco dal titolo che è già un manifesto, Mondo e Antimondo, che si è trasformata in un j’accuse verso il mercato discografico e una società nella quale i valori gli sembrano scomparsi del tutto.

In attesa di ascoltarli dal vivo (prima data all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 25 gennaio), i 12 brani contenuti nell’album permettono di compiere «un viaggio mistico senza ritorno e volutamente senza lieto fine», come recita la presentazione, che è anche la visione del suo autore che, però, non imputa le colpe della situazione attuale alla propria generazione. «Sono le multinazionali, con le loro politiche, che hanno distrutto la discografia». E non salva neppure gli artisti che «stanno zitti per convenienza, ma sanno quali sono i metodi per riempire uno stadio come San Siro con nomi sconosciuti». Lui che con il nome d’arte di Moltheni aveva fatto parte della “stagione Mtv”, invece di disconoscerla la rimpiange: «Esisteva ancora un mercato reale senza social, like e quelle puttanate delle finte visualizzazioni». Un mondo dove «il passaparola era più forte dei nostri cellulari» che vuole ancora contrapporre a un antimondo nel quale «i musicisti per fare numeri sono diventati tutti all’improvviso amici». Tra i due, naturalmente, è convinto abbia vinto il secondo, tanto che «se riesumassero Jeff Buckley e scrivesse un album nessuno se ne accorgerebbe». Nonostante questo sembra più che mai deciso a continuare a tenere fede a ciò che gli insegnarono i suoi genitori: «L’importante è dire la verità, perché se la dici non devi temere chi sta barando».

Cosa si prova a pubblicare un concept album in un’epoca in cui i dischi di questo tipo sembrano non avere più, apparentemente, mercato?
Non ho nessuna sensazione particolare. L’ho fatto talmente tante volte che uscire in un periodo anziché in un altro non mi cambia più nulla. Sono positivo e sereno, anche se con un pizzico di disillusione. Perché non sono più di primo pelo, quindi conosco tutti i meccanismi legati alla discografia, all’editoria, ai social e tutto quello che ruota intorno alla musica. Però alla fine vengono toccato relativamente da queste cose.

Allora perché, nonostante tutto, un artista come te sente ancora l’esigenza di uscire con un disco così complesso?
Perché la mia passione per la musica, la produzione e i tour dal vivo sono slegati da tutto quello a cui ho accennato prima. Non che io debba essere considerato più genuino degli altri, ma non ho mai avuto e mai avrò scheletri nell’armadio. Faccio musica perché non farla significherebbe assecondare quei meccanismi del mercato e del marciume che ho intorno. Io continuo perché sono estremamente indipendente da tutto e da tutti e la mia metodologia non è cambiata dagli anni ‘90 a oggi. Quindi ciò che mi ruota intorno mi sfiora ma non riesce a condizionarmi. Questo è il mio lavoro e lo faccio nonostante la società sia molto cambiata.

Mondo e Antimondo, già dal titolo, mette a confronto due realtà che sembrano apparentemente inconciliabili.
È un titolo che cerca di riassumere, nei limiti del possibile, cosa esprime il concept album. Serve a raccontare che oggi si è capovolto tutto, cioè quello che davamo per sottinteso anni fa a livello di sentimenti, di onestà e in tante altre espressioni umane. Oggi non sono più scontati. Il mondo si è rivoltato perché tutto dipende dalla rete, che ha rincitrullito il cervello di molti dando spazio ai più furbi. E il disco riassume questo forte cambiamento globale. In più vivo in un Paese, l’Italia, che è un po’ più sfortunato degli altri. Avendo viaggiato molto e continuando a farlo, mi rendo conto di questa condizione tutta italiana.

In sintesi, come la descriveresti?
È risaputo che dopo una crisi economica, di solito, avviene una crisi sociale. E così, dal 2008 in poi l’Italia è caduta in un baratro dal quale non si è più ripresa. Non solo per un discorso economico, ma etico-sociale. Il nostro è un Paese dove è possibile fare tutto, in particolare perché l’italiano medio è molto cambiato. Per esempio è facilissimo impapocchiare le persone-spettatori, quindi anche imporre i target che hanno lo scopo di produrre denaro.

