Violenti e ridicoli: i Birthday Party secondo Mick Harvey | Rolling Stone Italia
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Violenti e ridicoli: i Birthday Party secondo Mick Harvey

In occasione dell’uscita nei cinema italiani del docufilm ‘Mutiny in Heaven’ il musicista ripensa alla band in cui suonava con Nick Cave tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. «Il caos incontrollabile rendeva eccitante la musica». E oggi? «Quelli che lo accompagnano non sono i veri Bad Seeds»

Violenti e ridicoli: i Birthday Party secondo Mick Harvey

I Birthday Party in un pub di Kilburn, Londra nel 1981

Foto: David Corio/Redferns

Con una banda d’amici e qualche ospite raccattato in un’istituto psichiatrico sono andati in una discarica in disuso a Melbourne. Hanno montato un circo infernale ispirato a Hieronymous Bosch, hanno dato fuoco a una cloaca tossica, ci hanno ballato attorno come marionette epilettiche per girare il video di Nick the Stipper. Le luci e le macchine da presa erano rubate, l’allacciamento alla corrente abusivo. Quello che cerca di limonare una capra non è il Nick Cave della gioia e del gospel di Wild God, è un Iggy Pop ributtante e da manicomio. Su una musica ossessiva illuminata da flash violenti di chitarra e sax, canta d’uno spogliarellista talmente ripugnante da sembrare un insetto. Sul petto ha scritto prima “Hate” e poi, bella grossa, una bestemmia in italiano, con “porca” al posto di “porco”, forse pensa che la divinità sia donna, chi lo sa. Arriva la polizia e loro mostrano un’autorizzazione ovviamente falsa.

Di questo miscuglio di sfrontatezza giovanile e punk, teatrino d’avanguardia, strumenti percossi come si fosse cavernicoli, violenza, alcol, immagini grottesche, Bibbia e droga, dei Birthday Party insomma, Mick Harvey era quello sobrio. In tutti i sensi. Co-fondatore del gruppo attivo a cavallo tra anni ’70 e ’80, il chitarrista e batterista è stato il testimone lucido dell’ascesa improbabile e della rovina inevitabile di questa banda di sciamannati che si strafacevano leggendo Platone. È quindi la persona adatta a raccontarne i tratti, gli stessi indagati dal bel documentario di Ian White Mutiny in Heaven da oggi e fino a dopodomani nei cinema italiani (a questo link la nostra recensione).

Havey è stato il primo a mollare i Birthday Party quando la vita scapigliata e le deprivazioni hanno mandato tutti in burn-out e quand’ha capito che quel che dovevano dire lo avevano detto e di più non si poteva fare. Ha poi fondato con Nick Cave i Bad Seeds di cui è stato elemento centrale per molti anni, prima d’andarsene non proprio serenamente. Nel frattempo ha inaugurato una carriera solista che conta tra le tante cose vari omaggi a Serge Gainsbourg, un disco su un poeta inventato vissuto durante la Prima guerra mondiale, produzioni e collaborazioni come quella con PJ Harvey. Il suo disco più recente è Five Ways to Say Goodbye e ha atmosfere morbidamente crepuscolari. Harvey ha 66 anni e inizia a guardarsi indietro, senza nostalgia, col suo tipico piglio no-nonsense. È uno che non crea mitologie rock, semmai le irride. Critica l’enfasi che il film mette sulla violenza, ma gli va bene così, non è il suo punto di vista.

Ha iniziato a ripensare al passato proprio per via di Mutiny in Heaven di cui è uno dei produttori esecutivi con Wim Wenders. «Ho aiutato il regista a trovare i contatti giusti», dice. È anche music supervisor del film, «per far sì che fossero credibili i montaggi dei concerti dove alle immagini di una performance è sovrapposto l’audio di un’altra». Quando ci parlo è da qualche parte in Australia in tour coi Saints e Mark Arm. Partiamo dai Birthday Party, finiamo con Nick Cave. Quelli che oggi lo accompagnano, dice, non sono i Bad Seeds.

