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Uzeda, essere indipendenti

Sta finalmente girando per le sale italiane il documentario ‘Uzeda , Do It Yourself’ dedicato alla più internazionale delle band catanesi. I musicisti e la regista Maria Arena ci raccontano lo spirito del film, il rapporto con la città, la collaborazione con Steve Albini e perché il “do it youself” del titolo è così importante

Foto: Simone Cargnoni

«A iaddina ca camina, s’arricogghi ca bozza china», una gallina che sta in giro torna con la borsa piena. È questo il proverbio siciliano che Giovanna Cacciola ci insegna per inquadrare i primi importanti passi, forse l’intera carriera della band in cui canta dal 1987, gli Uzeda.

Un gruppo che, partito da Catania, in un solo colpo di telefono si è ritrovato a lavorare con Steve Albini (una su tutte: produttore di In Utero dei Nirvana) e pubblicare album con la storica etichetta americana Touch and Go, diventando così un vero e proprio culto nella scena noise-post-rock-alternative internazionale, dagli anni ’90 a oggi.

Ben oltre 30 anni dopo la nascita della band, Giovanna Cacciola, suo marito e chitarrista Agostino Tilotta, il bassista Raffaele Giuliano e il batterista Davide Oliveri sono meritati protagonisti di un gran bel documentario scritto e diretto dalla regista catanese Maria Arena: Uzeda – Do It Yourself.

Quella degli Uzeda è una storia illuminante fatta di libertà, musica rumorosa e dissonante, incalcolabili quantità di sudore versato, infiniti chilometri percorsi e sconfinato amore per i propri amici e per la propria città, Catania che – no – come ci spiegheranno nel corso di questa intervista, non è mai stata la Seattle d’Italia. Ma la Milano del Sud forse sì.

Ci sentiamo al telefono un sabato pomeriggio subito dopo pranzo. Giovanna e Agostino degli Uzeda sono a casa in compagnia di Maria Arena, la regista del film che hanno visto al cinema, per la prima volta, un paio di sere prima (le prossime proiezioni saranno il 9 ottobre allo Schermo Bianco di Bergamo, il 12 al Cinema Beltrade di Milano, il 13 e il 14 al Cinema Troisi di Roma).

Come si sono incrociate le vostre strade?
Agostino Tilotta: Ci siamo conosciuti in un piccolo ristorante dove io e Giovanna eravamo andati a pranzo. Mentre chiacchieravamo ci siamo accorti che c’erano anche Maria Arena e Mario Venuti. Siccome conoscevamo Mario, quando lo abbiamo salutato ci ha presentato Maria.
Maria Arena: In quel periodo stavo girando un videoclip di Mario, quindi eravamo andati a mangiare insieme. Sapevo ovviamente chi erano Giovanna e Agostino, ma non li conoscevo di persona. Mario ci ha presentati e io ho iniziato a frequentare il loro negozio di dischi, Indigena (ora chiuso, nda). Siccome stavo lavorando al mio primo film, Gesù è morto per i peccati degli altri, che aveva una colonna sonora curata dal mio compagno di allora Stefano Ghittoni composta tutta da catanesi, tra cui Cesare Basile, ho detto loro che mi sarebbe piaciuto avere anche la musica degli Uzeda, e da lì è partita una relazione importante.

Ecco, avete citato Mario Venuti, Cesare Basile, la musica di Catania. Guardando Uzeda – Do It Yourself sembra non abbiate mai usato il famoso paragone-tormentone Catania/Seattle d’Italia tanto in voga negli anni ’90.
Maria: Lo diciamo una volta in realtà, e ce ne siamo quasi pentiti. Ci avevamo pensato a non unirci a questo coro perché è una cosa che spesso è stata detta da quelli che non c’entravano niente con Seattle intesa come scena e genere musicale. Ma poi col montatore ci siamo anche resi conto che forse eravamo gli unici nella posizione per dirlo e allora sì, c’è una scena in cui Agostino lo dice.
Agostino: Ci fu un giornalista dell’edizione americana di Rolling Stone che se ne uscì con questa frase: «Catania come Seattle», ma poi come sempre accade questa cosa è stata ripresa dal mainstream e utilizzata a caso.
Giovanna Cacciola: Faceva figo dirlo, ma noi sapevamo bene che non eravamo minimamente vicini a essere come Seattle.

