A Malibu sono le 10 del mattino e Zuma Beach è deserta, a parte un husky vicino alla riva e un surfer nell’acqua fino alla vita. Il cielo di fine novembre è bellissimo, d’un azzurro pastello, e anche la luce sembra fin troppo perfetta. Pare d’essere in un sogno di Tony Soprano. O forse sono morta e mi trovo in una specie di aldilà, dove potrò incontrare la indie band più elettrizzante del mondo. Quando esprimo ad alta voce questo pensiero, Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus (vale a dire le boygenius, scritto minuscolo) scoppiano a ridere. «Benvenuta in Purgatorio», dice Dacus, 27 anni. «Come ti sei comportata in vita?».
E invece è tutto vero: le tre cantautrici che formano le boygenius si sono riunite l’anno scorso per la prima volta dopo l’EP d’esordio del 2018 e il risultato è un album di debutto favoloso. E stamani sono qui per parlarne per la prima volta. Le tre passeggiano sulla spiaggia stilose, manco fossero i Backstreet Boys nel video di Anywhere for You. Non si prendono troppo sul serio.
Bridgers: Mia madre, ieri sera, s’è fatta il suo primo tatuaggio, a casa mia.
Dacus: Io quando facevo le superiori ho disegnato un tatuaggio per mia mamma.
Bridgers: Per me sarà un anno strapieno di tatuaggi, me lo sento.
Baker [che ha molti tatuaggi]: Benvenuta!
Dacus porta occhiali da sole con montatura porpora e un cappellino da baseball di velluto bianco. Baker, 27 anni, se ne sta in piedi nella sabbia con una t-shirt rosa sgargiante sotto una felpa nera. Bridgers, ventottenne nata a Los Angeles che di recente ha comprato casa vicino a Calabasas, sfoggia il suo look tipico in nero, a parte un cappellino da baseball beige su cui è scritto “Lucy mi ama, papà mi teme”. È una citazione da Thumbs, brano tratto dal fortunatissimo album solista di Dacus Home Video, del 2021, in cui sogna di assassinare il pessimo padre della sua amica.
Alle boygenius piace il classic rock. Quando nel 2021 Bridgers ha parlato con Paul McCartney su Instagram Live è scoppiata a piangere. Alle tre piace anche sovvertire la venerazione per gli eroi maschili d’ogni tipo (il nome della band fa riferimento agli uomini troppo sicuri di sé che raccolgono apprezzamenti per qualsiasi cosa dicano) e, più d’ogni altra cosa, vogliono essere trattate come i colleghi maschi che sono in band famose. La copertina del loro EP omonimo le ritrae sedute su un divano nella posa di Crosby, Stills & Nash nel loro disco d’esordio. E sulla copertina di Rolling Stone US di questo mese rimettono in scena lo scatto della nostra copertina dedicata ai Nirvana di gennaio 1994.
Baker, Bridgers e Dacus sono tutte molto stimate, anche se Bridgers ha raggiunto lo status di “musicista che anche tuo padre conosce” durante la pandemia grazie al secondo album Punisher (quattro nomination ai Grammy) e a collaborazioni con Taylor Swift, McCartney, Lorde e altri (in primavera aprirà i concerti di Swift). Le tre amiche, che si identificano tutte come queer, sono da sempre legate dall’idea di parità: non c’è una leader e tutte sono incoraggiate a suggerire idee o a porre il veto. «Creiamo sostenendoci a vicenda», spiega Bridgers. «Siamo tutte leader. Tutte quante sperimentiamo l’emozione di essere alla guida, che è una cosa pazzesca e fin dall’inizio è stata la filosofia della band».
Baker, che è un po’ il cuore del trio, ti travolge a livello emotivo con le sue interpretazioni vocali; Bridgers, che ne è l’anima, è quella delle melodie malinconiche e delle pene d’amore; Dacus, la mente, scrive canzoni che ricordano i romanzi russi che divora (questa è la sua recensione di Guerra e pace, che ha letto durante il lockdown: «è un libro pazzesco»). Insieme, come boygenius, sono «tipo gli Avengers», per citare la loro amica Hayley Williams dei Paramore.
Dacus e Baker si sono conosciute nel 2016, quando hanno fatto un concerto insieme a Washington, D.C. «Sono entrata in camerino e ci ho trovato Lucy che leggeva Ritratto di signora», ricorda Baker. «Ho subito pensato: diventeremo amiche». Hanno legato rapidamente, trovando un punto di contatto nelle comuni radici che affondano nel religiosissimo sud (Baker è del Tennessee, Dacus della Virginia). Dacus ha strappato una pagina bianca del libro e ci ha scritto sopra la propria e-mail. Di lì a poco hanno preso a scambiarsi lunghe lettere, scambiandosi consigli di lettura e prendendosi una cotta l’una per l’altra (anche se l’hanno confessato solo più avanti).
