Si piazzano dietro a un telo in plastica semitrasparente. Di stare seri come chiede il fotografo non se ne parla. Risucchiano la plastica con la bocca, ci schiacciano i nasi fino a deformarli, fanno facce da matti. A un certo punto il telo viene calato sopra le loro teste. Stanno immobili mentre il fotografo e l’art director modellano la plastica lungo i profili dei loro corpi. È un’immagine affascinante e un po’ inquietante. Se non fosse per la bottiglia di birra che si sono portati dietro e che verrà fatta sparire per lo scatto finale, potrebbero essere spettri d’un vecchio film. Alla fine il telo viene squarciato scoprendo i visi di Alberto, Luca e Roberta. Et voilà, i Verdena.
Sono fatti così. Per anni non danno notizie di sé. Hanno un presenza social pressoché inesistente per gli standard odierni. Sono decisamente riservati. Hanno un modo che gli s’invidia di fregarsene di tutto e di tutti. Non fanno nulla per ricordarci della loro esistenza. Poi improvvisamente squarciano quel velo, tornano con un disco nuovo e ci ricordano che sono una delle migliori band italiane.
È quel che accadrà il 23 settembre, quando pubblicheranno l’ottavo album di canzoni Volevo magia. È meno incasinato e pieno di cose dei due Endkadenz, ma è comunque frutto d’un processo caotico in cui ogni scelta è ponderata e allo stesso tempo precaria, in cui tutto è emendabile fino all’ultimo minuto. Eppure ogni cosa torna in questo disco vario, potente e pieno di timbri fighissimi, questo disco vagamente beatlesiano che è tutto un’avventura.
È un album pieno di testi da interpretare, è rock per solutori più che abili, un altro motivo che rende valida la metafora del velo da squarciare. Il titolo viene da una canzone, una sfuriata hardcore con un testo folle e passaggi tipo “agilmente, reagire all’apnea”, “assaggio il mondo, ma è sperma di lei”, “tre parole due due sei, ma sono solo mille forse, che sì tu dai”. Il verso che più mi piace e che, per una bella coincidenza, mi pare riassuma il modo in cui i Verdena fanno musica è “piani non ne ho, ho solo mille forse”. Fatto sta che a me questo titolo, Volevo magia, ricorda che il mondo della musica è diventato trasparente, non ci sono più misteri, è tutto un gran commercio di evidenze. Forse questo disco mezzo selvatico e mezzo seducente, misterioso e sconsideratamente istintivo dice: ridateci la magia che ci avete tolto.
Dopo aver parlato per un’ora e mezza coi Verdena mi sono convinto che, dato il modo dissennato in cui lavorano, il fatto che l’album sia stato chiuso e consegnato a una casa discografica è un mezzo miracolo. Roberta è la più razionale. Luca interviene raramente. Alberto parla in albertese. A volte chiude le domande con una risatina da cartone animato, una cosa tra il matto, il divertito e il compiaciuto. È un ghigno tra Muttley e Beavis and Butt-head che meriterebbe un emoji tutto suo e che trascriverò come «hehehe».
Sette anni tra un album e l’altro non erano mai passati. Colpa della pandemia e della colonna sonora di America Latina oppure scrivere e registrare Volevo magia è stato più lungo e laborioso del solito?
Alberto: Non direi più laborioso di Endkadenz. Fare dischi in questa maniera è da malati mentali. Passi mesi a fare cose per niente e magari alla fine scegli le prime canzoni che avevi selezionato. A un certo punto ho visto tutte le righe del mixer ondeggiare. Mi sono detto: mai più.
Mi fate una breve cronistoria dell’album?
Roberta: Ci sono stati due periodi di registrazioni, uno che va dal 2017 al 2018 e uno post Covid. Li abbiamo messi assieme e da lì è nato l’album.
Luca: I primi pezzi li abbiamo registrati in analogico. Poi però s’è rotto il nostro macchinone delle bobine.
Roberta: Quando abbiamo capito che il danno non era risolvibile in breve tempo, e difatti sono passati anni, abbiamo registrato in digitale.
Luca: Ci siamo ritrovati e abbiamo fatto altre otto o nove canzoni, di cui quattro o cinque sono finite nel disco.
Alberto: Alla fine sono rimasti i pezzi supervecchi e quelli supernuovi.