Comunque Catania, già negli anni ’80, era una città con una scena underground più che vivace, dal già citato Mario Venuti con i Denovo ai Boppin’ Kids di Brando (il cui nome compare nel documentario quando si vede un articolo dell’epoca di Billboard, pezzo che ovviamente cita gli Uzeda, nda).
Agostino: Catania è un posto dove si è sempre suonato, dagli anni ’70 e anche prima. Ed è una cosa che non riguarda solo il rock perché per esempio c’è sempre stato tutto il mondo della canzone napoletana. A Catania si vende più musica neomelodica che a Napoli.

Vero, per esempio Gianni Celeste canta in napoletano, ma è di Catania.
Agostino: Forse è per via del Regno delle due Sicilie, per questo c’è sempre stata una grande diffusione della musica napoletana e ora una grande passione per i neomelodici.
Maria: C’è una forte tradizione musicale che condividiamo con il Nord Africa: il mio prossimo film sarà sul Maghreb, un posto dove suonano sempre. E non è che suonino in sala prove o posti strutturati…
Agostino: Ma anche qui si suonava sempre e comunque. L’urbanistica di Catania è fatta di cortili naturali, tu cammini e se apri i portoni ci trovi dietro grandissimi giardini, un mondo. Vero, può essere sempre per via della tradizione araba.

A proposito della posizione geografica di Catania, quando avete deciso di chiamarvi Uzeda eravate già consapevoli dell’importanza simbolica della scelta? Uzeda è una porta della città, una porta che voi avete aperto a un certo mondo della musica, attraversandola e viaggiando lontano, accogliendo tanti artisti stranieri che senza di voi, forse, mai sarebbero arrivati a Catania (nel documentario vengono citate le date catanesi di Make-Up e Fugazi, nda).
Giovanna: Certo, un nome ti convince soprattutto se ha dei legami con la realtà che vivi o con quello che stai facendo. Quella porta è speciale perché è come se fosse un collegamento fra la parte più popolana di Catania e la parte architettonica-monumentale della città.
Agostino: Era un confine oltre il quale c’era chi viveva nei quartieri più poveri e il porto. Uscendo da quella porta, c’era il mare. Quindi per noi significava scegliere un punto di vista: da quale prospettiva guardo questo luogo? Da una parte c’era per esempio il Palazzo del Sindaco e dall’altra c’era il mercato del pesce, quindi qui intorno si mescolavano persone di qualsiasi ceto sociale, generando un suono che era la somma di tutto. Con al centro un’unica cosa: il cibo.

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, cosa significava per voi andare oltre quella porta per partire e fare un tour in Italia?
Giovanna: Paradossalmente, per noi pensare di andare a Milano o a New York non faceva alcuna differenza perché eravamo distanti da tutto e da tutti. Già negli anni ’70, tanti ragazzi catanesi andavano a Napoli, Roma o Milano per ascoltare musica dal vivo perché a Catania non c’era niente. Ma a questo punto, se devo proprio prendere un aereo, me ne posso andare anche a Londra. E quella che era una difficoltà, per noi è sempre stata anche un’occasione, una ricchezza.