Baker ha incontrato Bridgers un mese dopo. Quando hanno scoperto che sarebbero andate in tour tutte e tre assieme, nel 2018 hanno deciso di entrare in studio per incidere un singolo che promuovesse i concerti. «L’idea era fare una sola canzone, ne abbiamo registrate sei», dice Bridgers. «Non è stato come innamorarsi. È stato innamorarsi».
L’EP omonimo delle boygenius, uscito nell’autunno di quell’anno, ha stupito critica e fan. La loro musica chitarristica ed emotivamente intensa possedeva tutte le qualità che hanno reso il rock la colonna sonora di una generazione, molto tempo fa, e suggeriva che poteva esserlo di nuovo. Erano tutte ottime songwriter che conducevano vite separate, eppure insieme suonavano come una squadra unita, in parte per via di ciò che le accomuna. «Potevamo lamentarci fra di noi di tutti gli aspetti più sgradevoli del nostro lavoro», dice Dacus. «Condividiamo esperienze che fanno pochissime delle persone che entrano nelle nostre vite». Per Bridgers, stare insieme alle boygenius significa «avere la conferma costante del fatto che i miei problemi sono reali».
Ci hanno messo quattro anni per incidere un disco intero. Nel frattempo, quasi in ogni intervista che hanno rilasciato, sentivano ripetere la domanda su quando sarebbero tornate a lavorare insieme. Non si sono mai sbottonate e anche oggi, davanti alle onde che s’infrangono sulla battigia, recitano le loro risposte tipiche. Bridgers tendenzialmente dice «se funzionerà ancora»; Baker «forse, in un momento non ben definito, più avanti»; mentre Dacus se ne esce con un semplice «cavolo, magari!».
The Record arriverà il 31 marzo su Interscope ed è la prima uscita su major per tutte e tre. Con accordi fragorosi, cantati dinamici e testi che di sicuro la vostra cuginetta più giovane mimerà in playback su TikTok (nel disco, i cowboy hanno tatuaggi sul collo, qualcuna viene chiamata “troia d’inverno” e qualcun altro cade dalle scale) è destinato a divenire uno degli album migliori del 2023.
Baker, Bridgers e Dacus avrebbero potuto continuare le proprie carriere soliste e a inseguire ambizioni personali, ma hanno preferito fare musica insieme. «Questa band mi dà la possibilità di essere ambiziosa come non mi è permesso da solista, perché è qualcosa che condivido con persone che adoro e sono le migliori autrici di tutti i tempi», dice Baker. «Sono semplicemente orgogliosa di questa cosa».
Aggiunge Bridgers: «Ognuna di noi è ossessionata dalle altre. E io mi piaccio di più quando sono con loro».
Baker non è una tipa da spiaggia. Viene dal Tennessee e può contare con le dita di una mano le volte in cui è andata al mare. Non è detto che sia una cosa negativa. Durante un viaggio a Malibu, in cerca d’ispirazione, è andata a farsi una nuotata nonostante Bridgers l’avesse avvertita che il mare era troppo agitato. «Le onde mi hanno sfinita al punto che non riuscivo nemmeno ad alzare la testa per il tempo necessario a capire dove mi trovavo», racconta. «Ma dentro di me sono un maschiaccio e mi dicevo: sono in forma, posso cavarmela. Mica vero, potevo annegare».
In quegli istanti, nella testa di Baker prendeva forma un pensiero macabro: «Mi dicevo: in fondo questo non è il modo peggiore di morire. Non è una cosa traumatica o solitaria, non è una fine violenta o una malattia orribile. Mi stavo divertendo in spiaggia con le mie amiche. Sarebbe stato come morire soffocata da dei cuccioli».
L’incidente ha ispirato Anti-Curse, uno dei pezzi da headbanging di The Record, in cui Baker ricorda quel giorno regalando alcune chicche. Il verso “salt in my lungs” richiama il pezzo delle boygenius cantato da Dacus dal titolo Salt in the Wound, mentre più avanti emerge una melodia presa da Savior Complex di Bridgers. «Cazzo se mi piacciono i leitmotiv!», dice Baker. E, come se non bastasse, tira fuori la frase di Joan Didion preferita da Bridgers: “Qualcuno è mai stato così giovane?”.
In una mattinata stranamente nuvolosa a Venice, California, incontro Baker in una caffetteria che spara Abbey Road a tutto volume e in loop. Indossa jeans nerissimi risvoltati sui Doc Martens. Sul taschino anteriore del giubbotto verde c’è una toppa dei Mayhem, la band black metal norvegese, e da sotto le maniche s’intravedono dei tatuaggi sulle nocche. Su una mano c’è scritto “Hard”, sull’altra “Work”. Quando un’ape le passa dietro, lei si scusa: «Mi spiace, abbiamo costruito una casa sulla tua casa».
