È uno dei dischi più onirici e fiabeschi del prog italiano, ma dietro quest’apparenza si nascondono storie a volte crudeli e dolorose. Ogni canzone parla di una donna alle prese con avversità del destino, tali vicende sono però rese quasi incantate da una musica che non eccede mai in virtuosismi ma è sempre al servizio di ciò che racconta. Gli autori di questo teatro del sogno che a volte si fa incubo si chiamano Michi Dei Rossi (batteria), Toni Pagliuca (tastiere) e Aldo Tagliapietra (voce e basso). Sono Le Orme, che, insieme a PFM e Banco, hanno attraversato l’età d’oro del prog riuscendo a coniugare perfettamente talento e successo. Il loro terzo album, Uomo di pezza, compie oggi 50 anni. È uno dei capolavori della musica italiana, con in testa la magica melodia di Gioco di bimba, che ancora oggi non smette di ammaliare (è stata interpretata anche da Francesca Michielin), sebbene la storia di cui narra non sia idilliaca come sembra.
Quella canzone – ricorda Aldo Tagliapietra – fu ispirata da un fatto di cronaca. All’epoca Toni Pagliuca lesse di un orribile stupro da parte di un pedofilo. Da lì gli vennero in mente sia la musica che le parole di Gioco di bimba, con questa triste vicenda trasfigurata in chiave poetica.
La canzone venne duramente contestata solo per il fatto di avere ottenuto successo.
Esatto, la parte più oltranzista del nostro pubblico la accolse malissimo perché il singolo era arrivato in classifica. Noi facevamo parte di quella che era la musica alternativa e a gruppi come il nostro non era permesso comporre canzoni di successo, significava svendersi. A un certo punto fummo costretti a non suonarla più dal vivo perché ogni volta eravamo coperti dai fischi.
Tutti i brani di Uomo di pezza vedono protagoniste figure femminili. Come mai?
Ricordo che Toni all’epoca disse di essere alla ricerca dell’altra metà di sé… Credo avesse conosciuto diverse donne che lo avevano ispirato per scrivere queste storie.
Anche quella di Figure di cartone è una vicenda piuttosto triste
Parla di una ragazza incinta internata per pazzia. In passato questo era un metodo per sbarazzarsi, ad esempio, di una moglie scomoda o di una figlia troppo ribelle. Le si faceva passare per pazze. Una cosa orrenda.
Io adoro da sempre Aspettando l’alba: la melodia, l’atmosfera…
Quella è nata da un mio riff di chitarra che poi abbiamo sviluppato tutti insieme. Il testo parla di amici che si ritrovano per un falò su una spiaggia, ma, come in altre parti del disco, queste parole possono avere diverse interpretazioni. Chi può dire cosa sia realmente accaduto alla protagonista?
Dopo l’irruenza di Collage, Uomo di pezza è ammantato da una patina quasi irreale. Come avvenne questo passaggio?
La verità è che con Collage cercammo di strizzare l’occhio a band che erano diventate per noi dei miti. Mi riferisco soprattutto ai Quatermass, oppure ai Traffic. Con Uomo di pezza ci focalizzammo su un suono più originale che, almeno in parte, recupera anche la nostra tradizione, il nostro essere italiani, e inserisce spunti presi dalla classica o dal folk. Volevamo realizzare un disco con più personalità, per farla breve. Poi devi sapere che noi, per scelta, avevamo deciso di fare album sempre diversi l’uno dall’altro, non volevamo ripeterci.
Dove lo registraste?
A Milano, in uno studio che era stato ricavato da un ex teatro privato appartenuto a Mussolini. La Phonogram lo aveva rilevato e trasformato in studio di registrazione per i propri artisti. Ricordo che era dotato di un’ottima acustica.
Suonaste tutti insieme?
Certo, facemmo così per tutti i dischi degli anni ’70. Si registrava dal vivo e poi si sovraincidevano le voci e poco altro. Questo permetteva di mantenere un certo feeling.
Ricordi qualche aneddoto di quelle sessioni?
Mi viene in mente che gli strumenti in studio erano piazzati esattamente come fossimo in concerto, con la batteria sopra una pedana. Avevamo addirittura messo qualche faro qua e là per cercare di riprodurre la stessa atmosfera di un live.
