62.731.695: è il numero di ascolti su Spotify totalizzati dal 2018 a oggi dal singolo di Vegas Jones Malibu, uno dei brani di rap italiano più ascoltati di sempre. Per dare una misura dell’enormità di questo numero, sappiate che un pezzo iper radiofonico come Pamplona, uscito un anno prima e firmato da un artista già affermato come Fabri Fibra, ne ha accumulati circa la metà. Già questo basterebbe a far capire perché Vegas Jones è un nome da tenere d’occhio; la sua capacità di unire strofe piene di contenuti a ritornelli orecchiabili e immediati, che conquistano sia il pubblico del pop che quello del rap, è merce rara di questi tempi.
A distinguerlo dalla massa, però, non sono solo i traguardi, ma anche le scelte. Ad esempio, quella di regalare il disco d’oro ottenuto per il suo primo album ufficiale Bellaria al comune di Cinisello Balsamo, il paese dell’hinterland milanese che è da sempre casa sua: il sindaco lo ha poi collocato nel locale centro culturale, perché sia d’ispirazione ai cittadini più giovani. «Sono sempre stato un sognatore, e se nei film l’eroe riceve le chiavi della città, io fantasticavo di donare il mio disco d’oro alla città in cui tutto è cominciato», racconta alla vigilia della pubblicazione del suo secondo lavoro solista, La bella musica, che uscirà venerdì 8 novembre. «Non voglio generare invidia; voglio invogliare la gente, far capire che tutto è possibile, che se ci credi e ti impegni puoi farcela, anche se arrivi dal niente, come me». Quella di restituire alla comunità, con gesti simbolici o concreti, è un’abitudine molto radicata nell’hip hop americano, ma non ancora così diffusa in quello italiano. Vegas, però, ci tiene molto: non vuole allontanarsi dalla sua vita di prima, ma anzi vuole continuare a immergercisi per descriverla ancora meglio, per «raccontare il vero», tant’è che vive ancora a pochi passi da dove è cresciuto. «Frequento le stesse persone di sempre. E sono più felice io per il mio amico storico che ha trovato finalmente lavoro dopo la laurea di quanto lui sia felice per me per i miei risultati in classifica. Non mi considero superiore, siamo tutti allo stesso livello».
Il titolo dell’album ha un duplice significato. Da una parte sottolinea il fatto che Vegas Jones, nonostante i suoi 25 anni di età lo collocherebbero all’interno della generazione trap nota per le canzoncine semplici e melodiche, sa rappare davvero. «Mi fa specie quando me lo dicono, perché tutti i rapper dovrebbero saper rappare: è la base», commenta. «Ma allo stesso tempo mi fa piacere quando mi dicono che bisogna riascoltare due o tre volte le mie strofe per capire cosa intendo, perché vuol dire che ho qualcosa da comunicare. Per me è importante fare album che abbiano dei contenuti e trasmettano qualcosa alla gente». Dall’altro, il titolo fan riferimento alla musica in senso più alto e più ampio, perché Vegas è un ascoltatore attento e vorace. «Adoro la musica degli anni ’70 e ’80. Marvin Gaye, Bobby Hebb, Ray Charles, i Pink Floyd… I loro dischi mi hanno segnato tantissimo, come anche l’elettronica, ad esempio Berlin Calling di Paul Kalkbrenner», racconta. «Fino a qualche anno fa si faceva musica principalmente per trasmettere qualcosa, oggi lo show business ha rovinato tutto, trasformandola in una specie di catena di montaggio. Devi avere tot featuring, devi far suonare il disco in un certo modo per adeguarti alle mode del momento. Non è il massimo».
Come nella migliore tradizione dell’hip hop, che è un genere musicale che si nutre delle influenze musicali più disparate e le rielabora, Vegas ha fatto tesoro dei suoi ascolti, anche se ogni tanto c’è qualcuno che si stupisce del fatto che siano così variegati. «Ogni volta mi trovo a spiegare cos’è l’hip hop: ormai non dovrebbe neanche essercene bisogno», sospira. «Anche il pubblico più adulto dovrebbe cominciare a riconoscere il peso di questo genere, che attualmente è l’unico che parla davvero di qualcosa, visto che la musica leggera parla solo d’amore, di fatto. A livello di cultura, oltretutto, i cardini dell’hip hop sono sempre stati il valore e il rispetto, e non credo che esista niente di più sano e puro di questo. Chiaramente, però, sono gli artisti che devono applicarsi a trasmetterli; dobbiamo prenderci le nostre responsabilità, perché se c’è qualcosa che non va nel rap di oggi la colpa non è della musica, ma delle persone che la fanno». Qualche mese fa ha visitato per la prima volta New York, la città dove la cultura hip hop è nata a metà degli anni ’70, insieme al suo mentore, il produttore Don Joe, che lo ha accompagnato in quello che è stato una via di mezzo tra una trasferta di lavoro, un viaggio studio e un pellegrinaggio. «Il primo impatto con quelle strade è stato pazzesco, è come se le rime ti ci appiccicassero addosso», dice entusiasta. «Ognuno pensa a se stesso, ma nel senso migliore: non guardano l’orticello del vicino per giudicarlo, come invece capita spesso in Italia. Ciascuno è concentrato sul suo percorso, e tutti convivono con tutti: bianchi, neri, asiatici, ricchi, poveri… Mi ha davvero aperto la mente, e non vedo l’ora di aprirla ancora di più».
La sua apertura mentale si nota anche nei temi di La bella musica, che non riflettono certo la leggerezza e il materialismo imperante dell’urban pop odierno. Today, ad esempio, è stata scritta in onore di un amico morto sul lavoro. «Quel pezzo racconta qualcosa che purtroppo può succedere a tutti», commenta amaramente. «Parla di una persona che aveva ancora tanto da vivere, ma se n’è andata prima di aver potuto fare ciò che voleva. L’ho scritto e registrato in poche ore, d’istinto: mi sono svegliato sapendo che quel giorno c’era il funerale, e sulla via del ritorno sono entrato in studio e l’ho fatto. Ho capito che la vita è un dono ed è importante celebrarlo. Mi sono immaginato una cerimonia funebre all’americana, di quelle raccontate da Jay-Z o Tupac nelle loro strofe, in cui tutti festeggiano e onorano la tua vita anziché piangere». Il lutto, riflette, in Italia viene vissuto in maniera molto più cupa e triste. «Parlo spesso di morte nei miei pezzi, è uno dei miei temi ricorrenti. La mia non è una morte nera e minacciosa, come quella del death metal, ma è poetica, dolce, pulita, anche se dura. Anche in Malibu dico che “ballo un mambo con la morte”. Non so neanch’io cosa volessi dire esattamente, ma è un’immagine così bella che mi è venuto spontaneo tenerla». Una ragione di più per non fermarsi ai ritornelli.