Ci vediamo qui perché servono l’espresso tonic, la bevanda a base di caffè preferita da Baker. Nella casa di Goodlettsville, Tennessee, che si è comprata a marzo lo prepara con Angostura Orange Bitter, sciroppo di zucchero e una fetta d’arancia. Le piace cucinare, spesso griglia verdure e pesce: salmone teriyaki, bistecche di tonno e fish tacos con tilapia e cernia. Mariah Schneider, la sua partner da tre anni, cuoce il pane.
Baker s’illumina quando parla dei suoi due cani. «Mi sono comportata come la tipica signora omosessuale, portando la conversazione sui cani. Credo che a 50 anni dirigerò un ente per il recupero dei pitbull o qualche cazzata del genere».
I fan sono in grado di riconoscere all’istante il contributo di Baker in ogni canzone delle boygenius, dalla sua chitarra lancinante alle battute che ti spezzano il cuore. È il caso ad esempio di $20, il secondo pezzo di The Record, che inizia dicendo “è una pessima idea e mi va tantissimo di farlo” con un riff molto heavy. Baker spiega che parla «dell’impulso a stuzzicare il can che dorme che cerco di tenere sotto controllo»; è anche una riflessione su Flower Power, la celebre foto di Bernie Boston scattata alle proteste conto la guerra in Vietnam. «Mi ha fatto ricordare la tensione che, da bambini, si percepisce fra l’insoddisfazione per la propria vita a livello individuale e ciò che succede nel mondo in generale. Da bambina parlavo molto di queste cose, ascoltavo i Green Day e dicevo “Fanculo George Bush! La guerra è sbagliata! Non si uccide per il petrolio!” e i miei genitori mi rispondevano “Hai solo 10 anni”».
Baker è gay ed è cresciuta a Memphis in una famiglia di fede evangelica. «Abbiamo molto in comune, abbiamo sperimentato quanto può essere oppressiva la Chiesa e siamo cresciute nella Bible Belt», spiega Hayley Williams, che ha ricevuto un’educazione cristiana nel Mississippi. «È un argomento pesante, ma lei è una che ne può parlare perché è intelligentissima e divertente».
Dopo essersi liberata da una dipendenza da oppiacei, Baker è diventata straight edge convintissima. Ha sempre parlato apertamente della sua sobrietà, anche quando faceva promozione per il suo esordio Sprained Ankle e per Turn Out the Lights (2017), ma ultimamente ha «cominciato a smantellare il mio sistema di convinzioni e valori. E mi sono chiesta: sono rimasta sobria per tutto questo tempo perché è salutare o perché ho una tendenza ossessivo-compulsiva che mi spinge verso gli estremi? Tipo tutto o niente. La mia vita da sobria è migliore, ma ci vuole un sacco di forza».
Mi domando cosa pensi Baker della fama e se le farà piacere ricevere ancora più attenzioni dopo l’uscita di The Record. «Una parte di me si spaventa facilmente per roba del genere, sai, ho il complesso della ragazza di campagna», dice seduta in un bel ristorante. «Per adesso gli impegni che abbiamo sono gli stessi del mio lavoro da solista, solo su una scala differente. Non credo che la mia vita potrebbe cambiare radicalmente senza che io lo voglia. Posso andare a suonare in locali più grandi di quelli dove mi esibisco di solito per poi tornare a casa e continuare ad aiutare i miei vicini a tagliare l’erba del prato».
Studia il menù. «Ci aggiungo un riccio di mare?», si domanda. «Voglio davvero un toast con sopra un riccio di mare? Non sono così audace alle 11 del mattino».
Quando ci incontriamo in spiaggia, le boygenius stentano a credere che fra meno di due mesi uscirà della loro musica nuova. Hanno stabilito che gennaio (quando sono usciti i singoli $20, Emily I’m Sorry e True Blue) è un buon mese. Dicembre no. E non parliamo di febbraio.
Baker: Febbraio può… ne abbiamo parlato.
Dacus: Stavi per caso per dire che febbraio può succhiarci il cazzo?
Baker: No. Febbraio fa sempre schifo.
Bridgers: Ce lo succhia sempre!
Dacus [rivolta a me]: Scusa, magari tu compi gli anni a febbraio.
