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Vegyn ti spiega perché ha senso pubblicare dischi contenenti 75 idee sonore

L'ultimo lavoro del figlio di Phil Thornalley dei Cure è un disco-archivio con brani finiti, esperimenti, tentativi. «Voglio sovrastimolare l’ascoltatore e invitare gli artisti a prendere questi brani e manipolarli»

Foto: Vasilsa Petrova

Raccapezzarsi tra le produzioni di Vegyn è un viaggio senza mappa in lande di suono digitale. Lande che sanno di conceptronica, lo-fi house, elettronica, ambient, chill-house. Spiegare la musica di Joe Thornalley, in arte Vegyn, è davvero difficile e dunque estremamente affascinante.

Nato e cresciuto a Londra, Joe è figlio di Phil Thornalley (ex bassista e produttore dei Cure), ma alla musica si avvicinerà solo più avanti, spinto più dalla voglia di partecipare a una comunità attiva e fresca come quella dell’elettronica inglese. Tra gli addetti ai lavori il suo nome è iniziato ad emergere nel 2016 quando, senza grande attività discografica alle spalle, tramite James Blake riesce a collaborare con Frank Ocean per due dischi iconici come Blonde e Endless dove, come da sue parole, impara «l’importanza della perseveranza e della buona volontà» nella musica. Da quel momento il suo suono inizia a delinearsi con più fermezza, non tanto per scelte di genere (sempre larghe, ampie, incatalogabili), ma per un lavoro sempre più raffinato e attento a una pasta sonora capace di far scontrare in sé concetti opposti.

La musica di Vegyn è un’elettronica che riesce ad essere cerebrale quanto sentimentale, groovy senza entrare mai davvero nel dancefloor, strumentale anche nei momenti cantati (dove la voce è utilizzata quasi come fosse un sample). Nel 2019 escono due lavori che cristallizzano il suo talento, Text While Driving If You Want To Meet God!, un mixtape di 71 brani che, in poco più di un’ora, funge da ampio raccoglitore di idee, e Only Diamonds Cut Diamonds, un disco fortunatissimo per riscontro di pubblico e critica, sostenuto da due dei brani più riusciti dell’artista inglese, Debold e It’s Nice to Be Alive, un incrocio di muzak, conceptronica, techno-ambient e pop post internet.

Dopo tre anni di silenzio, Vegyn riparte da Don’t Follow Me Because I’m Lost Too!!, un mixtape che in due ore e mezza ci porta altri 75 brani inediti del producer. «Mi piace l’idea di sovrastimolare l’ascoltatore. Questi mixtape sono dei grandi archivi atemporali in ordine alfabetico, degli sketchbook di tutti i miei lavori. Far uscire un mixtape non costa molto e mi permette di pubblicare una quantità folle di musica. Penso sia diverte: io produco così tanto che potrei far uscire altri due mixtape già domani».

Progetti così ampi agiscono da reazione a un mercato sempre più focalizzato sul brano singolo, il brano playlistabile, ribaltando questa logica e giocando con le chiavi di interpretazione dell’algoritmo. Don’t Follow Me Because I’m Lost Too!! è dunque un’esperienza d’ascolto differente, in cui si sprofonda in un oceano di beat senza confini, ondulando tra l’ascolto attivo e quello passivo; una muzak al contempo pop e d’avanguardia. Ma com’è la reazione del pubblico ad opere così monumentali? «Alcune persone mi han scritto: “Non ti aspetterai che ce lo ascoltiamo tutto?”, come se il punto fosse quello. Io voglio solo far uscire musica e se questo mette le persone in una posizione scomoda, ben venga. È il mio modo di andare oltre me stesso, ognuno può ascoltare questi archivi come vuole. Sentitevi liberi di metterlo in riproduzione casuale» Ma dopo più di 150 brani in tre anni, non c’è il rischio di terminare le idee? «Assolutamente no, sono un animale da studio».

I mixtape di Vegyn ci portano anche di fronte a un’altra domanda. Quando un brano diventa una canzone e quando invece rimane un’idea? Quando un brano è davvero finito? «In questo mixtape alcuni brani sono più finiti di altri, altri sono esperimenti, altri ancora solo idee, accenni, tentativi. Ma sono qualcosa di completamente differente, un invito per altri artisti a prendere questi stessi brani e manipolarli. Un po’ come è successo con Old Town Road di Lil Nas X che contiene un campione di 34 Ghosts IV dei Nine Inch Nails, tratto da Ghosts I-IV, un progetto formato da 36 tracce di idee, melodie, piccoli brani. Old Town Road ha preso un campione da questo archivio di idee e l’ha trasformato in uno dei brani più sentiti della storia della musica, qualsiasi cazzo di cosa significa. Ecco, magari succederà anche a me in futuro; se non pubblicassi niente avrei zero possibilità di farlo accadere». Una visione differente e preziosa sulla temporalità della musica che non si ferma nella composizione-pubblicazione dell’autore, nel mero prodotto di mercato usa-e-getta, ma scorre nelle pieghe della storia per essere – in un qualsiasi futuro – seme per nuova musica inedita.

Una dichiarazione d’intenti così esplicita e ribaditi come questi mixtape ci farebbe pensare a un artista pieno di sé, totalmente convinto dei propri mezzi e del proprio ruolo. Però a scorrere tra i 75 titoli di Don’t Follow Me (alcuni molto autoironici come Find Something Cool to Do With It, It’s not Emotional Enough, YYeah SSounding NNice), colpisce uno in particolare, ImposterD Syndrome. «Sento sempre la sindrome dell’impostore. Mi stresso troppo. A volte è difficile riuscire a sentirsi parte di questo mondo assurdo. Sto provando a interessarmi sempre meno a ciò che pensano gli altri di me. Se hai rispetto per te stesso è più difficile cadere in queste paranoie. Bisogna accettare che ci sarà sempre qualcuno più bravo di noi. Ad esempio io non ho un’educazione pianistica. Quando sono al piano sperimento, seguo la mia emozione, vado ad orecchio. Quando lavoro con pianisti veri li invidio per la loro padronanza dello strumento. Ma noto anche che loro invidiano la mia totale ingenuità, il poter affrontare il pianoforte pensando al di là di ciò che sarebbe teoricamente corretto. Per questo collaborare è fondamentale: circondarsi di persone di cui ti puoi fidare ti aiuta a tirar fuori il meglio di te».

Tutta la musica pubblicata finora da Vegyn è pubblicata dalla PLZ Make It Ruins, l’etichetta discografica dell’artista attiva dal 2014, anno di uscita del suo disco d’esordio All Bad Things Have Ended. «Avere il controllo delle proprie opere, dei propri master è fondamentale. Per gli altri artisti della mia label cerco di essere quella figura, quella infrastruttura, che avrei voluto conoscere quando ho iniziato questa carriera e non ne sapevo nulla. Mi entusiasma poter dare un’opportunità perché più conoscenze hai, più puoi proteggere te e la tua musica». C’è quindi speranza di sopravvivenza per chi intraprende una carriera al di fuori dalle major oggi? «Sì, è dura, molto dura, ma la speranza c’è. Personalmente spero solo di non cadere mai nel lato oscuro dell’industria».

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