Anche se non frequentate granché la nuova scena rap, è possibile che vi siate già imbattuti nel nome di Villabanks altrove: più precisamente su PornHub, dove un mese fa ha caricato il videoclip del suo brano Kardashian, in cui si cimenta da protagonista e senza controfigure in un vero e proprio video hard che ha già collezionato quasi 800 mila views. Conoscendolo di persona, si fa fatica a conciliare l’immagine pulita e ancora imberbe di questo ventenne gentile e sorridente con il patentino di bad boy più spudorato della scena, che si è appena guadagnato a buon diritto. Prima di lui, infatti, gli unici rapper ad aver tentato qualcosa di simile erano stati l’inglese Skepta con il video di All Over the House, per cui però aveva pagato degli attori professionisti, e Salmo, che si era limitato a pubblicare un ironico video teaser per il lancio dell’album Playlist. Certo, c’è stato anche il caso dei Club Dogo e di Noyz Narcos che hanno recitato in Mucchio Selvaggio, un film porno cult per la generazione dei primi anni ’00, ma erano presenti solo in scene non hard. E oltretutto quelli erano altri tempi, in cui lo streaming era ancora un miraggio e per vedere il proprio rapper preferito alle prese con materiale vietato ai minori di 18 bisognava quantomeno recuperare il relativo DVD.
Non lo incontriamo per parlare di porno, però (o meglio, non solo: ci arriveremo), ma per il lancio del suo primo vero album ufficiale, El Puto Mundo, che esce per una major, la Virgin Records. E, tanto per confermare l’avversione alle convenzioni di Villabanks, a differenza di tutti gli album del mondo non esce di venerdì, ma domani, ovvero mercoledì. Anche questo è quasi un primato, che infrange le ferree regole della discografia mainstream. «Ho voluto fortemente che l’album uscisse il 30 settembre perché El Puto Mundo è il mio terzo album in un anno, e il primo era uscito proprio il 30 settembre del 2019. Le date sono importanti: nei musei, quando espongono i quadri e le altre opere d’arte, la data è fondamentale quanto la firma. Non vedo perché per un disco non dovrebbe essere la stessa cosa».
Il concetto di arte è effimero e opinabile, e tornerà spesso a riproporsi nel corso di questa intervista: ma per capire meglio come e perché finiremo a parlare di musei, censura e performance art dobbiamo fare un passo indietro, cominciando dagli inizi. Più precisamente dall’infanzia e dall’adolescenza del rapper, vissute in maniera raminga al seguito della famiglia, che traslocava molto spesso a causa del lavoro del padre. «Quando ero molto piccolo ho vissuto a Ravenna e in Svizzera, ma i miei primi ricordi sono di quando abitavamo in Francia, dove abbiamo passato parecchi anni», racconta. «Dopo ci siamo trasferiti a Firenze e poi ancora a Milano. In più mio padre è stato a lungo a New York, ma lì ho passato solo un breve periodo», racconta.
Com’è stato crescere così?
La vivevo male: ogni trasloco era uno stress pesantissimo per me, mia madre e le mie sorelle. Ogni volta dovevo lasciarmi alle spalle tutti gli amici e ricominciare da capo. Non c’è un posto che considero casa, infatti: sto cercando di costruirmela pezzo per pezzo. In futuro mi piacerebbe vivere in Spagna, anche se ancora non la conosco abbastanza per sapere dove potrei mettere radici.
Questo tuo non avere radici si riflette anche nella musica: nell’album rappi in spagnolo, inglese e soprattutto francese.
Sono cresciuto parlando francese, era l’unica lingua che masticavo davvero. Dell’italiano conoscevo solo le poche parole che usavamo a casa, e molte ho scoperto che non esistevano neppure. Mia madre, per esempio, per riferirsi al pisello parlava di “bibirino”. Per anni ho pensato che fosse una parola vera, ho capito che se l’era inventata lei solo a Firenze (ride). In generale in casa si mescolavano le due lingue, e quando ho iniziato a scrivere testi mi è venuto naturale fare lo stesso. E se uso lo stesso slang che si sente abitualmente nelle strofe dei rapper francesi, non è una posa: nelle città tutti i ragazzi parlano così, me compreso. Se uno ha studiato la lingua a scuola, anche se la conosce perfettamente, magari non è in grado di capire le mie barre: d’altra parte, anche io quando sono arrivato in Italia non capivo quelle dei Club Dogo: erano complicatissimi, infarciti di riferimenti e metafore, serratissimi a livello di metrica. Era un po’ più facile con Fabri Fibra, perché nei suoi testi conta più la parola che il flow.