Guardandosi indietro, Bridgers pensa di avere inconsciamente cominciato a scrivere per le boygenius appena dopo l’uscita di Punisher, a giugno del 2020. «Era arrivato il Covid e non mi sentivo granché produttiva», dice. «Pensavo parecchio alle boygenius e ci mandavamo spesso messaggi tipo: “Oh Dio, che cazzo sta succedendo al mondo?”. Volevo solo parlare con le mie amiche. Poi ho iniziato a scrivere una canzone e mi sono detta: questo è proprio un pezzo delle boygenius».
Il brano in questione è Emily I’m Sorry. Bridgers ne ha mandata una versione demo a Baker e Dacus chiedendo: «Possiamo essere di nuovo una band?». «Faticavamo a parlarne», dice Bridgers. «Temevamo tutte di essere troppo entusiaste dell’idea».
A quel punto, Baker ha creato una cartella in Google Drive con vari demo registrati con Logic, ognuno intitolato boygenius 1, boygenius 2, boygenius 3 e via così. «Phoebe ha detto: forse dovresti iniziare a dare dei titoli alle canzoni», racconta Baker, scoppiando a ridere. Dacus: «Julien spesso scriveva una canzone e la caricava in Google Drive senza dire nulla. È quella che ha contribuito di più».
Le tre hanno fatto un paio di viaggi per scrivere insieme (a Healdsburg, California, ad aprile 2021, e a Malibu ad agosto 2021) e hanno lavorato scambiandosi messaggi in una chat di gruppo che usano assiduamente fin dal 2018. È stato durante uno di quei viaggi che è nata Leonard Cohen. Erano tutte nella Tesla di Bridgers, in compagnia del suo carlino Maxine, sulla strada di ritorno da Healdsburg verso Los Angeles e si sono messe a parlare di grandi canzoni senza ritornello. «Quel tipo di pezzo è la mia ossessione, perché se non è perfetto fa schifo», spiega Bridgers. «Ma se ce la fai, diventano arte trascendentale. Hallelujah ha un ritornello, ma non è dissimile come tipologia».
Per spiegare meglio questa idea, Bridgers ha fatto ascoltare alle amiche The Trapeze Swinger, il pezzo del 2005 di Iron & Wine, insistendo affinché sentissero per intero quei 10 minuti. Bridgers era così presa che ha smesso di seguire il GPS e le sue amiche non hanno avuto il coraggio di dirle che stava andando dalla parte sbagliata.
«Abbiamo deciso che ascoltare la canzone era più importante», ricorda Dacus. «Quando è finita le abbiamo detto: bellissima, ora però dovresti fare inversione».
Come The Trapeze Swinger, anche Leonard Cohen è senza ritornello. C’è solo Dacus alla chitarra acustica che snocciola versi affascinanti (“Ti sei sentita un’idiota ad allungare il viaggio di un’ora / Ma così abbiamo avuto più tempo per metterci in imbarazzo / Raccontandoci cose che non avremmo detto a nessun altro”) e divertenti (“Leonard Cohen una volta ha detto che in ogni cosa c’è una crepa / Da lì entra la luce / Io non sono un anziano in crisi esistenziale / In un monastero buddista / Che scrive poesie arrapate / Ma sono d’accordo”).
È un pezzo che riassume la grandezza delle boygenius in una manciata di parole: sono autrici in grado di citare, entusiaste, una verità straziante rivelata da un uomo anziano e poi, nel verso successivo, farlo delicatamente a pezzi. Ricordando l’episodio alla guida, Dacus e Bridgers lo spiegano in una frase sola.
Dacus: Non ti diciamo niente quando hai la faccia sporca di cibo.
Bridgers: Non mi dite niente quando ho la faccia sporca di cibo.
La band ha passato quasi tutto il mese di gennaio 2022 nello studio Shangri-La di Rick Rubin, con l’aiuto di alcuni dei migliori session men dell’indie rock, dalla batterista Carla Azar (Autolux) a Melina Duerte (Jay Som) al basso. Hanno lavorato per giorni interi ai pezzi, a volte anche per più di dieci ore di fila, per poi rilassarsi guardando thriller come Una donna promettente, Mademoiselle e Yellowjackets.
Hanno ingaggiato come co-produttrice Catherine Marks, nota per i lavori con Manchester Orchestra e PJ Harvey. Marks racconta che c’era una specie di routine mattutina in studio: Baker andava a correre, mentre Dacus faceva una lettura dei tarocchi per «controllare le vibrazioni».
Marks si univa a Bridgers per delle session di yoga. «Per me era un gran lusso», dice, «perché di solito, quando lavoro con la Manchester Orchestra, nessuno vuole fare esercizio fisico. E magari ci siamo anche scolati una bottiglia di bourbon la sera prima».
