Vita leggendaria di Zeke Manyika, batterista
Ha suonato in alcuni tra i dischi più innovativi degli anni ’80, dagli Orange Juice ai The The, dagli Style Council a Kate Bush. Dalla Rhodesia razzista, dove gli sguinzagliavano dietro i cani, alle migliori sale di incisione inglesi, la sua è una storia di talento e determinazione, ma anche di politica applicata alla musica
Foto: Echoes/Redferns
Quando Kate Bush gli ha chiesto di suonare la batteria nel suo nuovo album, Zeke Manyika aveva già contribuito a reinventare una grande band degli anni ’80 e a lanciarne altre due. Era stato negli Orange Juice, aveva suonato nei primi singoli degli Style Council di Paul Weller, aveva lavorato a Soul Mining dei The The del suo amico Matt Johnson. Era stato l’assolo pazzesco di tom-tom in Giant, il pezzo che chiude Soul Mining, ad attirare l’attenzione di Kate Bush. Nella sua testa, lo sentiva già suonare un suo brano con la batteria in primo piano, una canzone che doveva essere come una tempesta, ma non aveva ancora il titolo che avrebbe assunto poi, Running Up That Hill.
Quand’è arrivata la chiamata, Manyika non credeva che la voce all’altro capo della linea fosse quella di Bush. Pensava fosse uno scherzo di Matt Johnson, perciò le ha riattaccato il telefono in faccia per ben due volte. «Alla terza chiamata ho pensato: oh mio Dio, forseè davvero lei».
Così, in una giornata surreale del 1984, è arrivato a East Wickham Farm. Lì, in una villa nella campagna fuori Londra con studio di registrazione annesso, lo aspettavano sulla porta Bush e i suoi genitori. «Dei cani enormi mi sono corsi incontro. Lei rideva e la madre diceva di non preoccuparmi perché erano socievoli e io tremante pensavo: cazzo, i due cani di Kate Bush mi stanno assalendo».
La ragione del «difficile rapporto coi cani» di Manyika ha a che fare con la Rhodesia. Nel regime razzista, con tutto il potere in mano ai bianchi, sotto cui è cresciuto negli anni ’60 e ’70, le autorità usavano i cani come strumenti di repressione e terrore. «Si chiamavano Rhodesian Ridgeback», racconta, «e ce li sguinzagliavano contro quando eravamo studenti, tipo durante le manifestazioni».
Alla fine i cani di Kate Bush, i suoi Hounds of Love, erano sul serio amichevoli e il batterista ha passato quattro bellissimi giorni a registrare. «È stato come essere ospite di una famiglia adorabile. Sua madre preparava i pasti e appena ci prendevamo una pausa andavamo in cucina e ci sedevamo intorno a quel tavolo enorme. Che persone adorabili. Davvero alla mano». Racconta che Bush gli ha persino chiesto consiglio per il testo. «Sapete quel verso che dice “I’d make a deal with God”, farei un patto con Dio? Non ne era sicura di volerlo tenere. Le ho detto che era molto forte, che doveva tenerlo».
Grazie al suo talento, Manyika è stato protagonista di alcuni dei dischi più innovativi degli anni ’80. Il suo curriculum somiglia a una playlist di una varietà e originalità notevoli e copre cinque decenni di musica, dai lavori coi grandi del pop inglese della sua generazione, fino a due album da solista, per poi passare a un secondo atto che lo vede nei panni di vocalist e autore di canzoni per i dischi dance del duo di DJ Faze Action e del produttore francese emergente Folamour. È il tipo di professionista che, quando entra in studio, fa trasalire i presenti: perché sanno già, come dice Robin Lee dei Faze Action, che «tutto ciò che ne uscirà sarà oro».
Questa è la storia di come Zeke Manyika è arrivato a East Wickham Farm e di come la sua “voce” ha risuonato ovunque, dai festival alle piste da ballo. È la storia di uno studente che se n’è andato di casa, di un esule che ha trovato persone affini a lui tra i giovani artisti più alla moda e si è fatto strada con determinazione. E non importa se, almeno per ora, non ha guadagnato un centesimo dal revival di Running Up That Hill (A Deal with God) dello scorso anno. Anche questo fa parte della storia.