Roberta: Secondo me le canzoni nate dopo il Covid sono quelle più elettriche, anche a livello di vibrazioni.
Luca: Sono anche quelle veloci: Volevo magia, Carabinieri (non è finita nel disco, nda), Crystal Ball, Banjo (un’altra rimasta fuori, nda).
Avete una vostra lettura del disco?
Luca: Non ci penso molto a queste cose. So che mi piace suonarlo. Il mio test avviene in sala prove: dopo che abbiamo fatto il disco lo proviamo e mettiamo i pezzi nuovi vicino a quelli vecchi, per vedere se ci divertono uguali. Questi mi divertono.
Alberto: Ci stiamo divertendo a suonarli, quindi: cazzo ce ne frega?
Roberta: Ma è stato veramente difficile, lui voleva buttare via tutto.
Alberto: Io adesso voglio fare un disco all’anno. L’ho detto e lo farò!
Roberta: A partire dal 2010 l’ha detto ogni anno. In 12 anni abbiamo fatto due dischi (ride).
Alberto: Colpa del pensiero negativo che circola. Invece bisogna dirsi: ce la facciamo, certo che sì!
Roberta: Io sono quella che ti ha regalato un taccuino nel 2017 per fare i testi e tu hai iniziato a usarlo nel 2021, quindi non diciamoci puttanate. Io ci ho provato a dire sì, ce la facciamo.
Alberto: Non si poteva neanche suonare in giro, cosa uscivamo a fare, meglio aspettare, no?
Roberta: Guarda che stiamo parlando del 2017, tre anni prima della pandemia.
Alberto: Tre anni prima della pandemia? Orco dighel.
Scusa Alberto, quand’è che volevi buttare il disco?
Roberta: Tre mesi fa.
Alberto: Ma chi l’ha detto?
Roberta: Io.
Alberto: Ma sei scema? Quando?
Roberta: Siamo andati al mastering, mi chiama Giovanni e mi dice: «Guarda che l’Alberto vuole masterizzare solo 6 pezzi su 18».
Alberto: (Ride) Sì, questo è vero, c’è stato un momento delirante, ma non volevo eliminare tutto.
Roberta: Ah beh, voleva salvarne 6 su 18.
Alberto: Non ci eravamo detti di fare un disco molto corto?
I due Endkadenz erano incasinati, carichi, pieni di cose. Questo mi sembra più concentrato sulla forma canzone. È più un Revolver che un White Album, ecco.
Luca: Anche per me. Un po’ lo cercavamo, a un certo punto c’era davvero l’idea di fare un disco cortissimo.
Alberto: Io per ora non riesco a capirlo quest’album. Lo vedo molto distante da quello che abbiamo sempre fatto. Forse Pascolare è l’unico pezzo che rimanda al passato, ma neanche più di tanto.
In cosa lo senti diverso?
Alberto: Non nella scrittura, ma nell’atmosfera. C’è una specie di gioia rassegnata.
Io ci trovo un misto di tormento e slancio verso la felicità, come quando canti “staremo insieme e liberi dalle agonie incontreremo Dio”. Ci sento della lotta.
Alberto: Questo è sicuro.
Mi sembrano quasi tutte canzoni che parlano di un amore in rovina.
Alberto: Esatto. Non vorrei essere frainteso, ma per me questo disco è ridicolo, nel senso migliore della parola.
Roberta: Ridicolo non è la parola giusta. Forse grottesco?
Alberto: Grottesco no.
Roberta: Ridicolo non ha senso.
Alberto: È la prima volta che penso a questa cosa quindi neanche loro due sanno un cazzo, ma dico che è ridicolo perché è come se avessimo messo insieme le parti più ridicole dei nostri altri dischi. E a me piace il ridicolo, anche Frank Zappa era ridicolo fondamentalmente, la pazzia è ridicola. Questo disco è un circo. Un circo a caso di quello che abbiamo fatto in questi anni. Ci sono pezzi come Chaise Longue che un tempo non avremmo mai fatto e l’atmosfera rimane quasi sempre su. È come se dicesse: sto bene, ma sono anche rassegnato.
A volte la musica dice “sto bene” e il testo dice il contrario.
Alberto: Esatto, gioia e rassegnazione. Io uso i testi per dare un colore ai pezzi.
