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Valerio Lundini è verosimilmente anche un cantante

E come sempre, non si sa fino a che punto prenderlo sul serio. Fatto sta che ‘Innamorati della vita’ è il secondo album col suo gruppo, I VazzaNikki, che esiste da prima della ‘Pezza’ e con cui ha suonato in tutte le situazioni, «tranne quelle fighe». L’intervista

Foto: Azzurra Primavera

Intervistare Valerio Lundini non è semplice. Per sua stessa ammissione, quando legge una sua intervista da un lato pensa «quante stronzate che ho detto», dall’altro gode delle follie che ha dichiarato. «L’ufficio stampa ha l’ansia dei titoli, ma io preferisco le sparate folli rispetto a cose normali dove dici: ma guarda ’sto cojone».

Quella che state per leggere, quindi, è una chiacchierata che tiene conto di questo paradosso di fondo, che è anche la cifra stilistica del comico rivelazione degli ultimi anni. Se a tutto ciò aggiungiamo che non ci siamo ritrovati a parlare di un programma tv o di uno spettacolo teatrale, ma del nuovo disco della sua band che si chiama I Vazzanikki (ogni riferimento non è puramente casuale), allora la questione si complica. E in tale complessità, spesso indotta senza voler trovare una via d’uscita, Lundini sembra nel suo habitat naturale.

Così è meglio partire dalle informazioni di base: Innamorati della vita è il loro secondo disco, composto di 11 canzoni ricche di humor e nonsense. Per farcelo raccontare dal «più famoso della band», come recita la presentazione, sperando che «il disco possa essere ascoltato e apprezzato ai piani alti», siamo dovuti arrivare persino a leggergli l’oroscopo. Cosa c’entra con la loro musica? Beh, il singolo Parabola ascendente si prende gioco di chi si professa non credente, ateo, agnostico e poi crede nello zodiaco. Così Valerio, messo di fronte alle previsioni di Paolo Fox e Branko diametralmente opposte, esclama: «A questo punto meglio Gesù, no?».

Niente di sacrilego, anzi. Dopo quello che ha spiegato, probabilmente il pubblico dei VazzaNikki nel tour in corso in giro per l’Italia verrà popolato di ferventi cattolici: «Mi aspetto uno stuolo di Papa Boys». Nel mentre ha preferito raccontarci qual è il pezzo meno riuscito dell’album, che per questo motivo proporrebbe ai Måneskin in feat: «Se facessimo il nostro più bello poi, quando sentono gli altri, penserebbero: ah vabbè, era un fuoco di paglia». Invece no, partire dalle basse aspettative è il suo segreto: «Non ho mai avuto grandi ambizioni, credevo che avrei fatto un lavoro timbrando il cartellino».

È andata diversamente, almeno per ora, ma lui continua a non montarsi la testa. Non a caso, quando gli chiediamo se tornerà mai in Rai con Una pezza di Lundini, risponde serafico: «Se lo dovessi rifare, diranno: ma sai che era meglio prima?». C’è invece qualcosa che, di certo, non farà più: «Lanciare bambolotti dal palco, ho capito che possono uccidere». Sarà una storia successa davvero? Non è importante, il trucco forse è rendere tutto verosimile.

Valerio, da 1 a 10 quanto ti piace fare le interviste?
Eh, che domande! Farle mi diverte, a volte, perché chiacchiero con piacere. Leggerle invece mi fa molto meno piacere. Non tanto per come vengono trascritte, ma proprio perché penso: mamma mia quante stronzate che ho detto…

Come mai?
Perché mi ritrovo di fronte alla forma scritta di pensieri confusi che ho detto mentre parlavo.

Tutta colpa dei titolisti?
Il mio ufficio stampa ha l’ansia dei titoli, perché a volte escono virgolettati di cose che non ho detto, o peggio che ho detto senza rendermi conto che erano fesserie. Però ultimamente ne sono uscite alcune belle.

Quali?
Una dopo l’ospitata da Linus e Nicola Savino a Deejay Chiama Italia. Siamo arrivati a parlare dell’educazione sessuale dalle suore, che per me era terribile. Ci facevano vedere delle diapositive di cose che io, a quell’età, non avrei voluto conoscere. Alla fine ho detto che è stato un problema per me e Savino, scherzando, ha aggiunto: quando hai risolto questo problema? E io ho: mah guarda, è stato complicatissimo fino ai 36 anni, poi mi sono ripreso. Così è uscito su un sito un articolo dal titolo:
“Valerio Lundini e il sesso: è stato complicato fino ai 36 anni”. Dai, quello è davvero un capolavoro!

