Peter Gabriel ha sentito parlare per la prima volta dell’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter grazie a Rolling Stone. Non ricorda la data esatta, ma è probabile che ad attirare la sua attenzione sia stato un articolo del 1975 sul sostegno alla campagna presidenziale di Carter da parte della Allman Brothers Band. «Essendo uno a cui la politica americana è sempre interessata, mi ha colpito leggere che gli Allman avevano avuto un ruolo fondamentale nel raccogliere i primi finanziamenti per questo “coltivatore di arachidi con dei valori”», ricorda Gabriel in collegamento via Zoom dai suoi Real World Studios, in Inghilterra.
Nella foto che illustrava l’articolo e che è stata scattata a Washington D.C. il 14 agosto 1975 Carter sorrideva di fronte a una dozzina di microfoni mentre annunciava la sua idoneità a ricevere i fondi federali. Il giorno seguente, a Londra, anche il venticinquenne Gabriel ha fatto un annuncio: con una lettera aperta, ha lasciato i Genesis per prendere cura della figlia, fare nuove esperienze e non restare impantanato nel passato.
Da allora, entrambi hanno fatto tanta strada. Carter è diventato Presidente degli Stati Uniti, ha co-fondato il Carter Center con la moglie Rosalynn, ha vinto il Nobel per la pace, ha visitato più di 145 Paesi. Gabriel ha scritto megahit, ha fatto conoscere all’Occidente la world music con il festival Womad, ha innovato il progetto di citizen journalism con Witness, è stato designato Man of Peace ed è entrato due volte nella Rock and Roll Hall of Fame.
Nessuno dei due immaginava che si sarebbero incontrati. E invece è accaduto. Nell’estate del 2006, Gabriel e il fondatore della Virgin Records Richard Branson hanno convinto l’ex presidente, allora ottantunenne, a lasciare la sua casa nel ranch di Plains, Georgia per recarsi in un bungalow a Necker Island, nelle Isole Vergini Britanniche. «È stato inserito fin da subito nella lista dei prescelti», spiega Gabriel a proposito dell’inclusione di Carter nel gruppo degli Elders, gli anziani, un consiglio di ex capi di stato che lui e Branson avevano assemblato con la benedizione di Nelson Mandela per promuovere la pace e la soluzione dei problemi dei paesi in crisi.
«Il primo incontro lo abbiamo organizzato all’ombra delle palme», racconta oggi Gabriel a proposito di quel ritiro ai Caraibi. «Era convinto che non avrebbe funzionato. Pensava, come Mandela, che quello fosse solo un gruppo di reduci che cercava invano di esercitare un’influenza sul presente. Gli pareva un’idea debole».
«Però, invece di limitarsi a criticare il progetto, Carter ha cercato con l’arcivescovo Tutu di migliorarlo», spiega Richard Branson in una e-mail. «Ricordo di aver cercato di registrare la loro conversazione per non perdere nemmeno una parola. Abbiamo appeso un microfono a un albero, ma quando abbiamo recuperato la registrazione si sentiva solo il cinguettio degli uccelli. Tutu si è fatto una risata, dicendo che doveva essere frutto di un intervento divino».
Gabriel racconta che lui e Branson hanno cercato di insegnare a Tutu a nuotare in una delle piscine a sfioro dell’isola e hanno fatto squadra per convincere Carter e gli altri che poteva una assemblea di vecchi saggi poteva avere agibilità politica nel “villaggio globale” contribuendo a risolvere i conflitti in un mondo che stava perdendo fiducia nelle istituzioni.
Gabriel ride all’idea che la titubanza di Carter, nei primi giorni del ritiro, fosse dovuta al fatto che pensava di doversi sorbire delle lezioni di nuoto. Forse Carter, come gli altri leader, cercava semplicemente la forza nell’unione, dice Gabriel. «Trovarsi in compagnia di gente che la pensava allo stesso modo: credo sia questo che l’ha portato a cambiare idea». In una vecchia intervista, Branson diceva che alla fine Carter «si è reso conto che possono fare cose che forse non sono alla portata delle Nazioni Unite».