Forse è anche per questa attitudine dinamica dei catanesi che Catania è stata spesso indicata come Milano del Sud?
Maria: Forse è dovuto alla capacità commerciale di Catania, che è sì una città della Sicilia, ma molto distante per esempio da Palermo. È una città di levantini, gente che partiva e tornava di continuo per via dei traffici marittimi: anche in questo forse è molto vicina al Medio Oriente, ma forse per questo può essere accostata anche a Milano come città dinamica. I catanesi poi si lamentano che non hanno una lira, ma sono sempre fuori a mangiare e bere, fino a notte fonda…
Giovanna: Vero! Una risposta interessante a questa domanda ve la può dare un documentario girato all’inizio degli anni ’70 dove c’è Pippo Fava che descrive la città di Catania nel modo più completo possibile, dando uno spaccato del carattere e dello spirito dei catanesi, diverso da quello di tutto il resto della Sicilia. Tutto il resto della Sicilia è calmo… noi no!
Maria: Vabbe’, perché c’è il vulcano!

Tornando alle diverse prospettive attraverso cui guardare il mondo, nel vostro documentario c’è uno studente universitario della UCLA che arriva a Catania per fare una tesi sulla musica degli Uzeda ed è molto interessante ascoltare parte della vostra storia attraverso le risposte che date alle domande per la sua ricerca. Come vi siete sentiti a essere coinvolti in un progetto accademico simile?
Giovanna: Prima ci siamo fatti una bella risata!
Agostino: Mi ha chiamato Steve Albini: «Guarda, ho parlato con questo ragazzo che è un ricercatore della UCLA, si vuole piazzare lì da voi, magari dagli una mano a trovare una casa…». La prima cosa che gli ho risposto è stata: «Ma sei sicuro?!? Non è che hai sbagliato gruppo?». E lui ribatte: «No, no, I don’t make mistakes that way». Alla fine eravamo ovviamente contenti, emozionati e anche un po’ imbarazzati. E poi ci siamo trovati con questo soggetto che ha vissuto con noi per cinque mesi e ora viene sempre qui, praticamente è diventato uno di famiglia. La sua tesi era che, dagli anni ’40 in poi, tutte le coordinate legate al mondo del rock venivano dettate da un’idea anglo-americana della materia, ma a un certo punto questo meccanismo è cambiato. E quando ha fatto questa proposta alla UCLA di Los Angeles loro lo hanno finanziato, gli hanno detto ok, vai. È stato interessante.

Visto che abbiamo parlato di un universitario che ha deciso di fare una tesi sugli Uzeda, com’è nata invece l’idea del documentario?
Maria: Finito il film Gesù è morto per i peccati degli altri avevamo ormai instaurato una bella relazione, io avevo usato un loro brano per cui la gente che lo sente mi chiede sempre: «Ma è Björk?». E io dico: «No, è Giovanna Cacciola!». Più trascorrevo tempo con loro, più li conoscevo e sentivo le loro storie, pensando fossero incredibili. E a un certo punto gliel’ho detto: voglio fare un lavoro su di voi. Sarà lunga, devo trovare i soldi, ma comincio…
Agostino: E io le ho risposto: lascia perdere!

Quanto tempo ci è voluto alla fine per girarlo? E quanto è costato?
Maria: Abbiamo iniziato otto anni fa, c’è stato di mezzo il Covid, ma non abbiamo mai mollato. Abbiamo lanciato un crowdfunding e la risposta del pubblico è stata immediata, ci hanno risposto anche fan dall’Australia, e alla fine abbiamo raccolto 20 mila euro.

Agostino, Giovanna, che effetto vi fa ora essere protagonisti di un documentario, vedere la storia degli Uzeda sul grande schermo?
Giovanna: All’inizio stavo male perché era come aprire una porta intima della mia esistenza, dove di solito faccio entrare solo i miei amici, e la stavo imponendo agli altri, una cosa che per me non stava né in cielo né in terra. Ma quando poi ho visto il documentario finito mi sono resa conto che è stato un lavoro di condivisione, non solo con Maria e con gli altri del gruppo, ma anche con il luogo dove sono nata e cresciuta e dove tutto quello che ho fatto si è sviluppato. E così mi è sembrato anche un gesto di gratitudine verso le persone che ci circondano.
Agostino: Quando il documentario era finito e Maria ci ha chiesto di andarlo a vedere le ho detto: «Dimmi per quale motivo io, da spettatore, dovrei alzare il culo dalla sedia e andare a vedere me stesso che dico cose che già so? Non ti posso garantire che magari dopo 6-7 minuti non mi alzi per andarmene…». E lei ha preso fiato e mi ha risposto: «In questo momento non riuscirei a spiegartelo, ma tu fidati». Aveva ragione lei.

