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Viva le rompiscatole come Cyndi Lauper

L’indipendenza, il maschilismo nell’industria musicale, l’influenza delle groupie, la scoperta della voce. Intervista alla popstar durante il tour d’addio. «Per anni m’hanno detto che le donne non vendono come gli uomini, sono tutte stronzate»

Foto: Ruven Afanador

Cyndi Lauper non è mai stata una tipa tranquilla e pure oggi, 40 anni dopo essere diventata un’icona pop, continua a fare un bel casino. Ha iniziato il Girls Just Wanna Have Fun Farewell Tour che la porterà nei palazzetti del Nord America fino a dicembre, un addio alle scene in grande stile con gente come Aly & AJ, Amanda Shires, Elle King, Tones and I, Gayle e Trixie Mattel in apertura. È la celebrazione di un percorso musicale eccentrico partito con l’album d’esordio She’s So Unusual, manifesto femminista in epoca new wave che conteneva classici come Girls Just Want to Have Fun e She Bop. Lauper era la ragazza di New York che assaltava MTV con il look trash-vintage, la sfacciataggine stradaiola, i capelli rosa e una voce follemente acuta. Il mondo s’è innamorato di lei sia quando spezzava cuori con Time After Time, True Colors e All Through the Night, sia quando si scatenava con Money Changes Everything.

Ed era solo l’inizio. Lauper ha vinto un Tony Award nel 2013 per il musical Kinky Boots, dirige la fondazione Girls Just Want to Have Fundamental Rights, è stata protagonista l’anno scorso del documentario Let the Canary Sing. A 71 anni, ha ancora la stessa indole indipendente e irriverente. E durante l’intervista si è quasi strozzata con latte e biscotti. Ci ha parlato della sua esperienza nel mondo della musica, del tour d’addio, di quant’è difficile fare le cose a modo proprio. E poi, di vestirsi bene, di imbucarsi ai concerti rock, di trovare (e perdere) la voce, della sua ossessione per Barbra Streisand.

Complimenti per il tour d’addio, è gigantesco.
Oh cielo, lo desideravo tanto. Non faccio un tour nelle arene dall’86 e sono elettrizzata perché con me ci saranno tutte queste ragazze fantastiche. Per tanti anni mi hanno detto che non potevo fare un tour tutto al femminile, perché nessuno sarebbe venuto a vederci. «Le donne non vendono come gli uomini». Poi sono andata in tour con Cher e abbiamo suonato per un milione di persone. Tutte stronzate.

Che consiglio ti sentiresti di dare alla giovane Cyndi?
Le direi di non scornarsi sempre contro quelli che la ostacolano. Meglio trovare un modo per aggirarli. Bisogna guardare oltre per vedere cosa c’è e come ci si arriva. Non serve buttarsi a testa bassa e combattere contro tutti, non sempre funziona.

Per cosa ti è capitato di litigare?
Mi hanno detto un sacco di cazzate. «Perché non canti come questa persona? Perché non indossi solo jeans e maglietta?». Io rispondevo: «Ok, ne riparleremo quando avrò fatto una lobotomia». C’era un tizio di una casa discografica che, dopo avermi guardato le tette, mi ha chiesto perché non mettevo jeans e maglietta. Ma ho trovato anche degli alleati e persone che la pensavano come me. Le cose vanno meglio quando hai a che fare con gente che la vede al tuo stesso modo. È così che dovrebbe funzionare, non bisognerebbe rimanere lì ferme a lottare.

Chi sono stati i primi idoli a ispirarti, da bambina?
Mia madre ascoltava di continuo le colonne sonore degli spettacoli di Broadway. Ho scoperto Barbra Streisand quando è uscito Funny Girl. Sono italiana, quindi ho imparato presto a sbrigare i lavori di casa: facevo il bucato nello scantinato cantando a squarciagola con lei. Poi, un Natale, mio cugino ci ha regalato Meet the Beatles e Meet the Supremes. A quel punto, improvvisamente, si è creato un divario tra la musica di mia madre e la mia. A quei tempi, le stazioni radio trasmettevano tutto mischiato: passavano Sly and The Family Stone, poi Sonny & Cher, Eric Clapton, Joan Baez e Otis Redding… era come una tavolozza meravigliosa di canzoni. Guardavo sempre James Brown in tv, con la scenetta in cui gli mettevano la mantella sulle spalle per accompagnarlo giù dal palco e lui si arrabbiava e la gettava via. Non avrei mai pensato che sarei arrivata a farlo anch’io.

Foto: Ruven Afanador

Come hai cominciato a far musica?
Ho iniziato come folksinger, suonavo la chitarra, roba strana. Al liceo ero una specie d’anima persa che vagava immersa nella musica e nell’arte. Ho studiato moda, la mia famiglia veniva da quel settore. Creavano modelli, cucivano, tagliavano, cose così. Io però volevo cantare. Non ho finito la scuola e ho fatto tanti lavori. Ho lavorato anche all’ippodromo di Belmont, come defaticatrice. Sono arrivata in autostop fino in Vermont, pulivo le gabbie in un canile. Ho fallito in ogni lavoro che ho provato a fare, ho vissuto tante vite diverse prima di diventare famosa.