Rowland S. Howard e Tracy Pew sono morti, ma mi aspettavo di vedere nel film nuove interviste con te, Nick Cave e Phill Calvert.
Si è deciso che era una buona idea usare solo vecchie interviste per evitare che noi vivi finissimo per imporre la nostra narrazione, il nostro punto di vista odierno. È una questione di rispetto per Rowland e Tracy. E poi il regista non voleva interviste realizzate appositamente per il documentario.

E perché?
Per un principio di realtà, non voleva che gli intervistati fossero consci del fatto che le loro parole sarebbero finite nel film, che è una cosa che di solito porta a enfasi ed esagerazioni. Nei documentari rock vedi spesso interviste dove ogni cosa diventa di fondamentale importanza e ti viene da pensare: ma datti una calmata.

I Boys Next Door. Foto: Michel Lawrence

Questa storia comincia in Australia, per poi spostarsi a Londra e Berlino, ma all’inizio vi chiamate Boys Next Door e siete un gruppo di ragazzi che s’incontrano a scuola. Cosa t’ha spinto a diventare musicista?
Sai che non lo so? Difficile ricordare. Cominci da ragazzo, è un passatempo, ti diverti, ma a un certo punto diventa una cosa più seria. Succede in tanti ambiti lavorativi, è successo anche al nostro gruppo. Quando la gente ha cominciato a prenderci sul serio ci siamo detti: forse abbiamo qualcosa per le mani. Nick non voleva fare il cantante, voleva dipingere. Ai tempi dei Boys Next Door non è che prendesse la band tanto sul serio.

Che sollievo. Non se ne può più della retorica tipo «sapevo che nella vita avrei dovuto fare questo, è la mia vocazione, sono nato per fare musica». Più son mediocri e più lo dicono.
Sai cos’altro dicono? Ho iniziato per farmi le ragazze. L’ho sempre trovato ridicolo, ma a quanto pare è il motivo per cui tanti iniziano a suonare.

Tu no?
Io no.

In quanto a perizia, i musicisti dei Birthday Party non erano esattamente i King Crimson…
Erano meglio (ride).

Come no, erano molto meglio… Dicevo, davate l’impressione di essere gente che percuote gli strumenti per tirarci fuori qualcosa di primitivo, tipo: torniamo alle origini del rock, a quella purezza viscerale, visto che la musica oggi fa schifo.
Era questo il punto, tornare a una forma basilare di rock che era andata perduta. Primitivismo e aggressività, specialmente dal vivo. In un certo senso dicevamo a quelli che ci ascoltavano: riuscite a gestire questa carica eccessiva, questo suono sgraziato? Sappi però che ci divertivamo di brutto. Lo trovavamo divertente.

Divertente?
Ci pensavano quasi come un gruppo comico ed era questo senso del ridicolo che all’epoca ci rendeva diversi da band come i Bauhaus che si prendevano maledettamente sul serio. Noi eravamo seri quando suonavamo, però non ci prendevamo sul serio. Se qualcuno fosse venuto a dirci «quel che fate è ridicolo», gli avremmo risposto: ma certo amico, è assolutamente e totalmente stupido e divertente. Se andavi a dirlo ai Bauhaus, si offendevano a morte. C’erano un sacco di band che si prendevano troppo sul serio. Beh, erano ridicole.

Interessante questa cosa, è un aspetto che non viene sottolineato spesso.
Credo che all’epoca venisse colto, ma sai, parti con un’idea che è ridicola e divertente e poi affinandola finisci per prenderla sul serio pure tu. Se pensi anche a certi testi e alle performance intense, è chiaro che finisci per dargli una certa importanza. Ma non ti devi scordare che era tutto uno scherzo, che era solo rock’n’roll. Finisci per sentirti come un giocoliere che deve tenere in equilibrio il lato serio e quello stupido.

Si dice sempre che tu eri l’unico sobrio della band. Era un po’ come essere l’unico adulto nella stanza?
A volte sì. Va anche detto che Phill non si drogava e che Rowland non si faceva prima di salire sul palco. E quindi erano Nick e Tracy quelli che creavano quel gran macello durante i concerti. Solo che a volte il caos era tale che le cose non funzionavano più.

