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Umberto Tozzi: «La musica di oggi è ridicola»

I veterani che si mettono coi giovani come in 'Mille'? Fuori posto. I discografici? Miopi. Le canzoni di un tempo? Imbattibili. Il successo? Questione di culo. Parla l'uomo da 80 milioni di copie vendute

Foto: Luca Brunetti

Intervistare Umberto Tozzi e avere solo 30 minuti non è semplice. Anche perché non stiamo parlando di un artista dalla carriera appena iniziata, ma di un veterano da 80 milioni di dischi venduti. Uno che ha messo a segno canzoni come Ti amo, Gloria, Tu, Stella stai, Nell’aria c’è, Notte rosa, giusto per citarne alcune. Un cantautore capace di portare le sue composizioni fuori dai confini nazionali anche se con la voce di altri interpreti. Di cose da chiedere a ce ne sarebbero, eccome, ma la tirannia del tempo e l’imminente soundcheck di Songs, il tour acustico che sta portando in giro per l’Italia, non lasciano scampo. E inizia il countdown: una corsa contro il tempo per farci raccontare oltre 50 anni di carriera.

Iniziamo dalla fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70. Hai militato nella rock band Off Sound, hai addirittura fatto parte di un ensemble di 13 elementi con Adriano Pappalardo, facevi il chitarrista, ma era come se facessi fatica a importi.
Verissimo. Non avrei mai pensato di fare il cantante nella vita (ride). Il motivo per il quale mi sono avvicinato alla musica è aver imparato a suonare la chitarra con le canzoni dei Beatles. Per quello mi sono messo a suonare in un sacco di gruppi. Poi, al di là di questo, dovevo anche mangiare e coglievo qualsiasi occasione accadesse. Ho fatto anche il turnista, ma la verità è che volevo formare un gruppo.

E…?
L’ho anche formato, ma non si guadagnava nulla e mi sono dovuto arrendere. Però era quella la motivazione, l’obiettivo, per il quale poi ho iniziato a fare musica: creare una band.

Poi c’è stato l’incontro con Bigazzi.
È stato la chiave di svolta della mia vita professionale. Lo incontrai per caso nell’ufficio di Franco Daldello, che conoscevo in quanto editore della Numero Uno di Mogol-Battisti. E stavo spesso sui divani ad aspettare con alcuni colleghi che, poi, sono diventati famosi.

Tipo?
Gianna Nannini, Eugenio Finardi, Edoardo Bennato. Eravamo tutti lì ad attendere un turno di lavoro per svoltare la giornata.

Torniamo a Daldello.
Daldello mi chiamò perché Mara Maionchi, la direttrice artistica della Ricordi nel 1974, mi propose di firmare un contratto come autore dopo avere scritto la canzone Un corpo e un’anima di Wess e Dori Ghezzi, che vinse Canzonissima. Ma non lo firmai.

Come mai?
Non mi volevano dare 500 mila lire. E a quel punto lì tornai a casa dal papà che mi voleva vedere impiegato di banca.

Ok, ma poi l’impiegato mica l’hai fatto…
Due giorni dopo mi chiama Daldello e mi dice di andare da loro perché Piero Sugar aveva creato la CGD. Caterina Caselli non c’era ancora. Andai a questo incontro e mi presentò Bigazzi che era già famosissimo come autore e produttore per Marcella e Massimo Ranieri. Mi propose di andare da lui, nella sua casa di Firenze, a via Santa Marta, per scrivere canzoni e vedere che fine avrebbero fatto.

Che fine hanno fatto?
Il giorno che siamo tornati a Milano con qualche brano, io avevo fatto dei provini e il grande Alfredo Cerruti –  che oltre a essere stato la voce degli Squallor è stato un gigantesco direttore artistico e capiva quello che funzionava sul mercato discografico – dice a Giancarlo: «Ma questo qui, invece di fargli fare l’autore, è meglio che se le canti lui le canzoni». Mai io dissi di no.

Ma come?
Non volevo fare il cantante. Alla fine, però, mi convinsero e allora feci questo primo album, Donna amante mia.

Nel 1976 con Loredana Bertè e Mario Lavezzi, foto per gentile concessione dell’artista

Il successo vero e potente è arrivato con il secondo disco È nell’aria… ti amo che conteneva la tua super hit Ti amo. Che ricordi hai?
Ritengo che Ti amo sia la canzone più originale che ho composto. Ma dal momento in cui l’ho scritta fino a quello che poi è successo dopo, scorre un oceano.