Pensavo che cantare il rock fosse difficilissimo e che una ragazza non potesse farlo. Era roba solo per uomini, a eccezione di Janis Joplin, che si strappava la voce e ingollava whisky. Janis e Grace Slick erano le mie eroine, le donne a cui mi ispiravo. Anche Joni Mitchell, che ha vissuto la sua vita come un uomo e ne ha scritto, e ha fatto pure le copertine dei suoi album. Pensavo: wow, sa dipingere, sa suonare, sa scrivere. Non è perfetto? Non è la vita migliore che si possa desiderare?

Quand’hai capito che lo avresti potuto fare anche tu?
Ero affascinata dalle groupie, da come si vestivano e dal loro aspetto: erano così rock’n’roll. Al Fillmore East, se non avevi il biglietto per un concerto, potevi fare amicizia con le ragazze cool che c’erano fuori, erano fantastiche. Quello sì che era un bel locale. Una volta ci sono andata dopo il lavoro: c’erano gli Allman che suonavano e Johnny Winter apriva insieme a Rick Derringer ed Elvin Bishop. Ero fuori con le ragazze, fumatissima, senza biglietto. Sono state le ragazze a dirmi: «Sai come puoi fare? Quando arriva la band, entra con loro». Quando sono arrivati Johnny Winter e Rick Derringer mi sono imbucata dietro di loro. Il road manager, Red Dog, mi ha vista, pensavo mi avesse beccata e invece mi ha detto: «Ma che fai? Sei in ritardo! Dovresti essere sul palco adesso!». Credeva fossi una delle coriste. Sono rimasta a lato del palco a guardare Elvin Bishop e le sue coriste, ho pensato che avrei potuto farlo anch’io, che non era poi così difficile.

In che modo hai trovato la tua voce, come cantante?
Durante un provino ho commesso un errore e non mi sono fermata, perché devi tirare sempre dritto, come se niente fosse, no? Se sbagli, fai finta di nulla. Non puoi tornare indietro, devi tenere duro. Cantavo I’ve Got to Use My Imagination di Gladys Knight, era per una cover band. Ero così nervosa che sono salita di un’ottava e all’improvviso mi sono usciti dei suoni che non sapevo nemmeno di essere in grado di emettere. Guardavo le facce delle persone, durante l’audizione, e pensavo: «Ragazzi, voi siete sorpresi, ma non avete idea di quanto lo sia io».

È stato l’inizio del mio viaggio. Molto presto mi è capitato di perdere la voce. Ma succede, nel corso di una carriera. La prima volta che mi è andata via, un dottore mi ha detto: «Signorina Lauper, non deve mai più cantare questo rock’n’roll, le fa male. Dovrebbe fare del country & western, come Dinah Shore». E io: «Oh Gesù, Dinah Shore? Ma scherziamo?». Sono uscita da quello studio medico tipo Bette Davis in Tramonto.

Come sei riuscita a recuperare la voce?
Ho preso un voice trainer e mi sono iscritta a una scuola di jazz. Ma mi hanno cacciata, perché non volevo mollare il mio gruppo rock. Pensavano che avessi un talento naturale per il canto jazz, che avrei dovuto continuare col jazz, che quello fosse la mia strada, non il rock’n’roll. Comunque lì ho imparato molto. Mi hanno insegnato a cantare nota per nota gli assoli di sassofono di Lester Young. E poi Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Frank Sinatra, la roba degli anni ’50 contenuta in The Capitol Years. Poi però m’hanno buttata fuori, così non ho potuto approfondire gli anni di Frank alla Capitol.

Ma non ti sei arresa.
Non lo faccio mai. La mia band faceva le prove sull’Ottava Avenue e passavo sempre davanti a un ufficio postale. Ogni volta vedevo una scritta che diceva: “Né la pioggia, né la neve, né il caldo, né l’oscurità della notte impediscono a questi corrieri di completare rapidamente il giro di consegne”. La leggevo e pensavo: sì, proprio come me. Neve, pioggia, ghiaccio, non mi ferma nulla. Alla fine ce la si fa, se non ci si arrende.

Quali sono le regole più importanti che segui?
Cerco di essere gentile con le persone che ho intorno. Bisogna meditare, fare esercizio fisico, cercare di godersi la vita, perché è breve e poi si muore. È importante creare con gioia.

Hai sempre avuto uno spirito indipendente. Come hai fatto a conservarlo per tutta la tua carriera?
Ho sempre avuto pochissima tolleranza per le stronzate. Nella vita te ne propinano un sacco e dopo un po’ devi imparare a capire cosa c’è sotto, a fare un passo indietro e dire: non sono obbligata a buttarmi in questa cosa. Quando qualcosa non ti torna, lascia stare. Allontanandoti hai una visuale migliore. È come quando dipingi una tela e l’insegnante ti dice: «Ok, ora fai un passo indietro e osserva quel che stai facendo». È così che si vede più chiaramente il quadro.

Da Rolling Stone US.

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