E che cosa pensavi quando gli altri superavano il limite? Pensavi: questa cosa può distruggere la band?
Distruggerla no, perché sapevo che quel caos incontrollabile era parte integrante dell’identità del gruppo, era quel che ci rendeva eccitanti e unici, da lì che venivano le cose migliori. Non credo d’essermi mai preoccupato più di tanto, semplicemente non mi piaceva quando la cosa diventava talmente incontrollata da far deragliare i concerti. Ma senti, quando succedeva si era depressi per uno o due giorni, poi si andava a fare un altro concerto e passava tutto. Cavalcavo l’onda, come un surfer: a volte mi riusciva, a volte finivo sotto.

Avevi anche tu lo stesso desiderio di spingere le cose al limite?
Assolutamente sì.

E da dove veniva questo desiderio?
Da tutto quello che avevamo vissuto e ascoltato noi ragazzi cresciuti con Velvet Underground, Stooges, New York Dolls e poi l’ondata del punk e della new wave negli anni ’70. Dopo aver suonato per un paio d’anni in giro per l’Australia ci siamo trasferiti a Londra col nostro bel sogno di purezza, con l’idea di cambiare tutto, di fare saltare il mondo. Per scoprire che all’inizio degli anni ’80 la musica era diventata commerciale, specialmente lì in Inghilterra, dov’era tutto mercificato. E quindi, per rispondere alla tua domanda, la nostra era una risposta a quel che vedevamo. Non c’interessava fare musica commerciale. Non che ne discutessimo ta di noi, ci veniva naturale metterci quell’energia.

Pensi che la violenza sul palco sia troppo enfatizzata nel documentario? Sai, come ha fatto Oliver Stone nel film sui Doors in cui sembrava che ogni concerto fosse una rivolta.
Sì, credo che la cosa della violenza sia esagerata, così come lo era nei Doors di Oliver Stone, del resto non mi viene in mente un film rock in cui non ci sia un’enfasi ridicola. Però non mi sono opposto, non ho voluto controllare questo o altri aspetti, perché il film non dà la mia visione delle cose, è un punto di vista esterno. In quanto alla violenza, non era così a tutti i concerti. Era più una cosa relativa alla musica, era un fatto musicale, ecco, questa era la cosa fondamentale.

Chissà come sarebbero accolte oggi le performance dei Birthday Party…
Non so se oggi potrebbe esistere una band come quella. La gente si chiederebbe se quel che facciamo è accettabile, se quel modo si stare sul confine con la follia è politicamente corretto. Pensa all’antagonismo col pubblico che c’era: oggi ci direbbero che non si può fare. All’epoca invece si pensava fosse normale mettersi alla prova, spingersi al limite.

Ti manca quella libertà assoluta?
No, non mi manca, del resto non puoi pensare di restare in una specie di punk band da cartone animato per 40 anni. E difatti alla fine la band si è bruciata. Non puoi andare avanti a quell’intensità per troppo tempo.

I Birthday Party nel backstage di The Venue, Londa, 1981. Foto: David Corio/Redferns

Tu poi hai fondato i Bad Seeds e come solista hai fatto tutt’altra musica. Avevi già allora quel gusto?
Assolutamente sì, già alla fine degli anni ’70, in pieno punk, noi ascoltavamo anche Nina Simone, Lee Hazlewood, Jacques Brel. Ci piaceva tantissima roba diversa. Ricordo un concerto all’Hacienda nel 1983, nel periodo in cui è morta Karen Carpenter. A un certo punto Nick ha detto che il concerto era dedicato a lei.

E il pubblico?
Non aveva la minima idea di chi fosse Karen Carpenter e quindi rideva, pensando che Nick scherzasse. E invece era serissimo, la adorava. Questo credo dica qualcosa sull’ampiezza dei nostri interessi.

Perché non c’eri nell’ultimo tour australiano dei Birthday Party nel 1983?
Avevo la sensazione che avessimo fatto tutto quello che potevamo fare, all’orizzonte non vedevo canzoni, idee, una direzione in cui andare. Era il momento per dedicarsi ad altro.