«Il cliché del dare voce a chi non ne ha è almeno in parte ciò che ha attirato gli Elders», dice Gabriel. «Jimmy è sempre stato dalla parte sugli svantaggiati, come nel caso del lavoro incredibile che ha fatto per le malattie di cui le grandi case farmaceutiche non si occupavano per ragioni economiche».
Branson racconta che tra i suoi ricordi più cari ci sono i viaggi in Brasile e in Egitto con Carter e l’impatto che l’ex presidente (che definisce «un gigante morale») ha avuto sulle persone che ha incontrato. Gabriel racconta che i membri originari del gruppo, tra cui Carter, Mandela, Tutu, Kofi Annan, l’ex first lady del Sudafrica e del Mozambico Graça Machel e l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, si riunivano regolarmente e Carter «interveniva saltuariamente» nelle discussioni. «Quando l’ho conosciuto meglio, è diventato per me un eroe», spiega Gabriel. «Raramente ho incontrato una persona così dedita agli altri come lui e con valori solidi come i suoi».
Il gruppo è stato presentato ufficialmente nel 2007 a Johannesburg, in occasione dell’89° compleanno di Nelson Mandela. Carter è diventato un Anziano Emerito nel 2016 e ha continuato il suo lavoro al Carter Center fino a quando, all’inizio del 2023, a 98 anni, ha iniziato un trattamento di cure palliative nella sua casa in Georgia.
Prima che i due si incontrassero grazie al progetto, c’è stato un altro evento cruciale che in qualche modo li ha uniti e cheè successo durante la presidenza Carter. Cinque settimane dopo il giuramento del neo presidente degli Stati Uniti, il 20 gennaio 1977 Gabriel ha pubblicato il debutto solista. Al tempo erano poche le sue canzoni politicizzate. Le cose sono cambiate il 12 settembre 1977, quando Stephen Biko, attivista sudafricano anti-apartheid, è morto dopo un pestaggio brutale da parte delle guardie carcerarie a Pretoria.
La morte dell’attivista ha convinto Gabriel a occuparsi di diritti umani e scrivere Biko, che è poi stato utilizzato per sostenere la campagna per la scarcerazione di Nelson Mandela nel 1990. Gabriel l’ha cantata a cappella in occasione della presentazione del progetto degli Elders nel 2007 e nel 2021 ha partecipato a una cover incisa nel progetto Playing for Change.
La morte di Biko ha colpito anche Carter. Il 4 novembre 1977, le Nazioni Unite hanno votato un embargo coercitivo contro le armi in Sudafrica. E ad Atlanta, nello stato natale di Carter, sono nate discussioni accese sui disinvestimenti economici e sulle proteste anti-apartheid. Carter ha fatto amicizia con Mandela in Etiopia nel 1990 convinto che la lotta del Sudafrica contro il razzismo, così come quella dell’America, non si sarebbe risolta in fretta.
Secondo Gabriel, è stato Carter ad ampliare il significato del termine apartheid con il suo libro del 2007 Palestine: Peace, Not Apartheid sulle soluzioni per la pace in Medio Oriente. Nel 2009 e nel 2010, Carter e gli altri Elders si sono recati in quella regione per incontrare i rappresentanti della società civile durante i colloqui israelo-palestinesi. «È uno dei temi che più mi sta a cuore», dice Gabriel. «Carter non ha mai avuto paura di usare la parola apartheid. Apprezzo il suo coraggio».
Gabriel lo ammira anche per le opinioni salde in materia di religione, pur essendo opposte alle sue. Hanno trovato terreno comune nella musica religiosa, in particolare negli inni. «Una volta abbiamo avuto una conversazione sulla musica da chiesa», racconta Gabriel. «Ovviamente, la fede cristiana di Carter è una parte importante della sua vita, ma io non sono affatto religioso. Eppure la musica religiosa ha avuto influenza, e ne ha tuttora, sulla mia musica».