State provando per il tour. L’ultima volta c’era un quarto musicista con voi, Giuseppe Chiara. E ora? Ci saranno novità?
Roberta: Bella domanda.
Luca: Per ora stiamo facendo tutto in tre.
Alberto: E funziona. Neanche il piano stiamo usando.
Luca: Ma lo dobbiamo usare per Scegli me e Puzzle.
Alberto: Sarebbe solo per due pezzi.
Luca: Già che ce l’hai lì fai un po’ di John Lennon, dai (risate). Comunque, per ora la musica sta venendo cruda e funziona. L’unica paranoia nostra è cosa fare con pezzi come Certi magazine che hanno sotto delle orchestrazioni che li smuovono un po’.
Ogni volta che vi vedo in concerto mi sembrate in bilico tra trionfo e disastro.
Alberto: È proprio così. Non sai mai che cosa accadrà. Magari può andare tutto a puttane.
Luca: È anni che cerchiamo di rimediare a questa cosa.
E com’è che non ci riuscite?
Luca: Boh.
Alberto: È che quando ti parte quella roba lì è irrefrenabile. Parlo dell’insoddisfazione. A volte invece c’è rassegnazione.
Su dieci concerti, di quanti una volta finiti dite «che figata»?
Roberta: Per loro zero. Non li ho mai sentiti contenti, hanno sempre qualcosa da ridire.
Luca: Io dico due su dieci.
Alberto: Per me anche tre.
Roberta: Va detto che la percentuale di concerti riusciti comunque si è alzata. Tra il 2005 e il 2007 era una roulette russa.
Tornando a Volevo magia, mi sono fatto l’idea che per voi far dischi significhi andare alla ricerca di qualcosa senza sapere di cosa si tratta.
Alberto: Qualcosa del genere.
Luca: Del resto, anche se dicessimo «proviamo a fare questa cosa», difficilmente uscirebbe come la vogliamo.
Mi viene in mente una cosa che Keith Richards dice in Shine a Light, il concerto-documentario di Martin Scorsese sugli Stones: «Quando suono io non penso, io sento». Vi ci ritrovate?
Alberto: Secondo me ci si ritrovano tutti. C’è più cuore e meno cervello. Anzi, poco cervello e tanto cuore, hehehe.
Seduti su un divano fra uno scatto e l’altro, i tre Verdena, il manager e l’ufficio stampa discutono di quale canzone potrebbero lanciare. Da quando Volevo magia è stato annunciato non hanno ancora pubblicato un estratto e mancano due settimane all’uscita. Qualcuno tira fuori il titolo d’un pezzo, Roberta obietta che con quella lunga introduzione musicale non la passerebbe nessuna radio. Io suggerisco Chaise Longue, che apre l’album in modo insolitamente leggero. L’attacco è quasi fischiettabile, una cosa che mai avrei pensato di scrivere di una canzone dei Verdena.
Capisco subito che è inutile chiedere ad Alberto il significato di questa o di altre canzoni. È inutile persino chiedere quali sono le idee che stanno dietro al disco. I tre non hanno formule preconfezionate da comunicare ai giornalisti. Non c’è narrazione. Non forniscono spiegazioni perché non le hanno, non paiono interessati a costruire un pensiero sulla loro musica. Sono spontanei fino all’autolesionismo. «Spero da questa intervista di capire qualcosa di quello che penso», dice Alberto. «È la prima volta che parliamo del disco, anche fra di noi». E aggiunge, in albertese: «È la prima volta che spurghiamo».
Parlano fra di loro dei prossimi impegni promozionali. L’ufficio stampa ipotizza d’organizzare una giornata con una serie di interviste con gruppi ristretti di giornalisti, una dopo l’altra, in batteria. «Così alla terza andiamo fuori di testa a forza di ripetere le stesse cose», dice Roberta. Allora Alberto ha un’idea degna del Bob Dylan mitomane degli anni ’60: «Ci organizziamo prima per dare risposte inventate, diverse per ogni gruppo di giornalisti. T’immagini quando poi si parlano fra di loro?». Roberta alza gli occhi al cielo. Impossibile non amarli.
Alberto, prima hai detto che i testi servono per dare colore alle canzoni. Li scrivi ancora in quello che una volta hai chiamato inglese-arabo?
Alberto: Non li scrivo nemmeno, escono così cantando.