Dopo due settimane di lavoro, hanno chiamato Sarah Tudzin degli Illuminati Hotties come tecnico del suono e produttrice aggiunta. Tudzin ha lavorato da sola a The Record, nel vecchio tour bus di Bob Dylan che c’è parcheggiato nel cortile dello studio. «Si sono lasciate andare come non fanno mai nei loro progetti solisti», dice Tudzin. «C’è molta leggerezza e umorismo, anche se restano fedeli alla loro intensità e profondità come autrici».
Tudzin e Marks mi chiedono entrambe, ansiose, se nel disco è stata inserita una canzone intitolata Don’t Fuck with My Girl. Non c’è e questo dimostra quanto siano state intense le session. Tudzin mi conferma che c’è una miniera di outtake: «Avevano 25 hit belle e buone».
Quando incontro Bridgers in un ristorante vegano di Venice, lei si guarda intorno prima di togliersi il cappuccio del giubbotto nero scoprendo i capelli biondo platino tirati indietro in un’acconciatura semplice. Si siede nel patio esterno circondato da ulivi. Farsi vedere in giro, dopo il boom di Punisher, è diventato difficile. «Preservarti quando condividi così tanto di te stessa col resto del mondo non è facile», spiega addentando un Tempeh BLT. «Oggi ad esempio non potrei iniziare a fare promozione per un mio disco, mi serve una pausa». Ordina una spremuta d’arancia col suo accento tipico della California meridionale e, con una certa riluttanza, opta per dell’acqua quando le viene detto che il succo d’arancia non è disponibile.
Bridgers ha fatto moltissima promozione per Punisher (tante copertine di riviste e partecipazioni a show televisivi) e, anche se non può essere certo considerata un nome notissimo, trova scioccante questa notorietà appena acquisita, specialmente in qualità di autrice che venerava musicisti riservati come Elliott Smith e Tom Waits e ha intitolato il suo album Punisher riferendosi ai fan invadenti. «Dentro di me sono una tipa molto indie, ma certe persone pensano che io non sia abbastanza famosa per potermene lamentare», spiega. E la cosa vale anche per la fanbase delle boygenius: «Abbiamo certi superfan come quelli di John Lennon, ma certi nostri parenti pensano che non tiriamo su un soldo. Tipo: quando vi troverete un lavoro vero?».
La mamma di Bridges s’è fatta il tatuaggio di cui si diceva in occasione di una festa per il Ringraziamento organizzata da Bridgers (la coinquilina della sua assistente è una tatuatrice). «C’è stato un periodo in cui per un anno intero non ho parlato con mia madre, poi ho organizzato un Friendsgiving ed è stato bellissimo, perfetto. M’è venuta voglia di farlo tutti gli anni e così è stato. Mamma ed io ora siamo amicone».
I genitori di Bridgers hanno divorziato nel 2015, quando la cantante aveva 20 anni. Lei aveva un rapporto difficile col padre, che le ha ispirato il singolo Kyoto, tratto da Punisher, anche se nel corso della pandemia si sono riavvicinati.
«Prima del Covid non parlavo con mio padre da un paio d’anni. Però il Covid, impedendoci di vederci, mi ha fatto capire cosa volevo: parlargli apertamente». Non molto tempo dopo questa intervista, il papà di Bridgers è morto. Aveva 60 anni. Lei ha postato una foto: ha i capelli di un rosa intenso, è seduta vicino al papà e stanno ascoltando qualcosa insieme con delle cuffie. Ha scritto “Riposa in pace papà”.
Bridgers è protagonista di alcuni momenti brillanti di The Record. Chiunque apprezzi il pezzo romanticissimo delle boygenius del 2018 Me and My Dog sarà ancora più devastato all’ascolto di Letter to an Old Poet, un monologo brutalmente onesto su un “amore che consuma tutto”. Il pezzo parla di «quando qualcuno ha così tanto potere su di te da smettere di essere una persona», spiega Bridgers, anche se non vuole dire di chi si parla.
Emily I’m Sorry è una storia spezzacuore con un testo che fa “Emily, perdonami, possiamo fare pace mentre andiamo avanti? Ho 27 anni e non so chi sono, ma so cosa voglio”. Revolution 0, che inizialmente doveva chiamarsi Paul Is Dead per via delle teorie cospirazioniste sui Beatles, parla di Bridgers che “si è innamorata online” (lei non ha detto a chi si riferisce il brano, ma i fan pensano si tratti dell’attore irlandese Paul Mescal). Si diceva che Bridgers e Mescal fossero fidanzati, ma poi pare si siano lasciati; Bridgers non ha commentato, ha solo detto di non essere impegnata al momento.
Le chiedo se vede come un esempio da seguire la capacità di Taylor Swift di proteggere la propria vita privata. «Traggo ispirazione dalle persone che mi sembrano felici. In quanto a me, ci sto ancora lavorando. Lei è una persona molto profonda e saggia e non ha sacrificato il divertimento. Protegge l’intimità che la gente ha cercato di violare».
