«In tempi di pestilenza è utile parlare d’amore», dice Vinicio Capossela in una delle stanze della Cùpa, ufficio-rifugio in cui, tra un muro di cappelli, decine di strumenti musicali e una libreria stracolma di volumi “caposselliani” (Moby Dick, L’Ulisse, la raccolta Wineston, Ohio) lo incontriamo per parlare del Bestiario d’amore, il suo ultimo progetto ispirato all’omonimo componimento di Richart de Fornival, un erudito del 1200 che ha usato i bestiari medievali per scrivere una sorta di fenomenologia dell’amore e conquistare una donna che lo rifiutava.
Il Bestiario di Capossela, però, non è un album vero e proprio e nemmeno una canzone, ma un “poema musicato” per voce, pianoforte e orchestra, accompagnato da un libretto d’illustrazioni – curato da Elisa Seitzinger – e dedicato a due temi ricorrenti nella poetica del cantautore, l’amore e le bestie. Al Bestiario, che esce a San Valentino, seguirà un tour in cui le creature medievali si mescoleranno ai personaggi e alle storie delle canzoni di tutto il repertorio di Capossela, che nel 2020 festeggia 30 anni dall’uscita del suo primo album.
Come nasce l’idea di comporre un ‘Bestiario d’amore’?
Innanzitutto dobbiamo dire che gli animali sono sempre stati molto rock & roll. Basta pensare a Captain Beefheart e alla sua grossa maschera. Dalla tavola al cartone animato, quello degli animali è sempre stato un contenitore fertile per la nostra immaginazione, come se le bestie fossero un’estensione della nostra personalità. Allo stesso tempo, la forma del bestiario non è mai tramontata. Ho scelto quello di Richart de Fornival perché non si preoccupa di far coincidere la realtà con la verità. Gli animali non erano importanti dal punto di vista zoologico, non era necessario sapere cosa facessero e nemmeno se esistessero o meno. Era importante la porta che aprivano, il simbolo. In fondo, noi siamo tutte queste bestie: il cigno che canta in maniera più intensa quando sta per morire, il cane che vuole inghiottire il suo vomito come facciamo noi quando vorremmo rimangiarci una cosa appena detta.
È stato difficile musicare un’opera che si apre con una dichiarazione d’inutilità della canzone d’amore?
L’autore non dice che è inutile, ma piuttosto che ha rinunciato al canto perché meglio cantava peggio gli andava. Lui ha rinunciato, io no.
Non è la prima volta che racconti storie d’amore e mostri. Perché nella tua musica gli innamorati si mostrificano?
Perché la natura dell’amore e del desiderio ci costringe a uscire da noi stessi, e quindi a mostrarci. E non a mostrarci per quello che siamo, ma piuttosto per quello che vorremmo essere. Questo ci rende mostruosi. Per sedurre confezioniamo un’immagine che forse è utile ai fini della seduzione, ma che poi si rivela fallimentare nell’esercizio della quotidianità. Questo impavonarsi per attirare l’attenzione è un meccanismo della natura, tutti gli animali sono forniti di colori, piume e atteggiamenti esuberanti per conquistare la preda.
Gli esseri umani, invece, usano le canzoni…
Il trovatore in questione ci prova con l’arte, ma pare che non abbia funzionato. In fondo, il cantante canta e poi gli altri vanno a compiere l’amore, a cogliere il frutto.
Come hai scritto la musica? Hai assegnato a ogni bestia una melodia?
Non so orchestrare, quindi ho suggerito delle immagini a Stefano Nanni, il compositore che si è occupato del vestito musicale. Ho cercato, nella scrittura al pianoforte, di evocare le bestie con frasi melodiche o con l’andamento ritmico. Ho cercato di dare a queste creature delle sigle musicali.
Oltre al Bestiario vero e proprio, nell’album ci sono due canzoni ricavate da poesie trobadoriche. Come le hai scelte e che funzione hanno nel progetto?
Sono due canzoni che ho scritto e interpretato più volte nel corso degli anni, e questo mi sembrava l’unico contesto possibile in cui pubblicarle. Anche perché l’origine è comune, lo stesso periodo storico. Richart de Fornival non era un trovatore, ma viene dallo stesso mondo cavalleresco, dall’aurora della poesia.
Prima del Bestiario hai pubblicato un brano con Young Signorino. Esiste un collegamento tra le due opere, tra una collaborazione con il mondo trap e un’opera ispirata a un testo del 1200?
Non possiamo prescindere dal brano che si è scelto: Peste, una canzone che usando un’allegoria della stessa epoca di questi bestiari ho usato per denunciare una pestilenza in corso, cioè quella dell’oscenità in rete. Mi interessava, per un motivo anche estetico, contaminare questo brano con il suono di questo momento storico, cercare un artista di una generazione diversa ma che parlasse della stessa pestilenza. Un artista generato dalla rete stessa. Questo brano non è inserito in un disco, viene dalla rete e lo abbiamo restituito alla rete. Non c’è un intento commerciale. Anzi, l’operazione ha generato proprio quello di cui parla il testo: il circo romano, il commento, il mi piace e il non mi piace. Il collegamento con il Bestiario, comunque, è questo: in tempi di pestilenza è utile parlare d’amore. Come Boccaccio e il Decamerone.
Ci raccontiamo delle storie mentre fuori c’è la peste…
Certo. Dobbiamo nasconderci perché bisogna salvarsi. Noi ci salviamo nel racconto, recuperando tutte le cose che ci rendono uomini. Bisogna salvare la nostra essenza più intima. Il primo effetto di ogni pestilenza è la distruzione delle relazioni. I nostri amici del Decamerone si rifugiano dalla peste e fioriscono nel racconto, che è anche il ricordarsi di essere umani. Il Bestiario è un castello in cui raccontarsi storie d’amore, avendo ben presente quello che c’è fuori.
All’album seguirà un tour con cui festeggerai 30 anni di carriera. Com’è strutturato lo spettacolo?
Il concerto di battesimo del Bestiario sarà in una cattedrale gotica di Londra, la Union Chapel, un posto pieno di animali di pietra, il battistero giusto dove battezzare l’album nel giorno dedicato al Santo Valentino. Dopo, invece, ci saranno due tipologie di concerti: uno microscopico, cioè piano, voce, racconti e fantasmi, e uno macroscopico, con l’orchestra sinfonica. In entrambi i casi il Bestiario sarà la cornice che ci permetterà di andare a spasso nel repertorio di questi 30 anni, in cui ci sono sia canzoni d’amore che altre dedicate a strane bestie.
In che senso fantasmi?
I fantasmi saranno suonati da Vincenzo Vasi, maestro di theremin, campioni e di tutto ciò che è evocazione. In questo concerto sarà un amplificatore di solitudini.
A proposito di canzoni dedicate a strane bestie: a un certo punto della tua carriera hai iniziato a riempire la tua musica di miti, storie antiche, a travestirti durante i concerti. Che cosa ti ha spinto ad abbandonare una scrittura autobiografica?
Nel corso del tempo viene naturale cercare di collocare la propria vita in una dimensione più ampia, universale. In questo senso il mito, la letteratura, le storie del mondo che tutti conosciamo hanno una grande forza, e queste metafore hanno il vantaggio di non esaurirsi con la mia persona. Naturalmente le due cose non si escludono l’una con l’altra, e nei concerti convivono entrambe le dimensioni. Però mi sembra che attingere a qualcosa che l’uomo ha già, che si è già inventato, ci dia un respiro più ampio, ci permette di non esaurirci nella nostra piccola vita.