Oggi Manyika vive a Bexhill, sulla costa della Manica. L’estate scorsa, sua moglie Gina ha contratto una forma lieve di Covid e durante la quarantena di lei si è trasferito in un hotel per turisti vicino a casa. Si sentivano spesso al telefono e un giorno, per noia, si è comprato una chitarra «che non mi serviva proprio». Da fuori arrivavano i versi dei gabbiani. Mentre osservava il mare ha iniziato a riflettere su come la musica «è importantissima per tutti gli zimbabwesi, ma per noi è lo è stata particolarmente quando ancora esisteva la Rhodesia».
Manyika appartiene all’etnia shona: è nato a Marondera e cresciuto a Gweru, più o meno a metà strada tra le due città più grandi dello Zimbabwe, Harare e Bulawayo. I suoi genitori, Kennedy e Rahab Manyika, erano insegnanti. Ha passato la giovinezza vivendo il calvario della Rhodesia, un esperimento che non poteva durare, prodotto di una fantasia dei bianchi basata sulla sottomissione perenne e sulla sottrazione di risorse. «Ma si cantava sempre», ricorda.
Quando era un giovane maestro di campagna, il padre di Zeke aveva insegnato ai cori scolastici uno stile nuovo, divenuto popolarissimo, che fondeva inni cristiani e stili tipici africani. Kennedy Manyika aveva la fama di essere un ottimo cantante: nella città mineraria di Kwekwe, gli Hip Hip Rhythm Brothers (ossia il trio che aveva formato con altri insegnanti) sono stati protagonisti di una serata di beneficenza così di successo che col ricavato è stato istituto un fondo per borse di studio a sostegno dell’istruzione di due bambini ogni anno.
Diventato preside, Kennedy Manyika ha iniziato a preoccuparsi vedendo che i suoi figli si interessavano troppo alla musica: è arrivato al punto di bandire gli strumenti da casa. «In Rhodesia, soprattutto in una famiglia di insegnanti», spiega Zeke, «le persone di colore vedevano lo studio come l’unica chance per i loro figli e qualsiasi altra cosa era percepita come una distrazione pericolosa».
In collegio, Zeke rimaneva sveglio fino a tardi ad ascoltare una radio a transistor. Poteva sentire artisti che cantavno nello stile del crooner di Nashville Jim Reeves, «ma in stile africanizzato, visto che cantavano in lingua shona». C’erano il gospel americano e la rumba del Congo, il canale BBC World Service, i Beatles e i Rolling Stones. «I Creedence Clearwater Revival sono stati un gruppo fondamentale per me». Ma soprattutto c’erano gli artisti provenienti dal vicino Sudafrica: Hugh Masekela, Spokes Mashiyane, Letta Mbulu, Miriam Makeba, Mahotella Queens. «Erano le nostre superstar».
Trovava una valvola di sfogo per la sua creatività e la sua crescente coscienza politica studiando recitazione. Gli spettacoli teatrali che metteva in scena con gli amici contenevano allegorie sovversive e rischiavano di violare le leggi antisommossa della Rhodesia che vietavano le assemblee di persone di colore. «Quello che facevamo non era apertamente politicizzato», ha detto una volta a un intervistatore, «ma non potevi fare a meno di fare politica, in quel contesto. Facevi politica ogni volta che dicevi la verità».
I genitori erano preoccupati: molti ragazzi della sua età passavano il confine e andavano in Zambia e Mozambico per unirsi ai guerriglieri nazionalisti, oppure venivano arrestati e torturati per avere partecipato alle proteste in patria. Quando un’amica di famiglia scozzese si è offerta di fargli finire gli studi a Glasgow, per Manyika è arrivata la via d’uscita in cui i genitori avevano tanto sperato. In Scozia lo attendeva un percorso sorprendente.
La Glasgow che Manyika ha trovato negli anni ’70 era una città povera, «molto maschilista, segnata dall’hooliganismo imperante dei supporter dei Rangers e del Celtic». Si è sentito benaccetto, anche se i bambini per strada lo indicavano, incuriositi dalla prima persona di colore che vedevano. «Non è mai stata una cosa offensiva. Da parte loro credo fosse più che altro curiosità».