Il primo brano, Re, è l’introduzione perfetta al viaggio che poi ci farai compiere nel disco, dove l’arrivo dei barbari prelude a un mondo rurale in estinzione.
Il significato è proprio quello, che poi è un dato di fatto che tutti rivendicano. Non c’è persona al mondo che non dica come la politica sia marcia, che il rap faccia cagare o che Sfera Ebbasta tratti male le donne nei testi delle sue canzoni. Tutti condannano queste cose, eppure tutto ciò si traduce in una grande ipocrisia. Perché in fondo noi italiani, più di altri, siamo bravissimi a salire sul carro dei vincitori. Come nel mondo discografico, dove chi lavora nelle major cavalca qualcosa non appena il “prodotto” riesce ad avere un minimo di riscontro. Ma poco prima dov’erano? In Mondo e Antimondo è presente una buona dose di autocritica a un’enorme crisi dalla quale non ci riprenderemo facilmente. Siamo diventati un Paese arabo, cioè quello che conta è prima di tutto il denaro. Il resto non ha più significato.

A livello musicale come sei arrivato a un suono così compatto e ricco di sfumature, in grado di dare all’ascoltatore la continua sensazione di qualcosa di incombente?
Negli anni sono diventato molto tecnico, d’altronde sono della “scuola Verdena e il mio approccio alla musica è identico a quello dei fratelli Ferrari. Quindi la compattezza deriva dall’esperienza, dal cercare e ricercare, dal dedicare ore, giorni, mesi e anni all’interno delle quattro mura della sala prove ogni mattina a sperimentare, bocciare, ricredermi e tornare sui miei passi. Un processo naturale che, ahimè, non lo dico per autocelebrarmi, ma viene dallo spendere tantissimo tempo della mia vita così. Siamo rimasti in pochissimi in Italia a lavorare così, ma io ho sempre portato avanti questo metodo. Anche perché è l’unico che conosco e credo sia il solo metodo valido per produrre buona musica: lavorare tantissimo a porte chiuse lontano dal pubblico.

Quando intervistai Paolo Benvegnù, altro cantautore distante dal mainstream, mi disse che la sua, quindi anche la tua generazione, ha delle responsabilità perché «siamo stati noi a creare questo abominio». Sei d’accordo?
Assolutamente no. Paolo, che per me è come un fratello, ha intercettato una visione deviata del problema. La colpa di quello che stiamo vivendo in Italia è esclusivamente legato alle multinazionali. Alle ricerche di mercato che compiono prima di produrre. E molti degli addetti ai lavori stanno zitti per convenienza. Gli artisti stessi sanno quali sono i metodi per riempire uno stadio come San Siro con nomi sconosciuti. Questa è una generazione di ingenui o stupidi, ma qualcuno di intelligente e con esperienza c’è ancora e conosce quali sono le strategie. Chi ha imbastardito, avvelenato e deviato l’ambiente in forma consapevole sono le multinazionali e con le loro politiche hanno distrutto il mercato discografico.

Però alla fine degli anni ’90 tu stesso hai fatto parte della stagione Mtv” allora non avevate nessun sentore di quello che sarebbe potuto succedere in seguito?
Sarò sincero, sapendo che alla mia età si tende a essere critici con il presente e ad avere una predisposizione secondo la quale il passato è sempre più bello e pulito. Però, considerandomi una persona estremamente coerente, lungimirante e senza scheletri nell’armadio, ti dico in tutta onestà e con il cuore in mano che in quella stagione non ce ne rendevamo conto, così come non ci rendevamo conto di vivere l’ultima stagione davvero straordinaria per la musica.

Qual era la differenza rispetto all’oggi?
Con il senno del poi è stato un periodo in cui esisteva ancora un mercato reale, senza social e senza like. Un artista non veniva presentato grazie a dei bluff, che sono per esempio le puttanate legate alle finte visualizzazioni. Come si può pensare agli stream e non a far calcare un palco importante in base a quello che uno ha prodotto, ai tour che ha realizzato, alla capacità di acquisire competenze nel tempo? Basta guardare la lista dei nomi di Sanremo e ti accorgi che queste cose non valgono niente, ma sai come funzionava in passato?