Poi li metti giù in italiano restando fedele al suono delle lettere, delle sillabe che ti sono uscite improvvisando in inglese-arabo…
Alberto: Cercando di essere il più fedele possibile. A volte non si può, sennò esce una merda. Il contesto deve essere capibile, non è “io esso noi andare Luna Venere”.
Capibile è una parola grossa. Comunque è un lavoro un po’ da matti, no?
Alberto: È un lavoro di tipo enigmistico. È un gioco. È quasi matematica. A volte Luca mi consiglia e tira fuori frasi incredibili.
Luca: Magari non gli viene in mente la parola giusta, arrivo io e tiro fuori la cazzata che ci sta bene.
Io ho una spiegazione per questa vostra passione per il significante prima ancora che per il significato. I vostri testi in italiano replicano quel che si prova ad ascoltare musica cantata in inglese, quando non capisci tutto, ma qualcosa arriva e il resto lo aggiungono la tua fantasia o la tua intuizione.
Alberto: La tua visione.
E quindi scrivi così perché hai ascoltato tanta musica inglese…
Alberto: Forse sì.
Luca: Del resto quando cercavamo di replicare i nostri idoli tu già cantavi così.
Il risultato di questo processo è che a volte vi escono canzoni con un testo più chiaro, altre con un senso più sfumato. È così anche per te?
Alberto: Mah, in certi pezzi a me sembra che vada tutto liscio, come Canzone ostinata. Nel nuovo disco c’è l’ultima che è scritta con un senso preciso che magari non tutti capiscono. Come si chiama?
Nei rami. Me la spieghi?
Alberto: No, non mi piace spiegare le canzoni, non ha senso. Cioè, sì, ha senso, ma mi sembra di rovinare la visione che uno si fa.
Ti piace, eh, questo senso di mistero…
Alberto: Sì, perché spinge a non concentrarsi sul testo. Cerco di depistare l’attenzione di chi ascolta: via via, non ascoltate il testo! Sì, il mio è un depistaggio, hehehe.
Non sarà anche uno stratagemma per non impegnarti a scrivere testi con una storia o un senso limpido?
Alberto: Starebbero malissimo. Quando avevo forse 9 anni mi sono messo lì a scrivere una canzone chiamata Pezzi. Il testo era terribile, diceva che siamo tutti granelli destinati ad essere spazzati via. “Siamo a pezzi, saremo a pezzi…”. In quel momento ho capito che non mi piaceva che fosse tutto chiaro. Mi faceva sentire un idiota. Inadeguato. E poi toglieva spazio alla musica. Il testo diventava troppo importante. Mi sono detto: no, la musica è la cosa più importante.
Ti piace l’idea che la canzone non sia un’equazione risolvibile.
Alberto: Ma la nostra è una super-equazione.
Sì, ma ha troppe incognite. Dimmi almeno di Crystal Ball, uno dei pezzi più fighi del disco. Non ho capito se parla di droga, di sesso o di sesso fatto sotto l’effetto di droga…
Alberto: (Risate) Strabello! Per me hai ragione.
Roberta: Cos’è che dice il testo?
Alberto: “Gira quell’acido”. Perché da bambino dici: cos’è questa storia strana che metti sul Crystal Ball? Ma effettivamente c’è questo coso per pippare… E poi “soffiami tu…”. Ma sai che mi stai facendo pensare?
Roberta: Ma non è così, eh? (Rivolta a me, nda) È una tua interpretazione.
Alberto: Quando uscirà e magari tutti diranno «che bel testo d’amore», tu (rivolto a me, nda) ti renderai conto che sei strano e hai qualche problema.
Questo è poco, ma sicuro. Perché avete scelto Volevo magia come titolo?
Roberta: Non abbiamo trovato niente di meglio.
Alberto: Volevo magia è strano. È al passato e al singolare, va bene per un solista, non per un gruppo: Nek Volevo magia, Paolo Vallesi Volevo magia hanno già senso (risate). E poi è interpretabile.
Tempo fa qualcuno di voi ha detto che non aveva Internet. Ho visto i vostri smartphone: allora ce l’avete una vita online…
Alberto: Oddio, una vita online… Non posso non avere WhatsApp. Ho dei figli, devo sentirli.
Andate sui social a vedere che cosa si dice di voi?
Luca: Io no.