Avete fatto bene a fidarvi. Girando il documentario, guardandolo una volta finito, avete scoperto aspetti degli Uzeda che non conoscevate? Ci sono cose che vi hanno stupito, magari commosso?
Maria: La cosa che mi ha colpito di più è stata poter parlare in questo modo di libertà. Nessuno sa cos’è, nonostante oggi se ne parli tanto. Ecco, nella storia degli Uzeda c’è un modo di vivere la libertà che io ho trovato straordinario da comunicare: libertà non è fare solo quello che voglio, ma fare anche tanti sacrifici. Quanti dischi hanno fatto uscire gli Uzeda in 30 anni? Non è che ne hanno tirato fuori uno ogni due anni (cinque album, il primo nel 1989 e l’ultimo nel 2019, più un paio di EP, tra cui le mitiche Peel Sessions, nda).
Giovanna: È come se una cosa che stai vivendo a un certo punto si bloccasse, e tu la rivedi tutta in sequenza e magari non è proprio come te la immaginavi. Però ce l’hai tutta davanti. Il film mi ha ricordato quanto ridiamo quando siamo insieme, è uno degli aspetti che ha sempre giocato un ruolo importantissimo nel nostro gruppo, dove ovviamente ci sono anche tante tensioni. Ma ci sono momenti di leggerezza e assoluta ironia che ci appartiene come abitanti di questo posto. I catanesi sono famosi per essere autoironici, in modo anche esasperato.
Agostino: Ognuno di noi ha un carattere diverso e questo secondo me rende la nostra forza dinamica ed esplosiva, anche quando ridiamo. Per esempio, mi ricordo che eravamo in Sardegna per una serie di concerti e dovevamo fare un’intervista per una tv sarda. A un certo punto ho sentito dei suoni strani e mi sono defilato, ho lasciato loro tre da soli e mi sono ritrovato in uno studio dove stavano registrando un festival della canzone sarda. Cosa ho fatto? Mi sono seduto in mezzo al pubblico e sono rimasto là ad ascoltare, fino a quando Giovanna non mi è venuta a prendere: «Senti, non è bellissimo, c’è il giornalista che ci aspetta…».
Maria: E infatti nel film c’è un’immagine di repertorio in cui cantate canti sardi con i bambini che vi girano intorno!
Agostino: Riguardando il film, siccome sono molto critico verso me stesso, mi è capitato di dire «Caspita, magari quella camicia potevo evitarla!».

Steve Albini. Foto: Simone Cargnoni

All’inizio del documentario, siete in furgone e Giovanna dice un proverbio siciliano che descrive bene l’attitudine do it yourself. Com’è?
Giovanna: A iaddina ca camina, s’arricogghi ca bozza china, una gallina che gira torna con la borsa piena.

Ecco, a proposito: avete girato tanto e raccolto tanto, ma come siete arrivati a lavorare con Steve Albini?
Agostino: Con una telefonata, che è tipico del nostro essere spontanei, naturali. Ricordo che una volta, dopo un concerto al nord, un ragazzo mi fermò per chiedermi: «Scusa, ma tu come hai fatto per parlare con Steve Albini?». Ho preso il numero di telefono e ho chiamato! «Ma tu questo numero di telefono me lo puoi dare?». No, non te lo posso dare, devo chiedere a lui. «Ma come hai fatto veramente?». Ho fatto che sui dischi della Touch and Go, prima di internet, c’era un numero di telefono, io sono andato in una cabina telefonica con i gettoni e ho chiamato, convinto che mi rispondesse Steve Albini. Ma mi hanno risposto dal centralino. Una persona che poi ho conosciuto, era Scott Giampino, che mi ha detto: «No, Steve non è qua, questa non è casa sua, questa è una casa discografica». E io come faccio adesso? Io chiamo da Catania, una città in un’isola sperduta! E lui mi ha detto: «Non ti preoccupare, ti do il suo numero. Ce l’hai una penna?». Ricordo di aver preso un fazzolettino di carta e ci ho scritto su il numero e così, nel modo più semplice, ho chiamato Steve Albini.