Spiega un po’…
Il fatto è che secondo me è ancora oggi originale, non esistono canzoni di quella natura, sono leggendarie. Parlo della mia epoca, in cui ogni settimana uscivano delle leggende della musica, a parte i Beatles. Sono brani che sono irripetibili come Satisfaction, non si rifà un riff così.

Di tue canzoni che sono rimaste ce ne sono tante…
Ho avuto fortuna, dai, ho avuto tanto culo. Non basta il talento. E per me la fortuna è stata una componente molto importante. Chi pensava che Ti amo superasse la frontiera di Chiasso?

Ecco, perché non hai cantato tu in inglese Ti amo e Gloria, ma Laura Branigan?
Erano tempi in cui, credimi, era tutta un’improvvisazione e non si sapeva cosa sarebbe successo il giorno dopo. Credo che su un artista si facciano dei progetti oggi.

Prima cosa si facevano?
Dei tentativi. Intanto io non ho mai avuto una proposta per portare Ti amo in altri Paesi europei, se non quella di andare in Francia. La traduzione l’hanno fatta altri e poi le canzoni sono arrivate al numero uno in Germania, America, e così via. Tra l’altro non era proponibile presentare un brano italiano fuori. Si ricordavano Volare, ma nel mondo era più importante la pizza che la musica. Poi arrivò la cover imprevista della Branigan, e fu una fortuna anche quella.

Ecco, come successe tutto?
Lavoravo con Greg Mathieson, arrangiatore americano che collaborava al primo album di Laura Branigan. Mancava un pezzo per chiudere il progetto e fece il mio nome, disse che secondo lui scrivevo delle cose forti. All’epoca Mathieson era arrangiatore di Moroder che componeva per Donna Summer, non uno qualunque. Propose la mia Gloria e i produttori diedero l’ok per inserirla nel disco. Poi i dj americani decisero sarebbe diventato il singolo di lancio anche se la Atlantic Records aveva proposto un altro pezzo. Tutto è nato così, per culo.

A questo proposito è tua anche Io camminerò di Fausto Leali, perché non te la sei tenuta?
Semplicemente perché avevamo un grande direttore artistico, che era Cerruti, che quando feci il primo album decise che Io camminerò la avrebbe fatta benissimo Leali. E infatti fu così. Io poi l’ho ricantata, ma non poteva essere forte come quella di Fausto.

Hai vinto due volte il Festivalbar con Ti amo e Io muoio di te, una volta Sanremo con Si può dare di più insieme a Morandi e Ruggeri, e sei arrivato terzo all’Eurovision con Gente di mare in coppia con Raf. Che ricordi hai?
Molto belli. Perché in qualche modo ho sempre diviso il palco con altri musicisti. E il fatto che molti artisti italiani non dividano il palco è stupido. Nel nostro settore non deve esistere invidia e rivalità. Bisogna ringraziare Dio di avere questo dono, salire sul palco, cantare e suonare. Nel mondo questa cosa è sempre avvenuta. Invece, nel nostro Paese, non c’è mai stata questa collaborazione. Quando nell’87 mi proposero di fare Sanremo era nato tutto con l’idea di farlo con Morandi e Raf. Poi Raf non voleva cantare in italiano, ma continuare la sua carriera in inglese. A quel punto lì, scegliemmo Ruggeri. Ma è stata una storia di amicizia: salivo sul palco con degli amici. Stessa cosa successe quando Raf si decise di cantare nella nostra lingua e realizzammo Gente di mare. Fu una storia di allegria.

Del Festivalbar che mi dici, invece?
La musica, televisivamente, a quei tempi aveva un grande seguito perché comunque c’era un’idea. Quella di Salvetti. Oggi la musica in tv non funziona, parliamoci chiaro, bisogna andare ad ascoltarla ai concerti. Sì, esiste Sanremo, ma come vedi non è più musica.

E che cos’è?
Uno show televisivo, non c’entra niente la musica.

Però immagino che a Sanremo, in gara, ci torneresti…
Stai scherzando?

Dalla tua risposta immagino non ci torneresti…
Ti ho spiegato le motivazioni. Sanremo è una cosa per i ragazzi, per tentare di farsi una carriera. Io credo di aver già dato tanto.

La motivazione per la quale non vorresti più gareggiare al festival è per l’eliminazione di Le parole nel 2005?
La storia fu molto complicata.