Poco dopo avere scoperto i Dogo e Fibra, da ragazzino, hai cominciato a dedicarti alla musica a tempo pieno, come hai dichiarato in passato. In che senso?
Avendo frequentato il liceo francese anche dopo essere tornato in Italia, ho fatto la maturità a 16 anni: in Francia le superiori durano quattro anni, e io ero pure un anno avanti. Da lì in poi sono stato finalmente libero di dedicarmi solo alla musica, ma avevo cominciato già prima a disinteressarmi pian piano delle altre cose: non avevo più voglia di assorbire le parole scritte da altri, volevo poter scrivere qualcosa di mio.
E la tua famiglia cosa ne pensava?
Si sono resi conto che, se una volta ero l’ombra di me stesso, finalmente riuscivo a esprimere tutto quello che avevo dentro. Prima della musica era davvero difficile farlo: ogni volta che riuscivo ad ambientarmi e a essere genuino e a mio agio, arrivava il momento di traslocare, di impacchettare tutti i miei ricordi e andare altrove. A quel punto ricominciavo da capo in un ambiente nuovo, con persone nuove, con cui era difficile aprirsi. Mi trovavo costretto a spegnere le emozioni e farmi guidare solo dalla testa, altrimenti sarei stato divorato. Un po’ come è successo quando ho fatto il mio ingresso nel mondo della musica, un mondo che non conoscevo e in cui entravo da novellino.
È un tema che evidentemente senti molto, perché al music business e al rap game hai dedicato la traccia d’apertura del disco, Vasca di squali…
Ho fatto in modo di non dover bussare a nessuna porta: le ho trovate spalancate. Da quando ho registrato il mio primo brano, due anni fa, ho fatto la scelta di non andare a caccia di numeri e contratti, o di sfruttare la persona giusta al momento giusto per fare strada, e la scelta ha pagato. Questo primo periodo di gavetta mi ha insegnato che non devo fare confronti tra me e gli altri, che la gente cambia velocemente atteggiamento man mano che fa successo, e che le uniche persone con cui vale la pena spendere il mio tempo sono quelle che amo. Voglio giocare secondo le mie regole, e avere il controllo di ogni dettaglio.
È tua anche la scelta di lavorare con un produttore tradizionalmente lontano da trap e derivati come Tommaso Colliva (già vincitore di Grammy Awards e noto per la sua collaborazione con Muse, Calibro 35, Ghemon, Selton, Ministri, Diodato e molti altri)?
Quando è arrivato il momento di scegliere la persona a cui affidarsi, ho elencato i criteri che doveva avere. E di fatto, siccome sono stato molto pignolo nel mio elenco, penso che lui fosse il solo al mondo a possedere tutte quelle caratteristiche (ride). Insieme abbiamo lavorato benissimo. Volevo fortemente qualcuno che non c’entrasse niente con il tipo di rap a cui il mio pubblico è abituato: qualcuno che facesse musica a 360°, fuori dalla mentalità prettamente italiana e dalle logiche dell’hype di adesso. Un maestro fuori dal tempo e dallo spazio, insomma.
A proposito di hype: dici di volere rimanere fuori dalle sue logiche e di voler dare centralità alla musica, però è innegabile che buona parte del pubblico ti abbia conosciuto grazie a una trovata pubblicitaria, quella di caricare il video del tuo singolo Kardashian su PornHub, e non a caso visto che si tratta di un video che ti vede in azione come un vero e proprio attore porno…
Trovo offensivo il fatto che venga considerata una trovata pubblicitaria. Sono un fan dell’industria del porno fin da quando ero piccolo: il suo immaginario, l’estetica, l’ambiente… Nei miei dieci anni da “fruitore” ne avrò guardati migliaia, e anche quando vivo il sesso come protagonista mi è sempre piaciuta l’idea di portare una telecamera a letto: per me fa quasi parte dei preliminari, tant’è che ho moltissimo materiale nel mio archivio personale. Fin da quando ho iniziato a girare videoclip, quindi, ho unito la mia passione per la musica a quella per i film per adulti. Kardashian lo abbiamo postato inizialmente su Instagram, che in teoria è una piattaforma più permissiva rispetto agli altri canali: lo abbiamo fatto seguendo le regole alla lettera e censurando tutti i dettagli che dovevamo censurare, ma ci hanno comunque cancellato il video. L’ho trovato assurdo, e a quel punto ho deciso che, se davvero era considerato un video hard, tanto valeva essere me stesso al 100% e caricarlo su PornHub.