«Non si parla mai abbastanza di come le persone abbiano successo e poi trovino la felicità», continua. «Ora posso ingaggiare i miei migliori amici perché viaggino per il mondo con me e non devo più circondarmi di gente di merda».
Questa frase ricorda il verso che Bridgers ha scritto per Ghost in the Machine, un pezzo fra i migliori di S.O.S. di SZA: “Hai detto che tutti i miei amici sono sul mio libro paga / Non ti sbagli, sei uno stronzo”. Alcuni fan hanno ipotizzato che si parlasse di Mescal, mentre io mi sono chiesta se si trattasse di Conor Oberst dei Bright Eyes, suo compagno di band nei Better Oblivion Community Center, con cui si vocifera abbia avuto anche una storia. Tempo dopo, quando telefono a Bridgers e le chiedo se le cose stanno così, risponde: «Non ricordo, come direbbe un politico». Resta ugualmente sul vago a proposito del futuro dei BOCC dicendo: «Non so».
SZA ha conosciuto Bridgers contattandola online: dopo avere chattato un po’, hanno deciso di collaborare e ne è uscito un brano in una settimana circa. «La amo», dice Bridgers di SZA. «Abbiamo parlato di astrologia, rabbia e mettere dei paletti. Ci siamo subito intese con un lessico culturale che condividiamo. Per cui, sì, anche se lei è una specie di autrice divina, penso sia speciale e profondamente umana».
Dopo la passeggiata in spiaggia, pranzo con le boygenius al Little Beach House di Malibu, dove è proibito scattare foto (nonostante ciò, un tizio va da Bridgers dicendole che la sua ragazza dorme con una t-shirt di Phoebe Bridgers e le chiede una foto, che la cantante concede volentieri).
Tutte e tre le componenti della band hanno aneddoti circa interazioni assurde coi fan: a volte qualcuno ferma Baker mentre corre, Dacus viene salutata quando è seduta a leggere su una panchina (e ammette di non alzarsi mai per fare una foto) e Bridgers una volta ha avuto una conversazione molto delicata con sua madre, mentre facevano una passeggiata, senza rendersi conto che qualcuno la stava seguendo da cinque isolati.
«Vorrei che diventasse normale parlare male di certi fan», dice Bridgers. «Non è che sei costretto a filmarmi di nascosto, inseguendomi per strada».
Bridgers sorseggia un cortado al latte d’avena, alzandosi ogni tanto per scaldarsi le mani vicino a un fuoco. Il suo halibut alla griglia con aioli aromatizzato allo yuzu e riso al cocco è quasi pronto, così come la Caesar salad e i fish tacos di Dacus. Quando il poke al tonno di Baker non arriva, Bridgers si preoccupa e chiede al cameriere se ne ha notizie. «Grazie mamma», dice Baker all’amica.
Alle boygenius piace leggere e non lo dico genericamente. La maggior parte del nostro pranzo la passiamo a parlare di fiction letteraria e loro si scambiano opinioni sulle letture più recenti: Nightbitch di Rachel Yoder, The Great Divorce di C.S. Lewis, Weather di Jenny Offill, Stone Butch Blues di Leslie Feinberg. E The Seaplane on Final Approach di Rebecca Rukeyser, di cui Bridgers mi dà una copia il giorno dopo.
Le cose possono diventare bizzarre in questo book club. Accade quando salta fuori una scena di sesso di Either/Or di Elif Batuman. «Avevo l’imene quasi completamente chiuso», dice Bridgers mentre Baker e Dacus scoppiano in una risata isterica. «Dovrebbe essere questo il titolo», dice Dacus.
Stare con le boygenius è così: si parla di tutto apertamente, dalle membrane a cosa accadrebbe se Shakespeare imparasse a usare il software musicale Ableton. Il brano dell’album che meglio esprime questa atmosfera è Not Strong Enough. È quello a cui più hanno collaborato insieme e il ritornello, “non so perché io non sia forte abbastanza da essere il tuo uomo” cresce ed esplode in un momento di euforia indie ispirata a Frank Black.
Bridgers aveva messo da parte molto tempo prima la frase “non abbastanza forte da essere il tuo uomo”, che strizzava l’occhio a Strong Enough di Sheryl Crow, in attesa di scrivere la canzone perfetta. «I due lupi dentro di noi possono essere l’odio per se stessi e l’autocelebrazione”, spiega Bridgers. «Tipo: non sono forte abbastanza per farmi avanti con te, non posso essere la partner che vorresti io fossi. Ma anche: sono troppo incasinata, non è possibile capirmi. L’odio per se stessi a volte può portare al delirio di onnipotenza, se arrivi a pensare di essere la persona più incasinata al mondo. No, semplicemente, non lo sei».