Alberto: Io sì, ogni tanto la faccio ‘sta cazzata. Se per le prove devo ascoltare un pezzo che non ricordo, vado su YouTube a leggere cosa dicono. Magari a me al momento fa cagare e invece è tutto un complimento. È così per tutti i gruppi, i primi commenti sono tutto un «genio», «fantastico», «disco della vita». Tutti danno del genio a tutti, è incredibile. Devi andare in fondo per trovare gli sputtanamenti.
Che effetto ti ha fatto la polemichetta sulla tua partecipazione a X Factor coi Little Pieces of Marmelade?
Alberto: Me l’hanno riferita qualche giorno dopo.
Luca: Io l’ho saputa quasi un anno dopo.
Alberto: Non mi ha infastidito.
Alla base di quelle critiche c’è l’idea che voi incarniate un ideale di purezza…
Alberto: E io ho rovinato tutto andando in queste trasmissioni becere, hehehe. Fondamentalmente me l’ha chiesto Manuel due, tre volte. È un amico. Mi pagavano pure.
Roberta: Poco. Lo puoi scrivere sotto? «Mi pagavano pure», molto poco.
Alberto: E poi sono ragazzi che suonavano da dio. Sembravano noi da piccoli.
Roberta: Non avresti mai accettato se a chiedertelo fosse stato un giudice che non conoscevi.
Alberto: Sì, ovvio. Forse. Non lo so.
Roberta: Di sicuro.
Alberto: Ma non vedo il problema.
Roberta: Però subito dopo avevi messo in discussione il fatto di essere andato.
Avete un codice di condotta, un’idea di cosa potete fare o non fare, una band-modello da seguire?
Alberto: I Beatles. Quindi si può fare di tutto.
Roberta: Non si può fare quasi un cazzo, diciamo la verità. È quasi sempre un no. Possiamo fare questo? No. Vogliamo fare quest’altro? No.
Ma chi è l’uomo del no? Alberto?
Roberta: No, lui magari all’inizio dice di sì, poi se ci ripensa te la fa pagare cara.
Alberto: È che non ho voglia di fare quelle puttanate lì. Non per etica, eh?
Luca: Ma poi per andare dove?
Alberto: Infatti, dipende da cosa… Anzi, cancella tutto e torna indietro: noi faremmo qualsiasi cosa.
Roberta: Se invece parliamo dei rapporti fra di noi, diciamo che Alberto può fare quel cazzo che vuole, noi altri due quasi niente.
Alberto: Hehehe… è sempre stato così.
Qual è la peggiore decisione che avete preso come band?
Luca: Forse non andare in gara a Sanremo quando ci chiamò Mauro Pagani. L’abbiamo preso in considerazione per un attimo, ma eravamo nel trip di Wow, lo stavamo scrivendo o forse persino registrando, non abbiamo fatto fatica a dire di no, ma avrebbe potuto portare qualcosa, chi lo sa. E forse potevamo fare qualcosa di più all’estero.
Quanto seriamente ci avete provato?
Luca: Troppo poco. Bisogna girare tanto l’estero. Non si può pensare di fare un tour e poi stare fermi per tre, quattro anni come facciamo noi. Finisce che perdi le occasioni e i contatti.
Alberto: Non so se adesso è ancora così. Basterebbe una roba…
Una roba l’hanno fatta i Måneskin.
Luca: Sarebbe bello fargli da supporto da qualche parte.
Roberta: È un caso diverso, loro non hanno guadagnato pubblico facendo concerti.
Alberto: Però funziona.
Luca: La nostra idea è fare un tour in Europa a gennaio e febbraio.
Voi sui social e in particolare su Instagram, dove oggi passa la comunicazione dei musicisti come personaggi, ci siete poco. Al limite qualche foto quando siete in tour. Non vi rompono le palle per spingervi a esporvi di più?
Roberta: È da anni che ci hanno rinunciato.
Alberto: Non ne abbiamo voglia.
Roberta: Un altro problema è mettersi d’accordo per fare un post. Ogni parola viene soppesata.
Alberto: Ci passa almeno un mese per fare uscire un post.