E l’altra?
Mi hanno chiesto: se ti dicono “genio” tu cosa rispondi? Di solito rispondo che i geni sono quelli che inventano le medicine per salvare le vite, invece quella volta ho detto: chi mi chiama genio mi sottovaluta. Anche quella frase è uscita come titolo. Però alla fine preferisco queste sparate folli, rispetto a titoli normali dove pensi: ma guarda ’sto cojone…

Adesso però mi hai messo ansia da prestazione per il titolo di questa intervista.
Ma voi giornalisti avete sempre la scusa dei titolisti, che me li immagino come creature disgraziate che fate uscire dalle cantine, mettono i titoli e poi li richiudete là dentro.

Senti, ma tra le tue attività, che sono tv, radio, fumetti e scrittura, la musica quando è arrivata?
Prima di tutte le altre. Da bambino ho cominciato con la pianola e poi ho proseguito con il pianoforte. A fine liceo ho messo su una band e dopo il liceo sono nati i VazzaNikki. E poi abbiamo suonato in un migliaio di situazioni di qualsiasi tipo, tutte tranne quelle fighe.

Avete fatto la gavetta.
Sì, i migliori casi era pub o matrimoni, nel peggiore in locali orribili dove dovevamo portarci noi dalle prese della luce alle casse per poi suonare di fronte a tre persone. Con il tempo è andata sempre meglio, ma dal punto di vista del nostro divertimento. Non siamo mai stati una band che spostava moltissima gente. Però ci siamo tolti delle soddisfazioni. Possono dirci di tutto, ma non che ci manchi la gavetta. Ci sarebbero un sacco di aneddoti assurdi su posti dove non sappiamo neanche noi come ci siamo finiti. Da feste dei motociclisti, che ci chiamavano due volte l’anno, a ristoranti di paese dove suonavamo rock and roll per signori attempati. Mai situazioni glamour.

Non ve le hanno proposte o non le avete neanche cercate?
Secondo me non abbiamo l’approccio giusto a quelle situazioni. Facevamo cover di Elvis Presley, Chuck Berry, Blues Brothers e poi ci aggiungevamo pezzi nostri in italiano che non avevano nessun senso. A volte parlavano di un amico nostro logorroico, un’altra dei tipi che ci stavano antipatici in modo che loro non lo capissero. Solo che alla fine non lo capiva nessuno. Nel primo disco c’erano tre, quattro pezzi che effettivamente hanno un senso, tutti gli altri contengono riferimenti a nostri inside jokes. Quindi siamo stati auto-sabotanti rispetto alla nostra possibile carriera.

Giovani e vincenti: Valerio Lundini e I VazzaNikki. Foto: Azzurra Primavera

Non hai mai sognato di diventare una rockstar?
No, anche perché non ho mai avuto grandi ambizioni in generale. Neanche di fare il comico, l’attore o l’astronauta. Ho sempre pensato che avrei fatto un lavoro timbrando il cartellino e mi andava bene, infatti l’ho anche cercato. La band era soltanto un modo per guadagnare qualche soldo per pagarmi le spese che avevo da ragazzo. È una vita che da adulto, a meno che non suoni tutti i giorni a un matrimonio dove ti danno qualche centinaio di euro, non è fattibile. La band è sempre stato un divertimento che poi si traduceva in un piccolo ritorno economico.

Avete fatto la gavetta come i Måneskin, solo che in voi si è interrotto qualcosa.
Ecco, noi abbiamo suonato pochissimo per strada. Solo all’Isola d’Elba e per un breve periodo. Sarà quello?

Non credo sia per quello. Ma se per caso vi chiamassero i Måneskin per un feat su un pezzo del vostro repertorio, quale gli proporresti?
Di certo quello più debole. Sceglierei Lonza, che è il brano meno riuscito del disco. Se metti “feat Måneskin” viene ascoltato da un pubblico mondiale che magari lo considera carino e quando si ascolta le altre canzoni del disco sente che suonano meglio. Se invece facessimo il nostro pezzo più bello, quando poi la gente sente gli altri pensa: ah vabbè, era un fuoco di paglia.

Ma il vostro pubblico ha qualche rituale? Per esempio ai concerti di Vasco a un certo punto lanciano i reggiseni. E a quello dei VazzaNikki?
Non abbiamo un momento rituale come quello, forse perché cerchiamo di essere sempre meno schematici possibile. Mentre nei miei spettacoli da solo è tutto studiato al millimetro, in maniera quasi psicopatica, con la band lasciamo tantissime porte aperte all’improvvisazione. Perché, per esperienza, ho notato che se qualcosa va male un modo per risolverlo lo troviamo sempre. Se invece succede nel mio spettacolo, alla fine mi impicco. L’elemento estemporaneo dei VazzaNikki può essere lo stimolo per inventarci una cazzata. Però sai, adesso che mi fai pensare, un rituale abbiamo provato ad averlo. Solo che è durato poco…

Da come ne parli non deve aver funzionato, o sbaglio?
A un concerto a Roma ho lanciato dal palco un bambolotto, ma l’ho lanciato male e ho colpito in faccia, in un occhio, la mamma del batterista. E non è stata una bella scena. Da quel giorno ho smesso. Pensavo che fosse un gesto innocuo, invece ho capito che un bambolotto può uccidere. La mamma è viva eh, diciamolo, però si è fatta veramente male.

