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Vasco Brondi: «Il mio disco di battaglie fiduciose, il mio atto di fede nell’arte»

In 'Paesaggio dopo la battaglia' c'è ancora il musicista di Le Luci della Centrale Elettrica, solo maturo, forse più riflessivo, un po' arrabbiato. «La mia chiesa è il teatro, Franceschini non ci ha difesi»

Foto: Max Cardelli

Qualche weekend fa, sulla strada del ritorno da una classica gita fuori città, ho costeggiato un gigantesco centro vaccinale con le persone in fila, in attesa del proprio turno. È stato strano, per varie ragioni. L’escursione emozionale che c’era tra il mio stato d’animo e quello dell’umanità fuori mi ha fatto sentire quasi fuori luogo. Ho avuto la sensazione di passare accanto a un momento di storia in fase di svolgimento, con le scarpe da trekking e tutto.

In qualche modo l’immaginario creato in questi anni da Vasco Brondi descrive, come nessuno nel panorama italiano, le cose che vanno avanti imperterrite tra gli interstizi creati dall’accavallarsi dei grandi eventi. C’è la storia, con tutto il bagaglio di cinismo e di tragedia che comporta, e poi c’è quello che accade in nome di una ostinata e discreta speranza. Dalle pozzanghere delle piogge acide di Canzoni da spiaggia deturpata fino ai chakra di Terra, abbiamo assistito a un viaggio consultando una mappa con le coordinate dell’epoca contemporanea in una mano, nell’altra stringevamo oggetti apparentemente insignificanti, degli amuleti che non diranno nulla ai posteri e che saranno dimenticati o buttati via, ma che custodiscono un valore immenso per chi li ha posseduti.

Paesaggio dopo la battaglia è l’ultimo capitolo di questa ricerca e interpretazione dei fatti. Tecnicamente è il primo album a nome Vasco Brondi, ma, come vedremo, non ci sono ragioni per considerarlo in discontinuità con Le Luci della Centrale Elettrica nonostante il primo singolo Chitarra nera, un parlato fuori da ogni schema in termini di formato canzone e di strategie di marketing che ha aperto questa nuova fase. Un esempio unico anche nella discografia di Vasco Brondi, che pure non ha mai badato più dello stretto necessario al formato canzone, e proprio per questo risulta perfettamente coerente con la poetica del cantautore, tanto da far pensare a un intero progetto su questa linea. «C’è stato un periodo in cui ho pensato di fare un disco tutto così. Ho fatto altre canzoni su quell’impronta, ma poi mi sono accorto che era solo un’idea, una specie di “okay sorprendiamo tutti” e quindi era esattamente il contrario di quello che dico in Chitarra nera. Per questo disco mi sono imposto di non sentirmi obbligato a fare per forza cose strane o a dover stupire solo per la questione del cambio di nome. Non era una necessità, avrei dovuto piegare la mia ispirazione a una trovata, senza contare che le canzoni rischiavano di essere tutti uguali».

Invece ho sempre pensato che un ritorno esplicito alla prosa e la contaminazione tra musica e scrittura fosse un modo per chiudere il cerchio aperto con il blog dei primissimi tempi delle Luci, per elevare al massimo la capacità di scrittura e liberare il più possibile le forme di espressione che fanno amare e citare tantissimo i testi di Brondi ai propri fan. Questo è quello che accade in Chitarra nera, che è una conversazione tra amici, dolorosa, intima al limite dell’inaccettabile, piena di riferimenti al reale e al vissuto. La prima volta che l’ho ascoltata è stato come frugare tra gli stralci delle pagine di un diario altrui. «Per me è stato importante uscire con questo primo singolo, è stato davvero un atto di fede all’arte, a questo lavoro e alle persone che mi seguono. La prima volta che l’ho fatta ascoltare per intero a Fede (Federico Dragogna dei Ministri, nda) si è creato uno strano silenzio nella stanza. Mi ha ricordato uno dei primissimi concerti a Milano, quando non mi conosceva nessuno. All’epoca c’era Gigione, il fonico storico dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che è mancato qualche anno fa purtroppo, che dopo tre o quattro canzoni è venuto da me e mi fa: “è stato fighissimo, c’era la gente imbarazzata”. Da vero punkettone lo intendeva in senso positivo».