Roberta: Abbiamo una mail a cui ci arrivano dei messaggi. Durante la pandemia, abitando a Bergamo, dove stava succedendo il merdaio, decine di fan preoccupati ci scrivevano per chiederci come stavamo. Sento loro due e dico che dovremmo pubblicare un post in cui diciamo che stiamo bene. «Sì sì sì, lo facciamo, lo facciamo». Non siamo riusciti a metterci d’accordo su cosa dire. Sembrava dovessimo fare il comunicato stampa della vita e invece dovevamo solo scrivere «ciao ragazzi, stiamo bene».
E quindi alla fine?
Roberta: Abbiamo lasciato perdere e i fan si sono tenuti la preoccupazione.
A volte mi chiedo come riusciate a mettervi d’accordo per pubblicare dischi.
Alberto: Anch’io, di tanto in tanto.
«Mi guardano e ridono tutti», dice Alberto fingendosi preoccupato. S’aggira per lo studio con un cappottone scuro bello largo. Roberta indossa un vestito bianco che sembra uscito dal baule d’una bisnonna. Luca ha tolto la t-shirt per indossare una camicia. Si posa per la foto di famiglia. Non una famiglia moderna e instagrammabile, ma una d’altri tempi, forse fuori dal tempo, sicuramente incasinata. Come tutte del resto.
Un po’ famiglia i Verdena lo sono davvero, giacché Luca e Alberto Ferrari sono fratelli. È da decidersi se Roberta Sammarelli copra il ruolo della sorella maggiore o della mamma. Quando viene fuori l’argomento un po’ baruffano. Mi convinco che se Tolstoj fosse cresciuto negli anni ’90 del Novecento avrebbe scritto che tutte le rock band si assomigliano, ma ogni rock band è disfunzionale a modo suo.
Mi è capitato più volte di leggere vostre dichiarazioni che precedono un album o un tour. Dite sempre: chissà se la gente ci ascolterà, chissà se verranno a vederci. Cos’è tutta questa insicurezza?
Luca: Deriva dall’isolamento.
Roberta: Vivere isolati ti dà questa sensazione.
Però vi ha anche tenuti al riparo dalle cazzate a cui è sottoposto chi sta a Milano o Roma, col risultato che nell’isolamento avete potuto costruire uno stile tutto vostro. Avete mai pensato di trasferirvi altrove?
Roberta: No.
Luca: Ma non è solo il posto dove vivi, è anche quello che fai. Non è che in tutti questi anni abbiamo frequentato chissà quali giri.
I fan vi vengono a trovare?
Roberta: Sì, fuori dallo studio. Ci portano da bere, le patatine.
Alberto: Le birre.
Roberta: A volte non si fanno neanche vedere e lasciano la schiscetta.
Alberto: Sono di tutte le età, anche bambini.
Qualcuno chiede il significato delle canzoni?
Alberto: Sì, ma c’è sempre un amico che lo sgrida: «Smettila, non voglio saperlo!». E poi comunque non risponderei, hehehe.
Nella foto avete rappresentato una famiglia fuori dal tempo. Io percepisco così anche la vostra musica, non esprime un senso di nostalgia eppure non sembra appartenere a questo tempo.
Luca: Io in qualche maniera ci vivo ancora nel tempo passato.
Alberto: (A Luca, nda) Qual è stato il giorno in cui hai deciso: io sarò sempre così? Sei rimasto fermo da qualche parte negli anni ’90.
Roberta: Anche la nostra musica è fuori da questo tempo, decisamente.
Alberto: Ma non è perché questo tempo non ci piace. In giro ci sono cose fighissime. Io sono l’unico dei tre che ascolta cose moderne.
Ad esempio?
Alberto: Drake.
Roberta: Io non so neanche cosa faccia Drake.
Alberto: Drake è il numero uno tra quelli che ho ascoltato. È quello che mi fa sentire bene. A volte si dilunga un po’ troppo, però spacca.
Roberta: È vero che non sentiamo l’influenza del tempo storico in cui viviamo. Se sapessi quel che ascolta Alberto non ci crederesti. È assurdo, perché poi ascolti i Verdena e quelle cose non le senti. Robe internazionali molto, ma molto pop.
Alberto: Niente nomi, perché poi ci fai il titolo dell’articolo.
Vi sentite diversi da quello che gira in Italia? Vi sentite delle eccezioni?
Alberto: Sarebbe presuntuoso dire di sì. Però in qualche modo… sì, hehehe.