Invece la vera Iva Zanicchi ha detto che ha scoperto della vostra esistenza pochi anni fa. Vi siete mai confrontati sul fatto che le avete cannibalizzato il “brand”?

Ma sai, alla fine non abbiamo rubato perché il nome è scritto in maniera diversa. Una volta sono andato ospite di un programma di Serena Bortone, che mi ha fatto la sorpresa di mandare in onda un videomessaggio di Iva Zanicchi dove mi salutava e spiegava di averci scoperti. Mi è sembrata sinceramente lusingata della circostanza. Anche perché non la prendiamo in giro. In realtà il gioco di parole non è mai una presa in giro, ma è un esercizio sulla lingua. In questo modo puoi parlare di chiunque.

Un duetto con lei sarebbe troppo scontato?
Ci avevamo pensato, però sì. Il rischio è quello di essere scontati. E siccome esistiamo da ormai 15 anni, a un certo punto ci siamo dimenticati che il nome nasce da lei. Sarebbe un po’ come spiegare una battuta, visto che è abbastanza palese. Fa più ridere che la gente non sappia mai scrivere il nome della band, una volta con la i, un’altra senza, oppure staccato.

In Parabola ascendente prendete in giro chi si professa non credente, ateo, agnostico e poi crede nello zodiaco. Tu hai letto il tuo oroscopo di luglio 2024?
Non ho mai letto un oroscopo di mia spontanea volontà.

Te lo leggo io. Il tuo segno zodiacale è Pesci e Paolo Fox per luglio recita: «Una piccola pausa di riflessione è consigliata». Non proprio di buon auspicio per il tour…
Vedi che non ci azzeccano mai? È incredibile…

Però attenzione, Branko forse ci becca: «Lavoro, viaggi, salute, studio. E troviamo molto interessante l’inclinazione ai piccoli affari, di vario genere e numerosi».
Ma anche qui, che senso ha che ci siano tutti questi astrologi che dicono cose diverse? Nella Chiesa cattolica non c’è un prete che dice «andate a trombare» e un altro invece «rimanete a casa vostra». A questo punto meglio Gesù, no?

Questo è un endorsement inaspettato.
Io sono ateo, però mi spiace l’idea che la fede sia considerata un credo meno glamour dell’oroscopo. Ma sempre della stessa cosa stiamo parlando, no? Cioè di affidarci a qualcosa che non vediamo e di cui ci fidiamo a prescindere. Come quando esci con una persona e inizia a parlarti dell’oroscopo, per te è ok. Se invece comincia a parlarti del Vangelo pensi che, forse, è uno squilibrato. Io mi schiero in difesa degli amici cattolici. Mi auguro che se ne ricordino quando ci sarà da vendere i biglietti. Mi aspetto uno stuolo di Papa Boys.

Un’altra categoria molto sensibile è quella dei battistiani, che però tu hai sfidato in una recente intervista dichiarando: «È più facile fare un pezzo alla Battisti che un pezzo alla Squallor». Hanno già iniziato a scriverti sui social?
Ma infatti ho detto una cazzata!

È una delle sparate da titolo?
Esatto, anche perché io stesso sono battistiano. Vedi, spesso uno deve dare delle risposte a questioni sulle quali non ha mai riflettuto, come in quel caso. E nove su dieci dirai una stronzata. È sbagliato l’esempio di Battisti, però tu puoi fare la parodia di un brano universale di Lucio Battisti, Gino Paoli o Claudio Baglioni, mentre di band demenziali come gli Squallor o gli Elio e le Storie Tese se vai sul loro stile non funziona. Se rubi l’immaginario di Battisti lo stai omaggiando, se lo fai degli Squallor sembra che tu stia facendo finta di essere loro. È come scrivere un libro con lo stile di Raymond Chandler, viene percepito come un omaggio. Ma se scrivo un monologo come Alessandro Bergonzoni sembra la brutta copia.