È difficile non soffermarsi ulteriormente sul pezzo, in cui ci sono tutti questi quattro anni dall’ultimo disco, il percorso individuale dell’artista e le vicende di un’intera generazione, la spiritualità, la morte, una critica alle dinamiche di promozione all’interno dell’industria musicale. Uno dei versi dice, riportando la dichiarazione di qualcuno: “alla fine sei l’unico che ha continuato a suonare”. Anche qui, la doppia interpretazione tra le contingenze storiche e quelle personali dell’autore permette di tracciare un parallelo tra i sogni e le ambizioni di una generazione che ha sognato e ha fatto fatica a farcela, o che convive con uno strano senso di colpa e con la sindrome dell’impostore.

«A un certo punto mi sono perdonato per aver fatto quello che volevo fare a differenza di altri, perché non me l’ha regalato nessuno. Mi sono chiuso tutte le vie d’uscita possibili per fare quello che per me era una questione di vita o di morte, all’epoca. Adesso ho molta tenerezza nei confronti di quel ragazzo e della battaglia che ho ingaggiato per salvarmi, da quella situazione, dai lavori che non volevo fare. Quella frase è stata una critica che io ho sentito letteralmente e ho percepito, anche perché c’è questo falso mito del successo, che non ti viene perdonato perché c’è l’idea che il riconoscimento possa risolvere tutti i problemi. In realtà l’unico risultato che si ottiene è quello di capire che non porta a niente e che tutto ciò che la nostra società considera di valore, in realtà non lo è affatto».

In questa seconda fase della carriera di Vasco Brondi, emerge più marcatamente un disagio se non addirittura uno sdegno verso gli aspetti più tossici del settore di cui fa parte. I riferimenti sono espliciti nei brani, nella comunicazione sui social e all’atto pratico. «Mi sono accorto che è una mia modalità di protezione non coincidere mai completamente con le cose che faccio, con l’ambiente delle cose che faccio, ma sempre tirarmene fuori. Quando ho iniziato a suonare, ho fatto i primi due dischi totalmente immerso, ma poi la mia reazione è stata quella di allontanarmi ogni volta».

Alcuni pezzi nel disco marcano questo concetto: siamo solo una forma di vita nel terzo pianeta del sistema solare, abbiamo in media 26 mila giorni da trascorrere qui, non sembrano tantissimi a pensarci bene, soprattutto se ne impegniamo la maggior parte a fare cose che detestiamo. «Questo lavoro è privilegiato per molti motivi, tra cui quello che ti costringe ad evolverti. A un certo punto mi è sembrato che fare musica fosse diventata una questione di espansione numerica, trovare l’idea più brillante, essere i primi a suonare allo stadio. Questo in tutti gli ambienti, anche quelli in cui ho iniziato io o quelli che negli anni ’90 erano considerati di ricerca. Ora tutti cercano di passare in radio. Mi sono rapportato a questa dinamica come se fosse un grande handicap non avere questa ambizione. Ho 37 anni e non penso più di fare un lavoro in cui cerco di avere più gente possibile che mi dice che sono bravo, mi sembra umiliante».

Come già detto, musicalmente il disco è in perfetta coerenza con le fasi del percorso iniziato strillando negli anni Zero e arrivato già da qualche tempo a evolversi su nuove tonalità e prospettive. In Paesaggio dopo la battaglia troviamo un ulteriore avvicinamento ai grandi cantautori – troviamo molto più Dalla (Paesaggio dopo la battaglia) e De Gregori (Due animali in una stanza) che in passato – e in alcuni passaggi a delle sonorità, diciamo così, anni ’20, come nel secondo singolo Ci abbracciamo e Mezza nuda, probabilmente influenzati dalla partecipazione di Taketo Gohara alla produzione. In generale ci sono moltissimi musicisti dentro questo disco. «Ho voluto coinvolgere musicisti con cui non lavoravo da tantissimo tempo o con cui non avevo mai lavorato. Abbiamo impiegato mesi ad arrangiare i cori insieme a Paul Frazier che collabora stabilmente con David Byrne, ma anche Mauro Refosco alle percussioni, che è un sogno, lui ha lavorato al disco degli Atoms for Peace». Ma ci sono anche sax, sintetizzatori, oboi e così via. C’è anche una ballata popolare che immaginiamo cantata da ubriachi che camminano sottobraccio la notte, di ritorno dai bagordi, che è Adriatico.