Baker aggiunge: «Ecco un altro esempio di Phoebe che prende un gioco di parole per poi trasformarlo in un concetto pieno di sfaccettature».
Non dovrebbe essere un dettaglio importante il fatto che una grande band sia composta tutta da donne (immaginate come sarebbe descrivere i Traveling Wilburys o CSNY come supergruppi al maschile). Ed è un concetto su cui Baker, Bridgers e Dacus si sono soffermate, negli anni, durante le interviste. Hanno manifestato fastidio verso la necessità di sottolineare il loro genere e sdegno per il virtue signaling che porta a considerarle come simboli e non artiste. «Per noi è sempre stato importante essere come ogni altra band: vogliamo la libertà di fare un pezzo malato senza dover essere giudicate», dice Baker. «Sarebbe meglio, per un ragazzo, guardare delle foto live o leggere i crediti dell’album e capire che questo mondo è accessibile anche a lui, piuttosto che leggere una dichiarazione diretta che dice che tutte le componenti della band sono queer».
Singolarmente, le boygenius sono sotto contratto con etichette indipendenti (Bridgers è su Dead Oceans, Baker e Dacus su Matador). Ma, spiegano, per The Record la scelta di Interscope è parsa la più sensata. «Non avrei mai pensato che una major sarebbe stata ciò che mi serviva o qualcosa a cui avrei aspirato», spiega Baker. «Ma non sono particolarmente contraria alla cosa, a livello di principio. Quando abbiamo iniziato a trattare con un po’ di etichette ci siamo semplicemente chieste chi ci offriva l’accordo migliore, ci lasciava la proprietà dei master, ci dava più libertà e risorse creative».
Prima di The Record, l’album ha avuto diversi titoli papabili, tutti specchio dello humour tipico delle boygenius: American Idiot, The White Album, Beach Boys via così. Bridgers sorride pensando a un’altra ipotesi. «Ci piaceva In Rainbows», dice. Baker tira indietro la testa ridacchiando e allargando un gran sorriso.
«Gay!», urla Dacus.
«Gay!», risponde Bridgers.
In un’altra vita, Dacus avrebbe potuto essere una giornalista. Mentre siamo insieme si preoccupa della qualità della mia registrazione e specifica sempre con precisione ciò che deve restare confidenziale. Arrossisce come un peperone quando si rende conto di avere detto delle cose positive su di me in un momento in cui mi ero alzata dal tavolo e avevo lasciato il registratore acceso. «Lucy è un’osservatrice», dice Bridgers. «Se ti nota, Lucy ti fa sentire amata».
Dacus ed io ci incontriamo una sera al Wabi Rose, un ristorante chic da sushi con séparé ricoperti di ciniglia rosa dello stesso colore delle loro scatole per il cibo d’asporto. Seduta al suo tavolo, in felpa nera, spiega di avere dormito solo un paio d’ore perché la sera prima è uscita con le altre. «Oh, aspetta», dice, prendendo il telefono. «Sto per perdere una partita a scacchi. Ti spiace se mi calo nei panni della nerd per un secondo?».
Dacus scrive sempre, anche durante la passeggiata di oggi. «Scrivere è il modo in cui dialogo con me stessa», dice. Durante le conversazioni trova materiale che la ispira, come a pranzo, con le altre boygenius, quando ha detto: «La mia madre biologica mi ha detto che quando ha compiuto 50 anni ha scoperto la rabbia “come se fosse stata nascosta sotto al letto”. Quella frase mi ha esaltata. Non è pazzesca? Devo metterla in un pezzo».
Dacus è stata adottata ed è cresciuta in una famiglia molto cristiana a Richmond, Virginia e racconta la sua infanzia (con tanto di chiesa quattro volte alla settimana) in Home Video. Ma è stato con Historian del 2018 che ha scosso gli ascoltatori per la prima volta, in particolare con quell’inno brutale alla separazione, di quasi sette minuti, che è Night Shift, in cui dice addio a un’amante con cui però deve ancora lavorare (“Tu lavori dalle 9 alle 5, così farò il turno di notte / E non ti vedrò più se può essere d’aiuto”). Il brano, in cui è facilissimo immedesimarsi, è diventato la sua Thunder Road (recentemente, nello Spotify Wrapped di suo padre, Dacus si è piazzata subito dopo Springsteen, ma il babbo le ha detto: «Sai che tu sei la mia autrice preferita e lo sarai sempre»).
Hayley Williams ricorda quanto si è aggrappata a Night Shift nel periodo del divorzio del 2017. «Quando ho incontrato Lucy di persona le ho detto: non hai idea di quanto mi paia di conoscerti. La sua voce mi è stata molto di conforto».
