Quando risponde al telefono, Vasco Brondi è a Milano. Per lavoro, ci tiene a sottolineare. Così come il lavoro è stato il motivo per cui negli ultimi mesi si è spostato da casa sua, da Ferrara, da quella provincia che «alle 18, quando chiudono i bar, diventa una necropoli». È reduce da una trasferta a Lampedusa per un reportage che pubblicherà su Internazionale, il tentativo di guardare quel pezzo d’Italia con occhi diversi dal classico giornalista, che di solito si occupa solo della questione dei migranti, ma non approfondisce quello che succede sul resto dell’isola. «Ho scelto di andare nel posto più lontano da Ferrara» dice Vasco «per vivere qualcosa che non fosse filtrato da uno schermo».
Lo stesso impulso che quest’estate l’ha spinto a girare l’Italia con uno dei pochi tour di questo 2020. Un tour chiamato Talismani per tempi incerti, che ora è diventato un album dal vivo, in uscita in streaming il 21 dicembre, in attesa del doppio vinile che arriverà con il nuovo anno. Diciannove tracce, equamente divise tra brani di Vasco, cover e letture. Un disco che – in fin dei conti – è una specie di reperto dell’anno con meno musica dal vivo nella storia.
Non è stato un tour come gli altri, immagino. Come l’hai vissuto?
È stato sicuramente più intenso di quello che mi aspettassi. Suonavo davanti a poche persone, di solito circa 300, fino ad arrivare a 1000, ma avevo la percezione di avere davanti il triplo delle persone per la qualità dell’attenzione, il silenzio e la partecipazione. Con questo tour ha tornato a colpirmi molto la musica, in generale. Tutta l’idea di Talismani per tempi incerti nasce da un mio riavvicinamento alla musica: in un momento di transizione e difficoltà come questo ho ritrovato la benedizione nella musica, come l’avevo percepita quando ho iniziato a suonare. Durante i concerti ho rivisto la potenza con cui mi aveva investito anni fa: l’ho vista in noi sul palco e nel pubblico, tutti rivolti alle casse come se fossero quasi degli oracoli, qualcosa che andava oltre me e le mie canzoni. Erano tutti seduti e distanziati, ma tempo e spazio dimostravano la loro arbitrarietà, perché in realtà eravamo più vicini e gli istanti erano molto più densi. Fare a meno della musica mi ha reso più consapevole. Se ci ripenso adesso, che abbiamo smesso di nuovo di suonare, quella parentesi dal vivo è stata indispensabile, un dono incredibile.
Passare dai concerti strapieni alle 300 persone scarse: che impatto ha avuto su di te e sullo spettacolo questo cambiamento?
A me è sempre piaciuto fare questo tipo di tour, in posti con 200 persone, mi era già capitato di farlo per scelta e non per necessità. Mi riallinea con il mio percorso: non credo tanto nell’espansione continua nella musica, al fatto che più diventi conosciuto, più ai concerti la gente ti veda piccolo e da lontano. Questo tour mi ha ridato un’esperienza molto umana. Niente sovrastrutture, due luci, due spie e poi tutto lo spazio a quello che c’era sul palco. Per me era importante l’idea dei talismani: metà concerto erano mie canzoni, l’altra metà canzoni e scritte dei miei talismani. Una cosa che puoi fare solo quando il contesto è intimo e c’è attenzione. E poi abbiamo suonato in anfiteatri, castelli, cortili, palchi galleggianti, tutti posti bellissimi.
Quello degli spettacoli è stato uno dei settori più colpiti dalla pandemia. Al di là dei musicisti, com’era lo stato d’animo dei tecnici e di chi lavorava nel backstage?
Ho una squadra che mi porto dietro da un po’ di anni e con cui mi trovo bene, ma per questo tour non è stato possibile confermarla tutta. Venivamo da tour in cui giravamo con i tir e siamo passati a uno in cui abbiamo usato solo un furgone. Tutto compreso. Però c’era grande entusiasmo da parte di tutti. Ognuno si è inventato e ha dato un apporto più grande del solito, anche in modo pratico. Non c’era un backliner? Ognuno montava e smontava i propri strumenti, poi ad esempio il nostro fonico Lorenzo Caperchi ricopriva altre quattro o cinque mansioni oltre alla sua. Questo tour non era nemmeno programmato, non avevo intenzione di suonare quest’estate, però mi è sembrato fondamentale dare il mio apporto. Agli artisti è richiesto un ruolo molto umile: condividere quello che fai, creare una situazione di confronto, di riflessione, di incoraggiamento, mettendoti in prima linea. Questo sentimento di apertura nei tecnici l’ho visto all’ennesima potenza.