Sempre parlando di telefonate, una decina di anni fa Gianna Nannini in un’intervista a Rolling Stone ha raccontato proprio di avervi cercati al telefono per entrare in contatto con Steve Albini…
Agostino: Ci aveva chiamati al telefono perché ci voleva conoscere. La storia è questa: lei era in aereo, aveva comprato all’aeroporto una rivista musicale in cui c’era un articolo sugli Uzeda e leggendolo si era interessata a noi. Così chiamò il numero di telefono dell’ufficio di Indigena, dove rispose il nostro manager di allora, Nuccio La Ferlita, che poi mi chiama e mi dice: «Ha telefonato Gianna Nannini!». Mi avesse detto che ci cercava Garibaldi sarebbe stato più facile credergli. Comunque, lei aveva sentito i nostri dischi ed era interessata a quel tipo di suono.

E poi alcuni di voi sono finiti a suonare con Gianna Nannini, giusto?
Giovanna: Davide e Raffaele, batteria e basso. Hanno suonato con lei in un periodo in cui noi eravamo impegnati con un’altra band, i Bellini, con cui abbiamo fatto quattro dischi sempre prodotti da Steve Albini (Davide Oliveri e Raffaele Gulisano degli Uzeda hanno registrato gli album di Gianna Nannini Aria del 2002 e Pia come la canto io del 2007, nda).

Ora che non c’è più, che effetto vi fa vedere Steve Albini così presente nel vostro film? Le scene in cui vi incontrate in studio, all’inizio del film, sono davvero toccanti.
Agostino: Diciamo che la prima volta che ho visto il film avevo gli occhi che mi sudavano un po’. Proprio all’inizio di quest’anno gli dicevo: Steve, dovremmo fare un tour insieme. E lui mi aveva risposto: «Sì, ma dobbiamo vedere come siamo messi con i vari lavori…». Gli Shellac, come gli Uzeda, hanno altri lavori: Steve fa l’ingegnere del suono, Todd è un insegnante di batteria… Diciamo che la sua morte non me l’accollo tanto bene, non l’ho ancora assorbita. Quindi per me lui è ancora vivo.
Giovanna: Noi ne parliamo quasi sempre al presente, come se dovessimo sentirlo da un momento all’altro.

Gli Uzeda con i Fugazi a Washington DC. Foto press

Nei titoli di coda del film c’è una dedica per un’altra persona che non c’è più, Marco Mathieu.
Agostino: Oltre a essere stato il bassista di un gruppo importante come i Negazione e una figura fondamentale agli inizi di questo movimento, noi eravamo molto molto amici di Marco. Anche lui era buddista come noi. Quando abbiamo fatto un incontro a Catania con Corey Rusk della Touch and Go, lo avevo invitato per fare da traduttore. Marco, traducilo tu! E Marco mi dice: «Ma perché chiami me, che tu parli l’inglese meglio?!». Perché io non posso fare l’organizzatore e pure tutto il resto, mi piace anche guardare e ascoltare… E quindi Marco è venuto a fare il traduttore.
Maria: Ecco, nel documentario quel pezzo di repertorio con Marco e Corey Rusk a Catania manca, come manca anche il video della masterclass di Steve all’università.
Giovanna: Marco era un caro amico e tutta la storia dell’incidente e tutti quegli anni passati inutilmente in un letto sono stati molto dolorosi. L’unica fortuna per noi è stato vederlo poco prima dell’incidente perché era venuto a un nostro concerto a Roma, questo è un piccolo conforto.