Sebbene i rispettivi impegni abbiano impedito a Gabriel e Carter di condividere un palco musicale, Carter spesso si è unito a Willie Nelson per cantare Amazing Grace, ha citato testi di Bob Dylan e, come Martin Luther King Jr., negli anni ’60 ha indicato Mahalia Jackson fra i suoi preferiti. Ha abbracciato Charles Mingus in occasione di una festa alla Casa Bianca nel 1978 durante la quale ha fatto Salt Peanuts con Dizzy Gillespie, due momenti che l’hanno fatto apprezzare dagli elettori di colore.
Le loro infanzie si sono svolte a distanza di decenni e migliaia di chilometri, ma il gusto di Gabriel per i ritmi africani e la passione di Carter per la musica gospel hanno permesso loro di entrare in sintonia con le persone appartenenti ad altre culture, oltre a plasmarne le opinioni progressiste. «Carter, per molti versi, è cresciuto immerso anche nella cultura nera», dice Gabriel. «E quindi penso che non provasse quella specie di disagio naturale che sperimentano molti bianchi».
Nel 1982 Gabriel ha organizzato il festival World of Music and Dance (WOMAD) con musicisti provenienti da Nigeria, Giamaica, India e Cina. Ma è stato il successo della sua collaborazione con il cantante senegalese Youssou N’Dour per In Your Eyes, da So del 1986, a spingerlo in prima linea nella lotta contro il razzismo e nell’affermare la necessità di una cittadinanza globale nel movimento per i diritti umani.
Negli anni ’70 e ’80 il legame tra musica e cause benefiche è diventato sempre pià stretto, e sia Gabriel che Carter hanno lavorato per sottolineare l’importanza della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Nel dicembre 1978, Carter ha commemorato il trentesimo anniversario della Dichiarazione chiedendo agli americani di dedicarsi alla creazione di «uno standard comune ai popoli di tutte le nazioni». Negli anni successivi, al Carter Center, ha chiesto al personale di pensare alla Dichiarazione come all’equivalente laico della Bibbia.
Nel 1986, il tour Conspiracy of Hope di Amnesty International ha portato Gabriel al King Center di Atlanta. Due anni dopo, coi concerti di Human Rights Now, è stato celebrato il 40° anniversario della Dichiarazione . Gabriel e Jack Healey, all’epoca a capo di Amnesty, hanno arruolato il regista del video di Sledgehammer, Stephen R. Johnson, per dare vita ai 30 articoli della Dichiarazione in un film d’animazione di 20 minuti doppiato da Debra Winger e Jeff Bridges e musicato, tra gli altri, da Mark Mothersbaugh, Laurie Anderson e David Byrne. «Credevo nell’importanza della Dichiarazione e nella necessità di farla conoscere meglio», spiega Gabriel, «perché molti paesi che l’avevano firmata non ne erano stati all’altezza».
Carter ha continuato a dedicarsi alla promozione dei diritti umani. Secondo Gabriel, ha «alzato l’asticella per gli ex presidenti» con i suoi anni di lavoro in campo umanitario, costruendo case per Habitat for Humanity e adoperando la sua «intelligenza acuta». «È un privilegio aver avuto la fortuna di frequentarlo per un po’». È quindi contento di avere onorato i Carter nel suo discorso d’apertura a uno degli ultimi eventi a cui ha partecipato l’ex presidente prima della pandemia da Covid-19: è apparso in video nel 2018 al Carter Center’s Human Rights Defenders Forum, un meeting di attivisti provenienti da 25 paesi.
«Qui è dove il vostro lavoro viene rispettato e celebrato», ha detto Gabriel verso la fine del suo discorso. «Questa è una vera famiglia dei diritti umani… e la madre e il padre che hanno creato questa famiglia particolare sono stati per me fonte di ispirazione per molti anni: Jimmy e Rosalynn, grazie mille per quel che avete fatto e per aver portato una luce potente in un mondo sempre più buio».
Quando Gabriel ha finito, Carter ha sfoggiato un sorriso grande come quello della foto della campagna elettorale apparsa sulle pagine di Rolling Stone, quasi mezzo secolo prima. «Come potete vedere», ha detto non senza un pizzico di orgoglio, «Peter Gabriel è un mio amico».
Da Rolling Stone US.