Io non vado a un concerto da tantissimo tempo, so già che quando succederà saranno valli di lacrime. Come hai gestito l’emozione?
Ho suonato a Villa Manin, un prato enorme che ospita fino a 20 mila persone. Ce n’erano 1000, attentissime. Ricordo momenti in cui facevo davvero fatica a continuare a cantare. Momenti di grande emozione che mi arrivava dalle persone, una grande intensità. Una situazione che si è creata anche per la formazione che avevamo, che mi è piaciuta un sacco. C’era grande spazio per le parole, uno spazio confidenziale che ospitava racconti anche personali. Nel disco non ho messo tutto, ho tenuto fuori quello che dicevo tra una canzone e l’altra perché volevo che restasse un ricordo solo di chi c’è stato. Pensa che anche il concerto l’hanno registrato di nascosto, non ero dell’idea di farlo riascoltare, credevo che fosse il momento di fare solo esperienze dirette, che non fossero mediate da uno schermo. Volevo fare solo concerti e chi c’è c’è. Quindi senza dirmelo hanno registrato due serate e riascoltandole mi sono reso conto che il concerto era diventato a sua volta un talismano, che è coinciso con un’estate meravigliosa, nonostante tutto. Non avevo mai mischiato in modo così forte, fino a confonderli, il suonare, che per me comunque è sempre un momento delicato, e i momenti di gioia e incontro dati dai viaggi. Questa estate me l’ha insegnato.
Nel disco ci sono canzoni che non sono tue: c’è Battiato, c’è De André, ma soprattutto c’è tantissimo Ferretti, tre pezzi suoi, che in realtà sono quattro, perché si capisce che anche Noi non ci saremo arriva dalla versione dei CSI, non dall’originale di Guccini.
Ferretti è un’anima che da sempre mi parla tantissimo. Nel lockdown ho riascoltato un sacco di musica, tornando spesso anche a lui. Noi non ci saremo è entrata per caso: volevo che sul palco con noi salisse anche Margherita Vicario, che mi piace moltissimo, e ho visto che aveva fatto questo pezzo per il disco di cover di Guccini (Note di viaggio – Capitolo 1, ndr). Ovviamente a me è venuta in mente subito la versione dei CSI, così abbiamo deciso di suonare quella. Prima che richiudessero tutto, sono stato a casa di un’amica che abita a Cerreto Laghi, appena sotto Cerreto Alpi, il paese di Ferretti, così sono andato a fare un pellegrinaggio non dichiarato, nel massimo pudore. Una volta Werner Herzog disse che quando vide Padre padrone dei fratelli Taviani pensò: «Ora mi sento meno solo al mondo». Per me con Ferretti è la stessa cosa, contro ogni attualità. È più forte di me.
Visto che ne abbiamo parlato, Guccini invece non fa parte dei tuoi ascolti? Durante il lockdown io sono tornato ad ascoltarlo tantissimo: per riprendere il tuo concetto, è stato un po’ il mio talismano.
Guccini lo ascoltava tantissimo mio fratello, ma è l’unico tra i grandi cantautori con cui ai tempi non sono entrato in risonanza, pur percependone la forza, l’importanza. L’ho approfondito proprio nel lockdown e ho trovato tante cose bellissime. Anche molto conosciute, come Vedi cara che è stupenda e di Vinicio Capossela ha fatto da poco una cover molto emozionante.
Passando invece alla parte di letture, sono rimasto folgorato da Ma adesso io. Me ne parli?
Ma adesso io è un testo di Mariangela Gualtieri: non è nemmeno una poesia, ma un passaggio di un’opera teatrale del Teatro Valdoca, fondato negli anni ’80 proprio da Mariangela Gualtieri con Luca Ronconi. Il testo che ho letto nei concerti è il coro di un’opera teatrale che si chiama Caino ed è fulminante.
Sempre più spesso porti poesia sul palco, da dove nasce questa scelta?