Cos’era andato storto?
Nick e Rowland non andavano più d’accordo, non riuscivano più a scrivere assieme. Non c’erano prospettive. Avremmo potuto andare avanti per un paio d’anni, fare un po’ di soldi, fare qualche tour deprimente, ma non mi interessava. Sono convinto che devo essere un agente di cambiamento. Sono sempre stato io a mollare, Nick non è uno che cambia le cose. Lui non ha mai cambiato un bel niente, non hai cacciato nessuno dalla band, non ha mai ingaggiato nessuno. Sono cose di cui si occupano le persone che gli stanno attorno.

È successo anche coi Bad Seeds, quando te ne sei andato?
Ma per ragioni differenti. Non pensavo che non ci fosse un futuro per i Bad Seeds o che non ci fossero idee. È stato un fatto personale, nella mia vita stavano succedendo delle cose, era tempo di cambiare.

Quindi non te ne sei andato perché il tuo ruolo nei Bad Seeds era cambiato?
È sì cambiato col tempo, ma non è il motivo per cui pensavo che i Bad Seeds dovessero sciogliersi. Sarebbe stata la cosa migliore da fare, solo che ero l’unico a pensarlo… anche se poi anche altri l’hanno capito col tempo.

Nel podcast con Amanda Acevedo We Are Dos dici che quelli di oggi non sono i Bad Seeds. La gente pensa che i Bad Seeds siano i musicisti che suonano con Nick in un dato momento.
Lo so, ma un tempo i Bad Seeds erano un gruppo con una line-up ben definita. Tutta la band lavorava al disco con Nick e poi quella stessa line-up andava in tour. Ora non è più così. Ora i Bad Seeds sono Warren, Nick e chiunque decidano di chiamare a suonare. Non sono una vera band. Ho parlato con altri vecchi membri dei Bad Seeds e pensano la stessa cosa. Sui social i grandi espertoni dicono che è sempre stato così. No che non è sempre stato così. Era tutto diverso negli anni ’80 e ’90. Anche se io e Nick eravamo i produttori principali, la produzione era sempre accreditata a Nick Cave and The Bad Seeds. Guarda a chi è attribuita la produzione del nuovo disco di Nick Cave con i cosiddetti Bad Seeds…

A Nick e Warren.
Questa cosa ti dice tutto. I membri del gruppo vanno e vengono e non hanno un ruolo attivo nel definire il sound, non suonano assieme come una band. Anche quando c’ero io ci sono stati dei cambiamenti, ma la line-up era solida.

Il fatto che i Bad Seeds non fossero più una vera band è uno dei motivi che ti ha spinto a lasciare?
No, è più complicato e preferisco non addentrarmici. Fammi dire però che la mia critica non ha nulla a che fare con la qualità della musica che stanno facendo oggi. Sto solo dicendo che non è più una band, che non opera come una band. Chi sono i veterani nei Bad Seeds in tour adesso? Warren e Jim Scalvunos, e sono arrivati alla fine degli anni ’90.

A proposito di Warren Ellis, l’altra cosa che si dice è che tu ne sei andato perché nel frattempo lui era diventato il braccio destro di Nick, rimpiazzandoti in quel ruolo.
No no no. Non ho mai voluto essere il bandleader o il musical supervisor. Non avevo alcun problema con Warren. Se hai un problema con Nick Cave and The Bad Seeds, lo hai inevitabilmente con Nick. E il mio, di problema, era anzitutto personale. Era meglio non restare.

Però vi siete riconciliati, no?
Siamo a posto adesso, ma non voglio stare in una band con lui (ride). E sono contento di non essere più in quella band.

Mick Harvey - When We Were Beautiful & Young (Official Video)

C’è un pezzo nel tuo ultimo disco che s’intitola When We Were Beautiful and Young in cui ripensi ai giorni selvaggi della giovinezza. M’ha fatto pensare ai Birthday Party. Non mi sembri uno nostalgico, ma forse a 66 anni è inevitabile guardarsi un po’ indietro.
Lavorare al documentario sui Birthday Party mi ha spinto a farmi delle domande: che diavolo stavamo facendo? Dove volevamo arrivare? Mi ha costretto a guardarmi indietro, a cercare di capire il passato ed è stato interessante per uno come me che cerca sempre e solo di guardare avanti. Ma niente malinconia.

Ma lo scrivi il libro di memorie?
Ci sto lavorando da un pezzo. Qualcosa uscirà, vedrai.