Nel documentario c’è un grande momento di festa: il concerto a Catania per il vostro 30esimo anniversario insieme a The Ex, Black Heart Procession, Shellac, June of 44 e Three Second Kiss… Quanta gente c’era?
Agostino: Ne parliamo sempre non come di un festival, ma come di una festa di compleanno. Mi ricordo che quando facevamo la scaletta della serata, Bob Weston, il bassista degli Shellac, mi diceva: «Facci suonare per primi così fate voi da headliner». E io gli ho risposto: «È la nostra festa e decidiamo noi quando suonare, quindi voi suonerete per ultimi!». Alla fine c’erano 1500 persone di media a sera. Che è stato un bene perché con un minimo di sforzo abbracciare 3000 persone è una cosa fattibile, ma sarebbe stato molto più difficile farlo con 5 o 6000 persone.

Proprio verso la fine del film voi e gli altri intervistati date la vostra definizione di musica indie. Cosa significa per gli Uzeda essere indipendenti?
Agostino: Essere indipendenti significa non legare la propria musica a nessun tipo di costrizione, sia essa di natura economica o concettuale. La libertà non è gratuita, la libertà costa. Poi, quale sia il prezzo della libertà, lo decide ognuno di noi. Io dico che la libertà, quando è a buon mercato, forse non vale così tanto.
Giovanna: Quand’è che diventi indipendente dalla tua famiglia? Basta pensare a questo: quando riesci a stare sulle tue gambe e mantenerti da solo, e questo ti permette di fare la vita che desideri. I due concetti non sono tanto lontani: io non voglio nessuno che mi dica cosa fare, quando farlo e come farlo, seguendo linee ed esigenze commerciali. L’unica scelta che ho è fare tutto da me perché altrimenti dovrò andare dietro a quello che qualcun altro mi dice di fare. E in questo non c’è alcun giudizio. È una scelta: io posso decidere di andare a una festa mettendomi i tacchi alti perché mi piace essere elegante. Oppure scelgo di andarci con delle belle scarpe da ginnastica perché voglio ballare tutta la notte. Non è che una cosa sia peggio e una meglio, dipende solo da cosa è adatto alle mie esigenze.

Agostino e Giovanna, voi due siete praticamente casa e bottega. Suonate insieme negli Uzeda da oltre 30 anni e state insieme da…?
Giovanna: Siamo regolarmente sposati dal 1977!

E com’è vivere e lavorare sempre insieme?
Giovanna: È molto difficile, è come portarsi sempre il lavoro a casa, ma diciamo che se giri la moneta, dietro la difficoltà, c’è sempre una grande occasione.
Agostino: Io ammiro quello che abbiamo, anche se certe volte, guarda… È veramente pesante perché ognuno di noi ha un ruolo nella band, un’identità ben precisa. Lei è la voce, che è uno strumento del gruppo, io la chitarra, ma al tempo stesso siamo anche compagni di vita. Ognuno esprime la propria opinione e lei a volte è talmente diretta… Per esempio, quando siamo in sala noi tre maschi che l’aspettiamo, parte il basso, parte la batteria, parto io con la chitarra e ci gasiamo. Ci diciamo, che bella sta cosa! Poi arriva lei, la ascolta e, con molto molto snobismo, dice: «A me non piace per niente. Se a voi piace, la potete fare benissimo strumentale!».
Giovanna: Ma oltre a suonare insieme, Agostino dà lezioni di chitarra e io faccio le mie cose di serigrafia. E poi però lavoriamo, ancora insieme, per il booking.
Agostino: Ultimamente siamo stati in giro per nove date con i Black Heart Procession e sette date con Bonnie Prince Billy. Quando va così torniamo a casa e la troviamo distrutta perché manchiamo da troppo tempo… Ma è anche bellissimo!

Ormai andate per i 50 anni di matrimonio, ma cosa farete prima per festeggiare i 40 anni di Uzeda?
Agostino: Non vogliamo anticipare nulla, ma stiamo pensando di fare qualcosa di veramente grande, magari sull’Etna!

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