Ricordamelo tu.
Negli anni ’90 non era assolutamente così. Non affermo che tutti erano o eravamo stinchi di santo, anche allora esistevano le multinazionali con i loro poteri decisionali, tuttavia, rispetto a quello che viviamo oggi, eravamo in una fase primordiale dove qualcuno scommetteva ancora su progetti alternativi, diversi, con artisti che non dovevano necessariamente avere 19 anni. Oggi è diventata una prerogativa incondizionabile, poiché bisogna raccogliere subito e con investimenti fatti non certo sulla qualità bensì sul lungo termine, dato e non concesso che poi il tentativo commerciale funzioni. Oggi per prima cosa si guarda alla carta d’identità, non al valore di ciò che si ascolta. Tutti hanno ’ste vocine da minorenni che parlano di vita vissuta, con una credibilità inferiore a Topo Gigio.

Sicuro di non idealizzare troppo il passato?
Può essere, ma il passaparola anni addietro era più forte dei nostri attuali cellulari, questo lo vogliamo ricordare? Ora siamo connessi e in grado di inviare un messaggio in tempo reale da ovunque a ovunque, ma di fatto incapaci di comunicare tra di noi. Nella musica contano i like e le visualizzazioni in rete, l’essere umano si è ridotto a nulla, tutto quello riferito all’umanità è quasi sempre un comportamento di facciata in funzione d’altro. Questo presupposto, questo modo di fare deviato nel mondo della musica nazionalpopolare traspare tantissimo, un manierismo diventato inquinato e visibilmente monopolizzato. Quasi tutti sappiamo ma nessuno ne parla, o per ingenuità o per convenienza.

Anche per questo la scena indipendente non è più forte come prima?
Onestamente non so se dipende da questo, purtroppo le etichette indipendenti, cariche di un entusiasmo legato a una visione di cambiamento in realtà mai avvenuto, oggi non hanno un soldo per nessun investimento, sopravvivono o razzolando nel nulla, o accettando, quando per qualche progetto accade, le regole dettate dalle major. Le indipendenti vere rimaste genuine al loro dna, in Italia si contano sul palmo di una mano, mentre sarebbe proprio lì che andrebbe ricercata la qualità, la novità, l’originalità, scavando nel sottobosco della musica indipendente. Altro che con talent show che pagano somme di denaro mostruose ai loro giudici. Guarda caso poi Calcutta fa un featuring con Elisa

E quindi?
Ma dai, sono diventati tutti all’improvviso amici. Ma sai perché vengono fatti questi featuring? Perché uno dei due, o spesso tutti e due, hanno bisogno di numeri. Allora Elisa chiama Calcutta che lei neanche conosce, però fa i numeri. E la gente abbocca, perché ormai non capisce niente, ed ecco cosa è diventata la musica italiana.

Sei così certo che una come Elisa, che ha una sua storia alle spalle, si faccia imporre produttori e co-autori e che non allacci quelle collaborazioni spontaneamente?
Oggi avere una propria storia non significa più niente, lo dimostra il fatto che, chi ce l’ha, cade nell’errore di metterla in discussione con featuring e collaborazioni discutibili. Accade ogni settimana e da anni. Onestamente non seguo la carriera di Elisa, né tantomeno quella di Calcutta, le mie orecchie sono state sempre esigenti e abituate ad ascoltare altri generi e altri interpreti, che non vengono passati alla radio. Sono certo che non debbo essere io a evidenziare la mancanza di legami artistici, stilistici o di altro genere tra i due. Per fare un semplice esempio pratico che possa far comprendere quello che penso: se Elisa avesse ascoltato Calcutta anni addietro, prima del suo successo e della sua posizione mediatica odierna, non avrebbe mai né cercato, né voluto, né realizzato una collaborazione con lui. A mio personale avviso, la verità è raggiungibile con una strada di ragionamento molto più semplice, secondo la quale tutto è inquinato dal naturale scopo di voler raggiungere sempre e necessariamente risultati maggiori, o per sopravvivenza artistica o per aumentare gli introiti, attraverso queste operazioni-collaborazioni ambigue. Quando c’è contestualità di genere, complicità e una visione comune legata alla qualità del prodotto, i featuring sono giustificati, quando invece si mischia salame e Nutella, il sapore che si percepisce dall’operazione, anche se ben riuscita, sa inevitabilmente di un qualcosa di preconfezionato a monte, dove c’è poco spazio per la musica fatta artigianalmente, quella che sfida le mode e rimane nel tempo.