Dopo non molto tempo ha notato una batteria bianca nella vetrina del negozio di musica McCormack’s, in Bath Street. Si è fatto le ossa suonando in pub fumosi, accompagnando musicisti che facevano cover dei Lynyrd Skynyrd e degli Eagles. Dopo qualche anno è stato costretto a scegliere: la scuola o il rock’n’roll. Ha mollato gli studi, ben sapendo cosa ciò avrebbe significato per i genitori a casa.Aveva già buttato via il suo passaporto, perché «non c’era alcuna possibilità che i rhodesiani mi lasciassero rientrare». Era diventato di fatto un apolide. Anche dopo la dichiarazione di indipendenza dello Zimbabwe, nel 1980, lasciare la Scozia non aveva senso: si era costruito una vita lì ed era un momento elettrizzante per fare il musicista, a Glasgow, se non ti facevi problemi a vivere in modo disordinato e bohémien.
C’erano altri che lo facevano e dei ragazzi avevano persino un’etichetta discografica, la Postcard, che gestivano da un appartamento di West Princes Street. Li vedeva in giro per la città e avevano tutti un’aria da principini con quelle giacche da camera fuori moda e i capelli con la frangia. Manyika ne era affascinato. «Li trovavo fighissimi. Erano diversi in una città così maschilista. Erano camp. Ci voleva un bel coraggio per farlo, non dovevi avere paura di nulla».
Alcuni di loro avevano una band che faceva una strana musica, un mix di Velvet Underground, sonorità Motown, Buzzcocks e Chic, e anche un po’ di Creedence Clearwater Revival e Jim Reeves. Gli Orange Juice erano una specie di «boy band d’avanguardia», come li chiama Stephen McRobbie dei Pastels, una formazione emersa dalla scena indie creata dalla Postcard Records a Glasgow.
Alla fine del 1981, gli Orange Juice sembravano in procinto di toccare le vette massime a cui una band indie poteva aspirare, quando sono rimasti senza batterista, ma con una nuova opportunità da cogliere. Con l’aggiunta del chitarrista Malcolm Ross (figlio di un missionario nato vicino alla Rhodesia, nella colonia britannica del Nyasaland, l’attuale Malawi) si sono reinventati come band più affiatata e professionale, con buone chance di arrivare in classifica. Il cantante Edwyn Collins ha chiesto a Manyika di fare un’audizione da batterista. E lui l’ha passata. Il bassista David McClymont da sempre sognava un batterista con cui avere un’intesa «come quella della sezione ritmica di Bowie. Dennis Davis, George Murray, Carlos Alomar. Era quello il feeling che volevo, quel tipo di ritmo sciolto, ma anche teso e funky. Zeke aveva tutte queste qualità. Sembrava perfetto».
Manyika «non sapeva granché degli Orange Juice», ricorda McClymont. «Anche questo è stato un elemento positivo. Non aveva preconcetti sul gruppo e su ciò che eravamo». Con il suo talento pre-punk e la sua mente aperta, Manyika «era a proprio agio quando volevamo provare soluzioni diverse», dice Ross, «cose di cui la gente del nostro ambiente avrebbe pensato: “Oh no, sarebbe da sfigati fare un disco del genere”. Con lui non è successo». Gli Orange Juice sono diventati «più cosmopoliti, in un certo senso».
A quel punto, altri musicisti della scena cittadina hanno iniziato ad accorgersi di lui, compreso Craig Ferguson, all’epoca non ancora conduttore televisivo, ma batterista. Non era mai rimasto molto colpito dagli Orange Juice e dal «giro dei fighi cool» della Postcard. Una sera Ferguson ha incontrato Manyika in un pub. «Ricordo di aver pensato che non potevano essere tanto se è il batterista era lui», racconta Ferguson.
Durante le session per l’album successivo degli Orange Juice, Rip It Up, «sentivamo di trovarci di fronte a un nuovo inizio», dice McClymont. E in effetti quel disco è uno degli esperimenti pop più azzardati del periodo. «È difficile spiegare, adesso, quanto fosse diversa quell’incarnazione della band», dice Mat Osman, un fan che ha poi fondato gli Suede. «Non credo ci sia nulla di più rappresentativo di Hokoyo per capire quanto Zeke li abbia portati lontano dalle loro radici».