Sono tutt’orecchi.
Non avevo nessuna intenzione di andare. Era l’ultimo anno in cui stavo in Warner. La casa discografica propose la canzone al festival di Bonolis. Gli editori la ascoltarono e dissero che piaceva moltissimo. Una presa per il culo: era solo per avere un nome che a loro interessava. Me l’hanno girata in modo tale da convincermi ad andare. Sono stato il primo escluso, probabilmente sbagliai io a partecipare. Il pezzo non era male.

Era un bel pezzo.
Sì, ma sono cambiate un sacco di cose nel tempo. Io di errori nella mia vita e nella mia carriera ne ho fatti tantissimi, per cui non do tanto peso a quello che è successo. Si vede che doveva succedere e punto.

Almeno come direttore artistico lo faresti il festival?
No, mi boccerebbero subito. Io mi coinvolgo solo emozionalmente. E visto che secondo me la musica di oggi è ridicola non potrei e non saprei giudicarla.

Perché è ridicola la musica oggi?
Non emoziona. Fa rumore, è rumore. Sono nato in un’epoca diversa: qualsiasi roba uscisse, dagli Yes ai Deep Purple erano tutte cose che avevano senso, che emozionavano. Oggi non sento neanche più le radio.

E allora come vedi le operazioni tipo Mille con Fedez, Achille Lauro e Orietta Berti o Toy Boy con Colapesce e Dimartino insieme a Ornella Vanoni? Questa commistione tra nuove generazioni e vecchie glorie per le hit estive?
Be’ la mia risposta è molto giornalistica: sono ridicoli.

Tra le nuove leve ti piace qualcuno, almeno?
Sì, i giocatori che ha convocato Roberto Mancini nella Nazionale.

Ok, capito. Parliamo di talent. Hai dichiarato che non escludi di fare il giudice in un talent, ma poi, in un’altra intervista, hai affermato che i talent non fanno bene alla musica…
No, non posso mai aver detto una cosa del genere sul fare il giudice a un talent show.

Ho letto la cosa in un’intervista che hai rilasciato a Visto
No, mai. Non mi permetto di stare lì con una paletta. Quelle sono cose che si fanno per soldi. Uno che ha fatto il mio mestiere, non può giudicare un altro artista. Un giovane va solo premiato per il coraggio di affrontare una carriera terrificante. I giudici sono cose che possono fare Mara Maionchi e Gerry Scotti. Ma io cosa vado a giudicare?

Anche Massimo Ranieri, proprio qui su Rolling Stone, ha risposto così.
Di sinceri, qui, ce ne sono rimasti in pochi.

C’è una tua canzone che reputi sottovalutata?
Un album, la delusione più grande della mia carriera.

Vale a dire?
Quando feci il disco Il grido, nel 1996, vennero i discografici da Milano, per ascoltarlo: gente come il direttore Caccia Dominioni e Fabrizio Giannini, direttore artistico. Avevo realizzato il progetto insieme a Greg Mathieson. E ci credevo tantissimo. Ancora oggi è molto bello e suona da Dio, come i vecchi album dei Toto.

Che ti dissero?
Che era una bellissima e grande produzione, ma era meglio metterla nel cassetto. A quel punto mi ribellai, volevo uscire lo stesso, ma il lavoro non ebbe nessun successo. In quegli anni, contava molto l’appoggio discografico.

Magari, mettere in stand-by il disco, poteva essere un modo per concentrare le forze su quel progetto più avanti. Ti sei mai chiesto se, forse, sarebbe stato meglio aspettare?
Io sono stato ribelle, ma ho fatto uno dei più bei dischi della mia carriera.

E adesso sei in tour.
Questi concerti sono nati come conseguenza a quello che abbiamo vissuto nell’ultimo anno. Avevo la consapevolezza che il mestiere non poteva essere come prima. Mi sono detto che sarei andato a suonare anche solo per 100 persone. Ovviamente avevo pensato di fare una cosa in acustico, e faccio un repertorio che anche così funziona e piace. Il risultato è stupendo: ho canzoni sonoricamente molto più rock e pop e, in questa fase, ho riscoperto vecchie canzoni mai cantate prima.

Dopo il tour?
Il mio futuro non te lo so raccontare, spero Dio mi dia tanta salute. E poi non lo so, ma di sicuro non sarò sulla poltrona di un giudice, a meno che non mi diano tanti, tanti, ma tanti soldi (ride).

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