Quante canzoni degli ultimi anni, secondo te, rimarranno nella storia?
Pochissime… La musica, c’è poco da dire o da fare, è un riflesso in uno specchio. È una persiana lasciata socchiusa d’estate con un raggio di sole che vi passa attraverso. Quindi traspare e assorbe, come un fegato, tutto il male che c’è intorno. La società e il mercato sono quello che sono, quindi tutto ciò che viene prodotto finisce nel dimenticatoio. È la società di oggi che dimentica tutto e tutti. Se io domani muoio, nell’arco di una settimana vengo dimenticato. Così non si scrivono più cose importanti perché la società non è più importante. L’essere umano è passato in secondo piano, non conta più un cazzo rispetto ai numeri.

In passato hai detto: «Se fossi giovane oggi sarei uno sfigato».
È la verità. Io come tante persone che vengono considerate l’élite della musica italiana. Se fossimo giovani oggi non ci cagherebbe nessuno. Anzi, se riesumassero Jeff Buckley e scrivesse un album chi se ne accorgerebbe? È pieno di Jeff Buckley là fuori, ma le multinazionali perché non se ne accorgono? Perché quando le major sostengono un nuovo progetto salgono sul carro delle visualizzazioni già avviate, mica ascoltano più la musica.

Morgan, che fa parte anche lui della generazione Mtv con i Bluvertigo, nell’ultimo X Factor ha denunciato quello che ha definito “sistema”.
Ma di cosa stiamo parlando? La verità è facilissima da tradurre. Tutto ciò che denuncia Marco Castoldi è vero, solo che ha scoperto l’acqua calda. Mi chiedo: come mai Morgan se ne accorge ora che è tutto un intrallazzo? Non se ne accorgeva quando prendeva centinaia di migliaia di euro? Allora gli andava bene, mentre adesso che il gioco si è rotto non gli va più bene. Perché non l’ha denunciato la prima, la seconda o la terza volta? È diventato più intelligente all’improvviso? È tutto deviato, falso, un bluff. Ora che il format è in declino, come tutte le cose, qualcuno denuncia. E gli anni passati? Troppo facile parlare ora. Perché Dargen D’Amico non dice nulla? Altrimenti non sarebbe a Sanremo. Dove sono i palazzetti stracolmi per ascoltare la sua musica? Ma non serve mandare il brano, è tutto pilotato. Sono le major che si mettono d’accordo e scelgono i concorrenti. E se non hai un brano? Scrivilo, no? Che te frega…

Nel 2000 anche tu hai partecipato a Sanremo con il brano Nutriente.
Era un altro periodo, ma sempre a suo modo raccapricciante.

Non ti sei mai pentito di tanta coerenza rispetto a certe scelte?
A me dispiace passare per stupido e rivendico che, non avendo scheletri nell’armadio, posso dire tutto. I miei genitori mi hanno insegnato che l’importante è dire la verità, perché se la dici poi non devi temere chi sta barando. Artisticamente mi considero maturo, sereno, amo il mio lavoro, stare in studio a scrivere e questo modo onesto di fare musica. Dai Verdena a Paolo Benvegnù fino ai Bud Spencer Blues Explosion e Massimo Volume, esistono ancora tantissimi progetti genuini e che non hanno lasciato quel mondo. Però voglio ricordare a me stesso e agli altri la forza della consapevolezza di sapere dov’è il male dell’Antimondo.

Ti senti un artista realizzato?
Io non ho niente da perdere. Non mi chiameranno mai a Sanremo o Renga per un featuring. È un ambiente che disconosco. Non ho bisogno di soldi e quando riempio un club con 300 persone per me è come San Siro per i Pinguini Tattici Nucleari. Ho già fatto una invidiabile carriera, partita con un percorso che non c’è più che iniziava con la gavetta, la chitarra in spalla, i live nei piccoli locali e proseguiva con lo studio. Se dico certe cose è perché vanno a discapito della musica e io difendo la musica. Fatto questo bilancio, mi sento di aver vinto.

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