Quel brano, insieme al rave-up in salsa disco di A Million Pleading Faces, vedeva Manyika cantare in lingua shona, come vocalist principale, per volontà di Collins. «Ovviamente alcuni fan della prima ora degli Orange Juice si sono straniti: era davvero una grossa novità per loro. Ma questo è uno dei motivi per cui amo Edwyn: era coraggioso. Credo che abbia pensato: ora ho quest’altro elemento nella mia band, perché non dovrei usarlo? Tipico di Edwyn». E poi c’è la title track del disco: finalmente una hit. A quel punto il telefono di Manyika ha iniziato a squillare con inviti che fioccavano da parte di Paul Weller, Matt Johnson, Marc Almond e Kate Bush.
Gli Orange Juice però avevano un problema: il loro batterista era senza passaporto. Invischiato nella burocrazia di tre Paesi, uno dei quali appena nato e un altro non più esistente, Manyika rischiava di perdere ogni cosa se avesse lasciato il Regno Unito. «È sempre stato un motivo di attrito» in seno al gruppo, ricorda Ross. Manyika si è anche offerto di fare da tutor a un batterista che andasse in tour con gli Orange Juice, ma gli altri hanno rifiutato. «Credo che avrei dovuto impuntarmi e insistere», dice, «perché in un certo senso la mia situazione ha ostacolato la carriera del gruppo».
Gli Orange Juice non sono mai diventati famosi come gli Smiths o i Cure, ma hanno inciso dischi che solo loro avrebbero potuto fare: e questo è molto più di quanto si può di affermare sul conto di tante band che «scimmiottavano quello che pensavano fosse il dna degli Orange Juice», come dice Mat Osman. Il periodo degli Orange Juice con la Postcard è quello di cui solitamente tutti parlano, dice McClymont, «ma ci sono un sacco di belle cose che non vengono mai dette, sulla seconda incarnazione del gruppo». Dennis Bovell, il produttore leggendario che ha registrato gli ultimi due dischi degli Orange Juice, è d’accordo. «Ho riascoltato le cose fatte insieme. Ci sono dei pezzi fantastici. E pensare che Zeke li ha suonati tutti senza metronomo: era lui il metronomo».
Nel 1985, quando We Are the World e Live Aid hanno messo assieme le immagini di popstar e di africani in condizioni disperate e popstar, Zeke Manyika aveva un album solista in uscita. «Le mie cose sono sempre un po’ strane», spiegava all’epoca a un intervistatore. «Vivo qui da dieci anni e percepisco la musica africana in modo molto diverso, perché la guardo dall’esterno. Ma, allo stesso tempo, ascoltandola ho una reazione e le mie influenze africane riemergono dal profondo».
Bovell, uno che in studio ama spaziare fra i generi più vari, ha capito bene cosa voleva fare Manyika con i suoi collaboratori: «Era noto per essere un batterista molto preparato, ma poi ha detto loro che i suoi ritmi andavano oltre la semplice musica pop suonata. Ha iniziato a lasciarsi andare, tirando fuori i ritmi che si sentiva più a suo agio a suonare, cose nello stile dell’Africa meridionale. Così ha creato una fusione che allora non si era mi sentita».
Partendo da pezzi come Hokoyo e Giant, Manyika ha sperimentato queste sonorità nell’LP solista Call and Response. Il disco evidenziava il suo gusto per la melodia pop, ma la sua etichetta e la stampa musicale non sapevano proprio cosa farsene di un lavoro del genere. Secondo la bassista Camelle Hinds, che ha suonato in Call and Response e attribuisce a Manyika il merito di aver contribuito a tenere a galla la sua carriera dopo la fine della sua band Central Line, «all’epoca la Polydor non ha fatto promozione come avrebbe dovuto».