In questi sette anni siete cambiati? Ormai avete superato tutti i 40 anni…
Alberto: (Al fratello, nda) Tu sì? Quanto hai?
Luca: 41.
Roberta: La mia vita è totalmente stravolta (dalla nascita di tre figlie, di cui due gemelle, nda).
Alberto: I figli fanno la differenza, ti trasformano.
Roberta: Fa la differenza anche la famiglia, avere o non avere qualcuno al tuo fianco.
Alberto: No, è diverso. Quello per i bambini è un amore incondizionato, quello per la morosa no.
Roberta: Il concetto di famiglia è più ampio rispetto ai figli.
Alberto: Comunque Luca non ha risposto.
Roberta: Perché la sua vita è probabilmente la stessa.
Alberto: (A Luca, nda) Tu sei abitudinario, sei un gatto, cazzo. Io e lui siamo l’esatto contrario come fratelli, forse è per questo che ci si incastra. Tutti i fratelli che stanno vicini tendono a fare un buco dove l’altro sta nei suoi spazi e tu stai nei tuoi.
È dura campare di Verdena a 40 anni facendo album e tour ogni tot anni, con la gente che compra sempre meno dischi fisici e lo streaming che non paga granché?
Alberto: Direi proprio di sì, ma stavolta è andata così.
Roberta: È molto dura.
Questa band è una sorta di famiglia fuori dalla famiglia?
Alberto: Sì, essendo poi partiti molto giovani questa cosa è ancora più forte. La Roby a volte mi sta proprio sui coglioni e anch’io a lei. È come mia sorella. Lui invece è un mio amico.
Ma tu ti senti più sorella o più mamma di questi due?
Alberto: Hehehe… No eh, non dire cazzate, scendi dal piedistallo.
Roberta: Quale piedistallo, scusa? Quello della schiava?
Alberto: Dai, vai, scusa.
Roberta: Allora: no, mamma no.
Alberto: Ha smesso, diciamo.
Roberta: Quando ha avuto le bambine vere inevitabilmente…
Alberto: Guarda che il tuo atteggiamento con noi è sempre uguale. Ti preoccupi come una madre.
Roberta: Fa parte del mio carattere, evidentemente.
Voi preoccupazioni zero, eh?
Alberto: Siamo come mariti sconsiderati, hehehe.
Roberta: Ho questa cosa della mamma innata perché sono una donna e perché loro sono dei maschi un po’… particolari.
E allora fammi un ritratto di questi due maschi particolari.
Roberta: Luca è molto abitudinario, preciso. Non gli piacciono i colpi di scena, gli inconvenienti. Alberto al contrario se li va a cercare, gli inconvenienti. Quando va tutto bene s’annoia e quindi deve rompere la situazione per creare un problema anche quando non c’è.
E una volta che hai creato un problema?
Alberto: (Indicando Luca, nda) Lui lo risolve, hehehe.
Roberta: No, lui ci sta male e va nel panico. Sono io che lo risolvo.
Ricordo che la prima volta che vi ho incontrati eravamo a casa di Alberto, sarà stato vent’anni fa. C’era una tenda in plastica antimosche e tu Alberto mi dicevi che ogni tanto dietro quella tenda vedevi Gesù.
Alberto: (Ride) Fumavamo una cosa chiamata salvia divinorum. Ma l’effetto dura poco: 30 secondi di delirio e poi basta.
A questo punto raccontatemi una storia rock’n’roll di un vostro tour.
Luca: Quando abbiamo aperto per gli MGMT, con lui che sbatte giù gli ampli al terzo pezzo.
Alberto: Davanti a un locale pieno di austriaci…
Luca: Non eravamo in Svizzera tedesca? Sono quasi sicuro che fosse Zurigo.
Roberta: Il concerto l’abbiamo finito, ma hanno lanciato gli strumenti giù dal palco, insultandosi.
Alberto: Però quando siamo scesi dal palco gli MGMT erano entusiasti. Anche nelle interviste hanno parlato di quegli italiani pazzi…
Va bene, ma qual era il problema?
Alberto: Avevamo finito l’erba.
***
Foto: Marco P. Valli
Direzione creativa: LeftLoft
Styling: Francesca Piovano
Make-Up and Hair Styling: Amy Kourouma
Video backstage: Lorenzo Bailo
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Alberto e Luca indossano Magliano, Roberta indossa Lessico Familiare