Ho notato l’insinuarsi di una maggiore dose di nostalgia pura, riferimenti più frequenti al passato, alla giovinezza, ai lavori precari di un’altra epoca (che sono diversi da quelli di questa). «Più che nostalgia c’è maggiore empatia verso il me stesso di 15 anni fa. Mi sono accorto che quel fuoco lì puoi solo custodirlo, ti porta avanti, ti rende libero, ma non torna più. Non c’è troppo tempo per la nostalgia, perché è sempre interessante vedere come si cambia, per esempio io mi sto rendendo conto che avevo un’idea di me, dei miei bisogni e delle mie necessità, che non coincidono con la realtà».

È un aspetto che trovo molto interessante, non solo perché, ancora una volta, riguarda una fetta di coetanei, ma anche in senso più tecnico, con il tipo di ricerca che c’è dietro alla stesura dei pezzi. «Non ci ho ragionato e me lo fai notare tu, però sì mi sono accorto che in questo disco cominciano a esserci dei figli, ci sono dei discorsi diversi. È inevitabile continuare a seguire me e chi mi è coetaneo, anche se gli argomenti sono sempre meno appetibili forse. Quello che però ho sempre fatto è scrivere cose a cui tengo e questo è inevitabile».

Foto: Max Cardelli

Il titolo del disco, al di là della citazione, non può non far pensare ai tempi che abbiamo appena vissuto. Alla battaglia nella quale siamo ancora immersi, ma anche – e scusate davvero se lo ripeto per l’ennesima volta – la battaglia generazionale, che a voler raccogliere le parole chiave della discografia di Vasco Brondi, sembra quasi ovvio che prima o poi avrebbe fatto i conti anche con una pandemia globale. «È un disco di battaglie fiduciose, perché è pieno di storie di ricerca e per andare in ricerca devi essere molto fiducioso. Battaglie sia intime e interiori che collettive e universali, quindi in un certo senso generazionali, sì. In questo disco ci sono “le leggi della città” e “le leggi dell’universo”. Nella società in cui viviamo è più difficile rispettare le leggi dell’universo che quelle della città. Per cui provare a salvare una persona dall’annegamento – che suona quasi scontato – rischi la galera. È un disco pieno di spazi dove la natura si prende quello che vuole. Mi fa sempre ridere quando diciamo “in questa zona la natura è protetta”, come se fossimo noi a dover proteggere la natura, che invece è in grado di spazzarci via in qualunque momento. Noi umani ci diamo una dimensione di centro del mondo che non corrisponde alla realtà».

Eppure, davvero molto ingenuamente, un anno fa ho pensato che quello che stava accadendo avrebbe esplicitato in maniera troppo forte le contraddizioni della nostra epoca, per poterle continuare a ignorare. Quello che facciamo all’ambiente, il modo in cui ci nutriamo, ci spostiamo, pretendere risorse e consumi infiniti, le disuguaglianze economiche e sociali, la cecità verso le condizioni nelle carceri e così via, credevo che avremmo affrontato tutto come un’esigenza impellente. Concludiamo la conversazione proprio su questo: «Sono ancora in fase di elaborazione dell’ultimo anno e credo ci vorrà un bel po’ per renderci conto dei danni che questa cosa può aver creato o delle cose positive che potrà portare. Io posso parlare del mio ambito, ho avuto una delusione nel credere che si sarebbe capita l’importanza della cultura, in una società che la considera poco funzionale, per come è stata di supporto mentre eravamo chiusi in casa. Invece è stata la prima cosa a essere sacrificata e questo è significativo. Crediamo che ci sia solo una nuda vita biologica senza renderci conto di quanto sia altrettanto fondamentale la vita spirituale e questa è una visione triste e povera della vita umana. Abbiamo stabilito che abbiamo realmente bisogno di andare da Tiger ma non di andare in un museo. Queste sono riflessioni che non si possono neanche fare perché passi per complottista, no vax o leghista, per quanto è binario il ragionamento. Questa è una cosa che mi addolora».

«La mia chiesa è il teatro e non si è presa neanche vagamente in considerazione di tenere aperti i teatri come è stato fatto per le chiese, con tutte le precauzioni del caso ovviamente. È sintomatico della società in cui viviamo, in generale, ma è anche una faccenda che ha un nome e un cognome, che è Dario Franceschini, ministro della cultura, che va al Globe Theatre cercando di passare per quello che sta dalla parte di chi fa cultura, ma in realtà era lui che avrebbe dovuto difendere la cultura a tempo debito e non l’ha fatto».

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