Appena un anno dopo è arrivato Graceland di Paul Simon a dimostrare quanto la musica africana poteva essere appetibile (e generare dibattito) per i mercati occidentali. Manyika a quel punto si è trovato a essere combattuto: condivideva l’indignazione di gruppi come Artists Against Apartheid che condannavano Simon per aver aggirato il boicottaggio culturale del Sudafrica, ma non poteva non ammirare il progetto perché aveva spalancato una porta che lui sapeva essere pronta per essere aperta. «Musicalmente, Graceland è formidabile».
Manyika sapeva di voler «pubblicare un album politicizzato sul tema dell’apartheid. Era una cosa che dovevo assolutamente fare». Nella ricetta di Simon c’erano anche lo zydeco della Louisiana e gli Everly Brothers, ma Manyika mescolava altri ingredienti, «frequentando persone di ogni estrazione musicale», a Londra, nella seconda metà degli anni ’80. Ascoltava dance, elettronica dell’Africa occidentale e musica industrial, come quella degli Einstürzende Neubauten di Berlino Ovest. Cercava punti di contatto.
Avanti veloce fino al 1988. Il Corridoio di Beira collega lo Zimbabwe, che non ha sbocco sul mare, all’Oceano Indiano passando attraverso il Mozambico: sono circa 320 chilometri su cui passano una strada, una linea ferroviaria e un oleodotto. In quel momento era pieno di mine e reso pericoloso dai raid dei ribelli della Resistência Nacional Moçambicana sostenuti dal regime dell’apartheid: non esattamente il luogo più adatto per girare un video musicale.
Manyika ha spiegato alle autorità del Mozambico che il Corridoio era perfetto per Bible Belt, il singolo di lancio per il suo nuovo disco anti-apartheid Mastercrime. Il suo appello è stato accolto e il governo gli ha anche messo a disposizione un treno, un elicottero militare e una scorta armata. Il video che ne è scaturito è stupefacente anche più di 30 anni dopo.
Manyika ha potuto godere di un momento in cui le case discografiche iniziavano a puntare pesantemente sulla cosiddetta world music e ha inciso un disco con un suono eterogeneo (dance, funk, R&B, rock, industrial, musica corale) e un messaggio politico diretto. Il budget stanziato per i video è stato fondamentale. «Eravamo molto interessati a proporre una narrazione opposta rispetto all’idea che l’Africa è una specie di discarica piena di gente incapace di cambiare le cose».
Uscito nel 1989 in un mondo in rapido cambiamento, Mastercrime invitava gli ascoltatori a unirsi all’entusiasmo per l’inevitabile crollo dell’apartheid. «Si poteva quasi vedere la fine di quel capitolo della storia. Si percepiva che sarebbe accaduto», dice Manyika. «E molta energia arrivava da persone che non appartenevano alla cultura black, ma capivano cosa stava succedendo e offrivano il loro sostegno dicendo: no, questo è sbagliato, deve cambiare».
Nonostante la sua originalità, Mastercrime non ha portato Manyika alla fama internazionale. Lui ha fatto pressione sulla sua etichetta perché lo pubblicasse anche negli Stati Uniti, ma invano: così gli ascoltatori americani che Manyika sperava di raggiungere con il video di Bible Belt non hanno mai avuto modo di vederlo.
Qualche anno dopo, Manyika era in un ristorante di Shoreditch, a Londra. Dali Tambo, figlio del leader dell’African National Congress Oliver Tambo e fondatore di Artists Against Apartheid, si è avvicinato al suo tavolo e gli ha teso la mano: l’ANC conosceva bene il lavoro di Manyika e Bible Belt era diventata molto popolare tra i giovani attivisti sudafricani da quando l’ANC aveva iniziato a mostrarne il video come strumento didattico. Se avesse voluto esibirsi laggiù, gli ha detto Tambo, sarebbe stato accolto calorosamente. Manyika era sbalordito: il suo appello aveva avuto una risposta, dopo tutto.
