C’è soltanto una cosa più improbabile dell’incontrare un tuareg del Sahara dentro un boutique hotel nel centro di Parigi, oltretutto a due passi dai sexy shop e i peep show di Pigalle: ed è incontrare un tuareg a Parigi con la pioggia. Ma è il contesto del mio appuntamento con Omara Moctar, in arte Bombino – dall’italiano “bambino”, il soprannome che il musicista nato ad Agadez, Niger, ha ricevuto da giovanissimo.
Già solo per puri meriti musicali, questo Jimi Hendrix del deserto si meriterebbe tutto l’apprezzamento internazionale che lo circonda; ma la scelta di farsi produrre da Dan Auerbach dei Black Keys il disco precedente, Nomad (2013) ha immediatamente catapultato Bombino ai vertici dell’hype musicale globale.
A tre anni di distanza, e decine di performance live alle spalle su palchi come SXSW, Coachella, Bonnaroo e Newport Folk Festival, aperture per Robert Plant e Gogol Bordello, e una collaborazione con Jovanotti (l’ipnotica Si alza il vento, contenuta in Lorenzo 2015 CC.), Bombino torna oggi con Azel (Partisan Records), inciso all’Applehead Studio di Woodstock, NY, da un altro vip dello studio di registrazione: David Longstreth dei Dirty Projectors, che di recente ha collaborato alla superhit FourFiveSeconds di Rihanna, Kanye West e Paul McCartney.
Trovo Omara davanti a un piatto con un pezzo di formaggio e mezza arancia, che nella mia fantasia può benissimo essere il suo frugale pasto di un’intera giornata. D’altronde Bombino, di persona, sembra rispecchiare tutto ciò che la sua biografia e la sua musica ispirano: un uomo semplice, positivo, di poche parole, attento a non sprecare tempo con cose che non siano autentiche. Indossa un elegantissimo abito tradizionale di seta rosa, che insieme alla lunga sciarpa bianca intorno al collo è di solito anche il suo abito di scena. Fuori piove, ma ai piedi ha sandali di cuoio. Andare in giro per il mondo così dev’essere comodo: quale che sia il clima, basta adattare l’underwear e il look è salvo.
Azel, probabilmente, è anche migliore di Nomad. «È il frutto di tutti questi anni, di quello che siamo diventati dopo quell’album», mi racconta Omara. Rispetto a Nomad, il suono della Stratocaster di Bombino è più pulito, e tutto suona meno bluesy e più classic rock – meno Hendrix e più Santana, con sonorità quasi caraibiche (Timtar) e momenti alla Led Zeppelin (Iyat Ninhay).
Ci sono addirittura un paio di canzoni che si potrebbero definire “radiofoniche”, come Iwaranagh e Akhar Zaman, il primo singolo. David Longstreth sembra essere stato un produttore più discreto rispetto ad Auerbach, e questo ha permesso all’album di far emergere la vera natura del suono di Bombino: «Forse non dovrei dirlo, ma è la verità: David è rimasto più dietro le quinte ripetto a Dan», ammette Omara. «E al tempo stesso ci è sempre stato accanto e ha fatto proposte continue. Questa volta abbiamo potuto prenderci più tempo, che nella musica è tutto».
Dal punto di vista dei testi, Azel è simmetrico: metà delle canzoni hanno un tema politico (la tutela dell’identità e della lingua tuareg, il tamasheq, e il pericolo del materialismo per le nuove generazioni), metà hanno un tono personale, con un paio di autentiche canzoni d’amore (come Tamiditine Tarhanam). «Mi viene naturale scrivere di cose che riguardano mia moglie, o la mia famiglia», dice Omara. «Ma sento anche il bisogno di mettere in guardia il mio popolo dagli errori del passato: ribellarsi è una buona cosa, ma è meglio farlo con una chitarra piuttosto che con le armi. Abbiamo già sofferto abbastanza».
