«Benjamin diceva “chi esita costruisce labirinti” e io sono un grande esitatore. Guardando dall’alto i miei movimenti sulla terra negli ultimi tre anni sono stati molti simili a quelli che si fanno in un labirinto». Chiedere a Vasco Brondi come va e cosa ha fatto negli ultimi anni, non è mai una domanda di circostanza, o meglio, la risposta non è mai banale. Chi è cresciuto con le sue canzoni maneggia con facilità un’intera cosmologia di scoperte, fissazioni, studi, infatuazioni, una specie di romanzo di formazione collettivo che ha intersecato in pieno almeno un paio di generazioni.
Un segno di vita è il suo sesto album – il secondo da quando ha smesso di firmarsi come Le Luci della Centrale Elettrica per lasciare spazio soltanto al suo nome – ed è il disco che segna una maturità artistica definitiva. Il disco dell’età adulta, per come si può essere adulti a quarant’anni, che ha peraltro appena compiuto. Torneremo spesso su questo argomento nel corso della nostra conversazione.
«Avevo voglia di fare un disco pop impopolare. La mia idea di grande arte è quella di Fellini, Dalla, Battiato, che sono riusciti a fare cose profonde e popolari, che rimarranno eterne. Io non ho quella facilità di parlare a tutti, ho capito di essere uno che si fa il vuoto attorno. Anche al mercato se chiedo una cosa qualsiasi la gente mi reputa strano. Quando vado con Brunori lui ha sempre la battuta pronta, sa cosa dire a tutti. Una volta ho beccato Gemitaiz sul treno, ci siamo riconosciuti ma nessuno dei due ha fatto niente per avviare una conversazione, poi mesi dopo ci siamo incontrati a un concerto e ci siamo confessati che quella volta sul treno non avevamo voglia di parlare. Lui ha detto con molto orgoglio che siamo due sociopatici, mi sa che ha ragione».
L’ultima volta la scelta “impopolare” era stata quella di uscire con un primo singolo interamente parlato, Chitarra nera, l’anti-Spotify per eccellenza, che però non ha impedito a Paesaggio dopo la battaglia di arrivare ai vertici delle classifiche italiane – ammesso che conti davvero qualcosa. Era il 2021, tempi pandemici, sembra passata una vita «tre anni nella musica sono tempi biblici e forse non sono neanche più sostenibili, però per me sono inevitabili. Spesso mi dicono che scrivo i testi a flusso di coscienza, ma in realtà è un contagocce di coscienza».
Questa volta, invece, la sperimentazione è andata da tutt’altra parte, l’impresa eccezionale è essere normale diceva qualcuno e infatti ecco un disco di canzoni che per certi versi tornano alle origini – i protagonisti, le loro traiettorie, sono la prosecuzione naturale di quelle di Canzoni da spiaggia deturpata, – e per altri versi abbracciano in tutto e per tutto il formato canzone, i bridge, i ritornelli, forse addirittura i ritornelli da stadio (“Spaventerai sempre tutti, con la tua voglia di vivere” si presta benissimo). «Paradossalmente per la mia storia la sperimentazione significava lavorare con la forma canzone, con i ritornelli e con brani più immediati. Ho lavorato molto, anche sul mio ego, per togliere delle cose».
Il sesto album di Vasco Brondi è un album di incendi e fuochi, un disco in qualche modo positivo, di buona sorte, malgrado praticamente tutto, popolato da persone che vogliono vivere, la notte, il giorno, fuori città e nelle metropoli che si vedono dallo spazio. Le catastrofi non sono finite ma sono fuori fuoco, sullo sfondo. Un tempo era “per ora noi la chiameremo felicità”, adesso è: mi sa che era questa la felicità. Siamo andati dove ci esplodeva il cuore e forse abbiamo fatto bene. “Qui va tutto bene, l’amore, la guerra, le solite cose” canta in Notti luminose, forse l’apice del pop impopolare di Vasco Brondi.
Si diceva delle traiettorie dei protagonisti, che in qualche modo abbiamo visto crescere mentre crescevamo anche noi. Adesso hanno dei figli, cercano bilocali, ancora “indecisi se aprire o chiudere il cuore” e hanno compiuto quarant’anni. Chi è nato tra gli anni ’80 e ’90 ha dovuto misurarsi con una specie di destino al fallimento, indotto da contingenze storiche e economiche sfavorevoli, tra le altre cose, una specie di piano inclinato inverso che ci impediva di adeguarci a uno standard che non poteva più esistere ed era una menzogna. Nelle canzoni di Un segno di vita quella generazione è invece diventata finalmente adulta e lo ha fatto con le proprie regole, ancora incasinata, con ancora tanti errori da commettere e da rivendicare.
«Io sono sempre stato precoce, ho iniziato a lavorare a 17 anni, a 19 anni sono andato via di casa, a 22 anni ho pubblicato il primo disco. Ero sempre il più piccolo del gruppo. Ora invece ho cominciato ad essere in ritardo su tutte le cose che avrei dovuto fare prima dei quarant’anni: non ho una famiglia, non ho una compagna, non ho una vera e propria casa che io senta mia, dove ho tutti i libri. Mi sono reso conto di essere un freak alla fine, che le scelte che ho fatto nella vita erano una reazione a un modello che non faceva per me».
In Illumina tutto, qualcuno grida “arrivano i nostri” e quando l’ho sentita per la prima volta mi sono chiesto sinceramente chi fossero i nostri oggi, quindici anni fa lo sapevo, adesso non lo so più.
«Quella canzone diceva “arrivano i nostri, anche se non arrivano i nostri”, poi per esigenze musicali veramente non ci stava e quindi è cambiato molto il significato. I nostri per me adesso sono quelli che mi consolano rispetto al mio essere un freak, quelli che hanno qualcosa che può essere considerato sbagliato. Quando a Ferrara c’erano ancora i centri sociali, per me entrare lì era “arrivano i nostri”, potevo essere quello che ero, quello che sono, perché il contesto me lo permetteva e non mi sentivo giudicato. Per me i nostri sono quelli che sospendono il giudizio».
In Missitalia, l’ultimo romanzo di Claudia Durastanti, una protagonista dice «ho sempre preferito storie e non insegnamenti». Forse allora i nostri sono quelli che hanno storie da raccontare e non insegnamenti da propinarci. Oppure i nostri sono quelli che vogliono ancora viverle quelle storie che Vasco Brondi continuerà a raccontare.