Ma ciò, spesso, rischia di evocare lo stereotipo della ragazza triste, che riduce le cantautrici a specchio di una singola emozione e tenta di far diventare un genere musicale l’indie-da-ragazza-triste, cosa a cui Dacus si è sempre detta contraria. «Voglio solo che io e le mie amiche sopravviviamo», dice. «Quando la interiorizzi, la tristezza diventa la tua personalità, cosa che molte volte è legata alla depressione che, a sua volta, spesso deriva da un senso di distacco dalla vita. Io desidero sperimentare tutta la gioia possibile e voglio lo stesso per le persone a cui voglio bene. A livello personale non voglio essere bollata in quel modo. Non è vero. Smettetela. Cerco sempre di scrivere cose più articolate».
Dacus ha lasciato Richmond nel 2019 per trasferirsi a Philadelphia. È raramente a casa e dice che nell’anno passato ci è stata al massimo cinque giorni al mese (e quando è in volo ascolta sempre Helplessly Hoping di CSN). Ma quando è a Philadelphia ha una routine sacra: le piace alzarsi e non parlare per il primo paio d’ore della giornata. Si prepara del tè, lo porta nel suo studio, accende una candela ed estrae un tarocco dal mazzo di carte. Poi scrive il suo diario, legge o scrive musica. «Da quel momento in poi, possono accadere tante cose».
Più di ogni altra cosa, si tiene strette le amicizie, specialmente le sue compari di band. Lo esprime al meglio la canzone We’re in Love di The Record, che immortala la bellezza del legame che unisce le boygenius. Se Night Shift era il pezzo sulla fine di una storia d’amore, We’re in Love rappresenta la lettera d’amore definitiva in onore dell’amicizia: un’ode minimale e affascinante alla band che ha fatto piangere Catherine Marks, mentre la registrava. “Se tu dovessi riscrivere la tua vita”, canta Dacus, “potrei ancora averci una parte?”.
Nel procedimento di selezione dei brani, Baker ha votato per escludere We’re in Love dall’album. Ci ha messo del tempo a chiarirsi le idee. «A volte fatico a farmi coinvolgere dalle canzoni supersentimentali. C’è qualcosa che mi spaventa, ma ora è una delle mie preferite dell’album». Quando l’hanno ascoltata insieme in auto, Dacus e Bridgers si tenevano per mano.
Le boygenius stanno pensando di promuovere The Record con una serie di conferenze stampa nelle città più importanti, così da evitare di essere sommerse d’interviste, ma anche perché sembra divertente. «È una cosa kitsch e divertente da fare», dice Dacus. «Voglio vedere Phoebe e Julien al top». Quest’anno andranno in tour (saranno anche al Coachella) e sono tutte d’accordo sul fatto che essere insieme on the road renderà la cosa più sopportabile. «Suono per migliaia di persone ogni sera e a volte sono messa malissimo, di testa», dice Bridgers. «È difficilissimo relazionarsi alla gente. Ma non con loro. Stare con loro rende tutto meno cupo».
Dacus, che ha tenuto più di 50 concerti nel corso del tour di Home Video, concorda: «Quando siamo insieme ci sentiamo a casa. Abbiamo parlato di scegliere un programma tv e di guardarne un episodio ogni sera, prima di andare a dormire. Roba da libri per bambini. Darò loro un bacino sulla fronte e poi rimboccherò le coperte».
La band sta raccogliendo delle idee per il tour e una è che Dacus e Bridgers potrebbero sbaciucchiarsi mentre Baker esegue un assolo di chitarra. Chissà, magari potrebbero baciarsi tutte e tre. Baker scuote il capo e si mette a braccia conserte. «Non vuoi limonare con noi?», chiede Bridgers.
«Sono una della vecchia scuola, monogama», replica Baker.
Dacus: «Dai, che ci stai facendo un pensierino».
Baker allarga le braccia e sorride: «Scherzo. Limonerò con voi».
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Producer: Rhianna Rule
Photography direction: Emma Reeves
Fashion direction: Alex Badia
Hair: Dita Vushaj @ Tracey Mattingly usando Leonor Greyl
Makeup: Amber Dreadon @ A-Frame
Manicure: Sreynin Peng @ Opus Beauty
Styling: Jared Ellner @ The Only Agency
Vintage fashion specialist: Alexandra Mitchell per Arbitrage NYC
Tailor: Alvard Bazikyan
Production assistance: Douglas Stuckey e Kurt Lavastida
Lighting design: Byron Nickelberry
Photography assistance: Nicol Biesek
Hair assistance: Alex Henrichs
Styling assistance: Jess McAtee
Da Rolling Stone US.