Bombino è spesso a suonare in giro per il mondo, ma casa sua è Niamey, la capitale del Niger. Mi chiedo come sia la sua vita, lì. È considerato un eroe locale? O forse è guardato con sospetto, come un ribelle del rock dalle amicizie un po’ troppo occidentali? «Non resto mai in tour troppo a lungo. Io vengo dal deserto, e devo tornarci spesso. Se non lo facessi, mi sentirei perso, diviso in due. Sapere che nel giro di due, tre settimane potrò rivedere i miei figli mi fa andare avanti. Una volta ho provato a restare in tour per tre mesi, ed è stato orribile».
Poi arriva il momento in cui suggerisco a Bombino dove incidere il prossimo album – o mi piace pensare di averlo fatto. Visto che ha registrato Nomad a Nashville e Azel a Woodstock, in quale altro luogo simbolico ha intenzione di andare? «Non ci ho ancora pensato. Il posto ideale sarebbe il deserto, dove tutti i sensi si affinano. Ma non ci sono studi di registrazione nel deserto, e portare lì tutta la strumentazione è troppo costoso». Lo informo che il nuovo disco di Iggy Pop è stato registrato nel deserto americano del Mojave: nello studio preferito di Josh Homme dei Queens of the Stone Age, il Rancho De La Luna. «Uhm… è una buona idea!», ammette Omara. «Il deserto americano non è male. Ma è un po’ diverso dal mio. Quello americano è vuoto, il deserto africano è pieno. Le dune cambiano colore. Di notte prendono la luce delle stelle e diventano bianche».
Quando lo scorso anno è uscito Lorenzo 2015 CC., l’accostamento dei nomi di Jovanotti e Bombino non mi ha stupito. Entrambi sostengono il bisogno di vivere a contatto con la natura: nel caso del primo è la campagna toscana di Cortona, per Bombino è il deserto del Sahara. A livello umano, sembrano accomunati da una semplicità di carattere che poco si adatta al loro status di pop/rockstar. «È stato molto bello e facile lavorare insieme», ricorda Omara. «Anche se lui non parla francese e io non parlo inglese, abbiamo comunque stabilito subito un rapporto. Mi ha regalato alcune canzoni, e nonostante io abbia soltanto aggiunto alcune cose, alla fine mi sentivo come se le avessi scritte io».
Non posso non chiedere a Omara che cosa prova a essere in questa città pochi mesi dopo gli attacchi terroristici che hanno ucciso 130 persone e ferite alcune centinaia al Bataclan e in altri luoghi di Parigi. Presumo che, in quanto originario di un Paese musulmano, e al tempo stesso musicista rock, lui debba sentirsi particolarmente coinvolto. Ma la sua risposta mi fa capire che anch’io sono colpevole di un pregiudizio: «Non sono praticante. Sono un po’ più moderno, se vuoi: bevo, fumo. Più che essere musulmano, sono nato musulmano. Quello che è successo, per me, semplicemente non si può spiegare. Ci aspettiamo sempre che qualcosa del genere avvenga in Paesi che hanno confini labili, come l’Afghanistan, ma non qui, nel centro dell’Europa. Vorrei chiudere gli occhi e dimenticare quello che è successo, farlo sparire, ma non posso».
Mezz’ora più tardi, sto bevendo una birra a Le Carillon, il locale vicino al canale Saint-Martin dove, la sera del 13 novembre scorso, i terroristi hanno sparato contro la folla seduta ai tavoli all’aperto (anche adesso, che è febbraio e fa freddo, i parigini bevono i loro drink fuori dai locali, pur di fumare). Le Carillon ha riaperto solo da qualche settimana, mentre il ristorante di fronte, Le Petit Cambodge, è ancora chiuso. Dodici persone sono morte ai due lati di questo incrocio. Dentro il locale, i parigini chiacchierano e sorridono. Se uno non sapesse, non noterebbe niente di strano. Anche io, come Omara Moctar, in arte Bombino, non posso spiegare quello che è successo, non posso farlo sparire. Semplicemente, lui, che è un tuareg del Sahara, e io, un occidentale laico, su un fatto così grave e importante per il nostro tempo proviamo la stessa cosa.
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