Parlando di una tua passione come il fumetto, oggi sembra che sia tornato forte nell’immaginario collettivo grazie a Zerocalcare, anche con una certa forza critica.
Sì, ma non credo che il fumetto riesca sempre a far discutere come in passato. Zerocalcare è un caso unico per il suo successo enorme. Anzi, credo proprio che il fumetto si sia ripreso grazie a Zerocalcare, oltre ad alcuni artisti molto bravi. Ma lui è bravissimo e molto produttivo. Non so come faccia, credo che sia talmente oberato di impegni che non ce la fa più. Il fumetto è una forma di espressione bellissima che a me un po’ manca. Se devo essere sincero mi piacerebbe rimettermi a scrivere fumetti.

Non hai mai pensato di prenderti il tempo per farlo?
Sì, ma forse perché negli ultimi tempi mi sono fatto abbacinare dalla facilità con cui alcune cose puoi farle in video. Anche se con un fumetto puoi raccontare una storia che si svolge nel Far West e non devi pagare un euro di costumi, attori e location. Invece per uno sketch di pochi minuti devi affrontare costi di produzioni proibitivi. Ci ho pensato di rimettermi, però mi piacerebbe molto di più disegnarlo che scriverlo. Di scrivere la storia adesso non mi va.

La stand-up comedy invece oggi la fanno tutti. Si è un po’ affievolita la sua carica dirompente?
Io non sono un grande frequentatore. Ho degli amici molto bravi che si distinguono in quel genere, come Edoardo Ferrario, Daniele Tinti, Stefano Rapone o Carmine Del Grosso. Loro li vado a vedere e mi diverto. Ma non sono un grande fan degli stand-up comedian americani, non seguo tutti quegli special su Netflix. Dopo un po’ che parlano mi viene da dire: vabbè ma fai qualcosa. C’è stato un boom, ma a differenza del suonare non è così facile salire sul palco e parlare. Mi è capitata qualche serata di open mic ed è stato un incubo.

Per la violenza delle battute?
No, perché c’erano delle persone che si umiliavano. Non lo avrei mai fatto. Io ho cominciato a salire su un palco quando ero sicuro che quello che portavo poteva funzionare. Ecco, forse se rivedessi i nostri primi concerti con I VazzaNikki avrei la stessa sensazione. Però sono convinto che sia meglio salire su un palco e suonare male che salire su un palco e parlare a un pubblico che ti guarda come se stesse guardando una tenda.

C’è una battuta che ti ha gelato?
Non mi piace quando cercano l’approvazione del pubblico. Se hai di fronte gente che odia la polizia e fai battute sulla polizia, allora mi annoio. Mi interessa di più quando si prendono le parti degli altri. Come sulla religione. Infatti tra il pubblico dei VazzaNikki è più facile trovare gente che crede nell’oroscopo che gente catechizzata. Non mi piacciono le pacche sulle spalle. Parlare male di Salvini a un pubblico che odia Salvini è vincere facile. Mi diverte se chi sta sul palco è antagonista rispetto al pensiero di chi si trova di fronte. Sono troppo serio? Non vorrei fare una tesi sull’argomento…

Non è da titolo, ma è molto interessante.
Eh vedi? Da titolo sarebbe: «Sul palco dovete dire W Salvini».

Per questo in un’altra intervista hai detto che avresti preferito condurre il Meteo invece di Sanremo?
Ovviamente non l’ho mai detto. Mi hanno chiesto cosa penso dell’esodo dalla Rai verso altri canali e ho risposto che se tutti se ne vanno rimango solo io e posso finalmente condurre tutto quello che voglio, da Sanremo al Meteo. E la giornalista: «Anche Sanremo?». E io: «Sì, ma è più bello il Meteo». Che sembra una presa di posizione contro Sanremo, che invece farei.

A me ha ricordato Battiato quando in Bandiera bianca cantava: «A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata».
È vero! Adesso che mi ci fai pensare è molto simile.

Invece per chiudere con la tv, sei impegnato nella scrittura di Faccende complicate, la serie di reportage realizzati in giro per l’Italia ma, parafrasando un altro grande cantautore come Franco Califano, non escludi il ritorno con Una pezza di Lundini?
Non escludo il ritorno, ma non lo sto valutando. Sai, ho un po’ paura. Quando qualcosa va molto bene ho sempre il timore che, continuando a farla, si dia l’illusione di qualcosa di bello ma che, in realtà, annoia la gente. Ogni volta che viene annunciato un sequel le persone all’inizio sono contente, poi quando esce non gliene frega niente. L’aspettativa è più grande dell’effettivo clamore per quella cosa. Adesso tutti mi dicono di rifare Una pezza di Lundini, ma quando uscirà andrà peggio delle altre versioni e cominceranno a dire «ah vabbè è tutto già visto». E poi diventerà: «Ma sai che era meglio prima?».

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