Sono sempre stato molto colpito dalla poesia, dal sentire parole che creavano cortocircuiti nella mia mente. Le stesse parole che usavi in una conversazione, ma che, messe lì insieme, ti toccavano in modo diverso. La mia fortuna è che le persone che mi seguono mi permettono di fare questa cosa molto controproducente che è leggere poesie da un palco. Alla fine dei concerti mi è capitato che dei ragazzi mi chiedessero la bibliografia di quello che avevo letto e non il classico selfie. Per questi concerti ho scelto poeti che vengono da epoche e luoghi diversi e che formano la mia mappa letteraria: una mappa nata da percorsi labirintici, impossibili e solitari. Da Gualtieri a Mario Luzi a Bishop, a Cortázar, ci sono cose molto lontane e molto diverse, che mi sembravano semplicemente delle cose giuste. Io chiedo agli artisti che seguo di essere generosi nel portare materiali diversi e di offrirli al pubblico ed è così che si è creata questa mappa letteraria caotica. Ricordo perfettamente di avere conosciuto Majakovskij grazie a una tavola di Pompeo di Andrea Pazienza e mi piace molto portare a mia volta degli spunti e offrirli a chi mi segue.
Durante il lockdown hai fatto dirette quotidiane in cui suonavi o leggevi poesie. Non sei il prototipo di musicista che vive on line, come hai vissuto questo rapporto ravvicinato con i social?
I social per me sono un mondo misterioso, sono convinto possano essere un buon cavallo di Troia per portare dentro cose interessanti. Però un po’ mi spiazzano. Mi capita di parlare con ragazzi di 20-23 anni e di accorgermi che i loro riferimenti sono post di Instagram, magari di filosofi o scrittori, ma pur sempre post di un social network. Usano Instagram per formarsi su temi come razzismo e femminismo: forse è generazionale, forse sono io a non capire e hanno ragione loro, ma la cosa mi lascia perplesso. Io provo a usarli un po’, ma in modo discontinuo. Le idee principali di Talismani per tempi incerti sono nate proprio in quelle dirette di cui parlavi, ma a un certo punto ho smesso di farle e non ho guardato i social per due mesi. Non riesco a vivere un’altra vita lì sopra, non ce l’ho fatta.
In quanto artista, ti senti in qualche modo obbligato a dover reinterpretare il periodo che stiamo vivendo?
Credo che valga per tutti i periodi storici. L’unica regola a cui credo è quella di non seguire nessun dogma, di avere la libertà di contraddirsi e fare quello che si sente. Si può anche scrivere un romanzo sugli alieni e avere comunque dentro l’aria che si vive in quel momento. Tra le possibilità, mi rende più perplesso chi riesce immediatamente a trascrivere in arte qualcosa di appena, appena, appena successo. Qualcuno è in grado di farlo, ma è molto difficile. Tutto ha bisogno di sedimentazione. Me ne accorgo anche con i viaggi, magari una canzone ispirata da un viaggio mi esce quattro anni dopo. È importante che il tempo cancelli le cose che non sono indelebili e che quelle che contano emergano con calma. Ci sono tempi biblici nella creazione artistica, che non hanno a che fare con informazione e attualità. È una cosa che dico per primo a me stesso.
A proposito di sedimentazione, dieci anni fa in questi giorni eri nel pieno del tour teatrale del tuo secondo disco, Per ora noi la chiameremo felicità. Pensando a quel periodo, qual è la prima immagine che ti viene in mente?
Mi viene subito in mente un momento preciso: sul palco del Teatro Comunale di Ferrara, per il primo concerto di quel tour. Era la prima volta in un teatro grande: ho l’immagine di me atterrito sul palco davanti a tutto il pubblico fermo immobile a guardarmi. Mentre io pensavo: «Ah, ma quindi non è come nei club, dove la gente beve, si spinge, va, torna. Allora è una cosa seria». In quel momento ho capito che la realtà era diversa da quella che mi ero immaginato. Che c’era un’attesa nei miei confronti e le persone si aspettavano da me qualcosa. Con i concerti del primo disco c’era tanta gente che veniva a vedermi perché c’era curiosità intorno a quello che stavo facendo, ma con il secondo disco il pubblico non era casuale, erano persone venute lì apposta, motivate. Persone che avevano deciso di sedersi e ascoltarmi con attenzione. Mi sembrava che qualcosa fosse cambiato.
Quello era il tuo primo tour teatrale, ma oggi, tra teatri e concerti estivi, mi sembra che ormai tu ti stia abituando ai concerti da seduti. È così?
Mi sto abituando, è vero. In realtà mi piacciono molto gli estivi, quando si sta in piedi tutti insieme, belli larghi, magari in un posto affacciato sul mare… o su un parcheggio. In questi 10-12 anni credo di aver fatto un po’ un’overdose di club, avevo voglia di cambiare posti. Però in questo momento mi manca tutto. Tutto. Anche i club.