È stato solo dopo l’indipendenza dello Zimbabwe che Manyika ha saputo qual che suo padre aveva fatto durante la guerra civile. Il preside ed ex direttore di coro, che si era tanto preoccupato della sicurezza del figlio maggiore, aveva sempre lavorato per la resistenza svolgendo attività organizzativa. Per anni Kennedy Manyika è stato perseguitato e minacciato di morte dai rhodesiani, ma lui continuava a fare proselitismo nelle campagne, a mandare libri ai compagni che languivano in prigione e a educare gli studenti a essere pronti per il giorno in cui la terra sarebbe tornata a loro e si sarebbero finalmente governati da soli.
Nel 1982, lo stesso anno in cui gli Orange Juice hanno pubblicato Rip It Up, per Zeke è stata una sorpresa apprendere che il nuovo governo dello Zimbabwe aveva promosso suo padre, un preside di scuola, affidandogli il ruolo di primo ambasciatore della nazione in Jugoslavia. Mentre Zeke suonava la batteria in televisione, suo papà aiutava un nuovo Paese a fare il proprio ingresso nella scena internazionale.
Ma, esattamente, cosa faceva Zeke in Inghilterra? I suoi genitori non lo sapevano bene. Poi un giorno, nel 1985, è arrivata la telefonata di «un pezzo grosso del governo dello Zimbabwe», ricorda Manyika. Il funzionario era in macchina, andava da Heathrow verso il centro di Londra e «ha visto tutti questi manifesti con il mio nome, per il singolo Heaven Help Us. Ha chiamato mio padre dicendogli: “Non è tuo figlio? È dappertutto a Londra. Ci sono i suoi poster in giro”».
Ovviamente questa cosa ha incuriosito Kennedy Manyika che, durante il suo viaggio successivo a Londra, dove doveva recarsi per questioni ufficiali, ha deciso di andare ad assistere alle prove della band del figlio. «È venuto e si è divertito così tanto che ha annullato o posticipato le sue riunioni e si è messo a dare ripetizioni ai ragazzi», ricorda Manyika. «Un paio erano inglesi, ma cantavano in shona e lui ha iniziato a insegnargli la pronuncia corretta». Quello è stato il giorno in cui si è annullata per sempre la distanza tra Zeke e il padre: tutti i loro attriti si sono risolti di fronte all’improbabile scena di Kennedy Manyika, insegnante e diplomatico, di nuovo nei panni del direttore di coro, che correggeva con garbo il gruppo del figlio sul modo giusto di cantare nella sua lingua.
Quando Manyika ha finito le session con Kate Bush a East Wickham Farm, nel 1984, è tornato a Londra lasciando lei, i suoi cani e i fan che la aspettavano fuori casa. Non l’ha mai più sentita, se si esclude un breve messaggio che parlava di un cambio di direzione a favore di certe tracce di batteria create da suo fratello Paddy. «È stato strano», dice. «Non sono ancora sicuro di cosa sia successo». Un portavoce di Bush non ha risposto alle nostre numerose richieste di rilasciare una dichiarazione su questa faccenda.
Stuart Elliott, il batterista accreditato su Running Up That Hill, ha raccontato a Rolling Stone che Bush gli ha spedito un demo preparato da Del Palmer, il suo ingegnere del suono, da imparare prima di entrare in studio. Sul nastro c’era una traccia di batteria programmata che Elliott ha poi replicato suonandola in studio e aggiungendo dei fill. Non ha mai visto Manyika. «È stato un lavoro individuale, con Kate come produttrice».
Malcolm Ross, compagno di Manyika negli Orange Juice, si chiede se dietro a tutta la faccenda non ci sia una questione di soldi: «Ricordo che Zeke mi ha detto: “Non so quanto farmi pagare”. E io gli ho risposto: “È Kate Bush, dai, spara alto”». Oppure è la tipica storia rock’n’roll in cui un musicista viene estromesso da una canzone che ha contribuito a creare? Manyika assicura che «mon ci sono problemi». Si è divertito, è stato pagato, ne ha ricavato una bella storia da raccontare. «Ogni volta che risento il pezzo ho un piccolo fremito e penso che lo adoro. Sono contento per lei, è adorabile».