Arrivaste in studio con tutti i brani pronti?
Sì, tranne uno che nacque direttamente in sala tramite un’improvvisazione, lo chiamammo Alienazione. Le altre canzoni erano uscite fuori da un ritiro di un mese nelle montagne venete.
Seguivate un metodo particolare per la composizione?
Si suonava e da lì scaturivano le idee, solitamente gli spunti melodici venivano da me e poi lavoravamo tutti insieme agli arrangiamenti. Dei testi però se ne occupava quasi esclusivamente Toni Pagliuca. Questi nascevano su melodie composte insieme che poi ispiravano Toni per scrivere le parole più appropriate. Lui aveva una fantasia tendente al surreale, cosa che in quegli anni era abbastanza di moda. In realtà però spesso usava immagini e metafore per raccontare vicende reali, vedi Gioco di bimba.
Come ti trovavi a cantare parole non scritte da te?
Il problema è che i testi erano gli ultimi ad arrivare, mentre eravamo già in studio, e io dovevo interpretarli senza averli interiorizzati a sufficienza. Se avessi avuto più tempo forse li avrei cantati un pelino meglio. Per il resto credo che Toni abbia scritto parole meravigliose, i cui messaggi erano sempre consoni alla mia sensibilità.
A livello di strumentazione in questo disco fanno la loro prima comparsa il Mellotron e il Moog.
In Collage Toni simulava il Moog con un piccolo generatore di frequenza che manovrava tramite un potenziometro. Siccome eravamo alla costante ricerca di nuovi suoni in Uomo di pezza inserimmo un vero Moog e il Mellotron, quest’ultimo però ci diede un sacco di problemi dal vivo, con i suoi nastri perennemente stonati.
Tu usavi il basso Rickenbacker?
In realtà all’epoca avevo un Fender Jazz, il Rickenbacker ho iniziato a suonarlo dal disco successivo, Felona e Sorona. Lo acquistai di seconda mano dal fratello dell’attrice Laura Efrikian ed è ancora in ottimo stato, ora lo usa mio figlio Davide (chitarrista e produttore con Gianna Nannini, Tiziano Ferro e molti altri, nda) nel suo studio di registrazione a Milano.
Eri uno dei pochissimi in Italia a usare una pedaliera per i bassi.
Quella fu un’idea che rubai ai Genesis, quando li vidi dal vivo. Il loro bassista aveva una doppio manico basso + chitarra e quando suonava quest’ultima usava la pedaliera per i bassi. Siccome anche io mi destreggiavo tra questi strumenti mi informai in giro e seppi che la Eko aveva realizzato una di queste pedaliere. Così la presi e la utilizzai per qualche anno, fino a quando ne comprai una più moderna che uso ancora oggi.
Cosa puoi dirmi del ruolo di Gian Piero Reverberi in sede di produzione?
Reverberi era uno dei migliori produttori italiani, aveva lavorato con Battisti, Mina, i New Trolls… Poi era diplomato in composizione e direzione d’orchestra, era un musicista completo. Quando approdammo in Phonogram volemmo collaborare a tutti i costi con lui che diventò un po’ il nostro George Martin: noi suonavamo e lui si occupava di tirare fuori il meglio dai nostri brani. Ci fidavamo completamente di lui e ci dava sempre i giusti consigli, a volte anche censurando cose a suo avviso non a fuoco.
L’ultima curiosità riguarda la copertina di Uomo di pezza, una vera opera d’arte.
All’epoca non c’erano i video e la nostra volontà era quella di visualizzare la musica tramite un quadro. Da lì saltò fuori il nome del pittore Walter Mac Mazzieri, che qualcuno ci consigliò perché le sue opere, un po’ surreali e fiabesche, potevano essere correlate a ciò che facevamo noi. Quando vedemmo i lavori di Walter ne convenimmo, in particolare fummo attratti da un dipinto che si chiamava Garbo di neve ed era perfetto per le atmosfere di Uomo di pezza. Quel grottesco personaggio centrale con le mani sulla testa per noi era la raffigurazione dell’uomo di pezza che si dispera per l’orribile gesto che ha compiuto ai danni della protagonista di Gioco di bimba. Credo sia stato un connubio totale tra immagini e note.