Per te è una presa di posizione, quindi?
Non solo. Ho scoperto dell’esistenza di Dennis Rodman, uno dei miei giocatori preferiti di sempre dell’NBA, dopo aver visto una sua foto vestito da sposa, con tanto di trucco e manicure: era una performance per promuovere il suo libro. Federico Clapis, che trovo un artista geniale, l’ho conosciuto perché girava per il centro di Milano vestito da cazzo, letteralmente. Insomma, per me anche il video di Kardashian è un’espressione artistica e di libertà, in cui io mi sento assolutamente a mio agio. Quando qualcuno compie un gesto del genere solo per provocare, si vede lontano un miglio: si vergogna, cerca di coprirsi o di nascondersi. Chiunque abbia visto quel videoclip sa che non è il mio caso. Il porno lo faccio seriamente, tant’è che ho perfino aperto un account sulla piattaforma OnlyFans per distribuire contenuti espliciti a pagamento.
Ah sì?
È una cosa che risponde a una problematica specifica. Innanzitutto non voglio che certe cose siano accessibili anche ai minori di 18; in più un conto è un videoclip, che anche se richiama il mondo dell’hard è pensato per non urtare la sensibilità della gente o a scandalizzarla, e un conto è un vero e proprio video porno. Su PornHub, quindi, mi limiterò a pubblicare i backstage dei miei video, facendo cogliere semplicemente l’atmosfera in cui lavoriamo; l’account OnlyFans, invece, servirà a mostrare scene più personali e intime, girate con attori e operatori professionisti, e pensate specificamente per un pubblico che è interessato a quell’aspetto della mia arte.
Anche se per te è arte, non c’è il rischio che qualcuno fraintenda e lo prenda per puro marketing? Perfino TRX Radio, che è un media fatto da e per la scena rap, in relazione all’uscita del video di Kardashian ha argomentato in un post che «il mega successo di rapper fuffa come 6ix9ine ha convinto i ragazzi di tutto il mondo che per emergere bastasse costruirsi un personaggio, accendere una telecamera e trovare un modo per far parlare di sé».
Penso che chiunque conosca il mio lavoro sappia che far parlare di me e accumulare numeri non è la mia priorità. Ho fatto uscire il mio secondo album in una data strategicamente impossibile come l’1 gennaio 2020, e questo – che è il mio debutto in major – uscirà di mercoledì anziché di venerdì, cosa che rischia di penalizzarmi molto in classifica. Ci sta che qualcuno non lo colga, ed è un problema mio, perché il primo compito di un musicista è quello di farsi comprendere dagli ascoltatori. Se mi sforzo di comunicare un messaggio e la gente capisce il contrario, devo chiedermi dove ho sbagliato e fare meglio la volta successiva. Guarda il recente caso di Freeze Corleone in Francia: ha destato scandalo per alcune barre considerate antisemite, ma in realtà si limitava a paragonare il trattamento che storicamente hanno ricevuto gli ex schiavi africani e i sopravvissuti alla Shoah, un esercizio retorico che nel rap fanno in molti. Non è riuscito a trasmettere il concetto in maniera corretta, però.
Anche in Italia il rap è al centro del dibattito in questi giorni proprio a causa di una possibile incomprensione dei testi, vedi il polverone che ha sollevato l’affaire Emis Killa-Margherita Vicario dei giorni scorsi…
Non ho ancora avuto modo di sentire l’album, quindi non posso esprimermi sul caso specifico, ma questo dimostra ancora una volta quanto sia importante fare capire le proprie intenzioni. Il mistero è bello, ma l’incomprensione crea problemi veri, perché adesso chi ha seguito quella polemica potrebbe essersi fatto un’idea preconcetta su quel disco e ci sentirà dentro frasi misogine ovunque, anche dove non ci sono.