In quanto agli Orange Juice, a quattro decenni di distanza da Rip It Up non ci sono segnali di reunion. L’estate scorsa, Malcolm Ross ha riascoltato il disco per la prima volta dopo anni, perché sua moglie l’ha messo su a sorpresa: suonava meglio di quanto ricordasse. David McClymont continua a far musica dalla sua casa in Australia, ma una sezione ritmica come quella che formava con Manyika è una cosa che non capita spesso nell’arco di una carriera. «Credo che sia stato il batterista perfetto per me».
A Bexhill-On-Sea, magari anche in questo esatto momento, Zeke Manyika è al lavoro su altra musica. Le sue collaborazioni con Simon e Robin Lee dei Faze Action vanno avanti ormai da 25 anni e la scorsa estate hanno pubblicato Maswera, l’ultimo di quattro EP dance caleidoscopici che attingono a influenze disco, house, baleariche, latine e africane. Canta in qualunque lingua si adatti al ritmo: i Lee ricordano ancora l’espressione di sconcerto totale di un dirigente della Warner Brothers quando, negli anni ’90, gli hanno fatto ascoltare Kariba, con il testo in shona, in un ufficio di Manhattan.
Un paio d’anni fa, il dj francese Folamour ha chiamato Manyika dopo aver sentito Mangwana dei Faze Action. Aveva in testa un pezzo per lui, una canzone su ciò che si prova a lasciare la propria casa e sull’immigrazione: «È un argomento che ho sempre ben presente», dice, «per via della storia della mia famiglia, che ha lasciato l’Algeria per venire in Francia». A differenza di Kate Bush, Folamour non voleva la batteria di Manyika: voleva la sua voce. Pubblicato nell’estate del 2021, The Journey è una riflessione struggente sulla mancanza di radici di due musicisti con 35 anni di differenza d’età.
Nel corso dell’ultimo anno, Manyika ha registrato due brani per i produttori italiani Aura Safari, che adorano la sua «versatilità incredibile come vocalist», spiega Lorenzo Lavoratori. La cosa più interessante in ballo, però, è un suo nuovo album, il primo da 30 e passa anni: «Lo sento, lo percepisco», spiega. «Non è ancora pronto, ma arriverà». Non si sa che suono avrà e chi potrebbe partecipare. Al momento, dice, «ho in mente molte voci corali».
Nel 2021, Manyika è tornato in Zimbabwe per il funerale del padre, a Gweru. Kennedy Manyika si era ritirato da tempo dopo una brillante carriera da diplomatico e mediatore di pace. Quando è morto, dice Zeke, «per certi versi era un uomo distrutto». Era angosciato dal malgoverno dell’ex leader Robert Mugabe, un vecchio compagno che aveva conosciuto alla scuola per insegnanti. Zeke ricorda che suo padre gli ha detto in più occasioni: «Non accettano più consigli da persone come me». Dopo la morte di Kennedy Manyika, lo Zimbabwe l’ha onorato con il titolo di eroe della liberazione. Aveva 99 anni.
Il fantasma della Rhodesia continua a perseguitare il mondo emergendo dai meandri più oscuri del web e la sua bandiera spunta sulle giacche e sui giubbotti militari indossati dai razzisti suprematisti bianchi, dal Sudafrica alla Carolina del Sud.
«Si alimentano a vicenda», dice Manyika, con un tono di voce che si scalda quando parla di questi fascisti globalizzati, «sono disperati, cercano conferme». Tutto questo, per lui, è parte di un problema più ampio: la destra si aggrappa a «una comoda nostalgia, una fantasia regressiva che aspira a un mondo che non esiste. Quel vecchio mondo, che avrebbe dovuto essere bello e glorioso, è una specie di idea consolatoria. È ridicolo».
A Zeke Manyika non si interessa molto il successo commerciale. Ma sa come ci si sente quando si suona in un concerto enorme, tipo Glastonbury, e «canti una o due volte un verso e un istante dopo migliaia di persone sono lì che cantano in una lingua che non hanno mai parlato prima, e tu pensi che quello è il lato migliore dell’umanità. Parlo della fede, di quella sensazione di unità che ti fa dire: non mi importa in quale lingua stai cantando, sei un altro essere umano come me e canteremo tutti insieme, perché conosco le cose che stai dicendo. Mi ci posso identificare. Capisci? È una sensazione incredibile».
Da Rolling Stone US.